L’uccisione dell’ex presidente Saleh, il 4 dicembre, riporta alla ribalta della cronaca il sanguinoso conflitto. Nessun personaggio ufficiale si era invece mosso per la strage dei bambini a causa del colera e della fame, per non parlare dei morti sotto i bombardamenti o lasciati sul terreno.
Saleh è stato ucciso da quei ribelli Houthi (appoggiati dall’Iran) con cui si era strumentalmente alleato e che si apprestava a tradire in favore dell’Arabia Saudita in cambio di un ritorno al potere, da cui era stato allontanato nel 2012. La morte di Saleh fa svanire l’illusione di una vittoria saudita attraverso la scorciatoia dell’accordo e ripropone, dopo la Libia e la Siria, un nuovo disastro annunciato.
Mentre Trump sta facendo scoppiare la mina di Gerusalemme, il segretario di Stato Usa, Tillerson, richiama l’Arabia Saudita e il principe ereditario a misurare le loro operazioni in Yemen, Libano e contro il Qatar” valutandone le possibili conseguenze.
Preoccupato evidentemente dei troppi fronti che si vanno aprendo con conseguenze imprevedibili.
Scrivevamo nel luglio 2015 che “È riduttivo considerare quella in atto in Yemen come una guerra per procura fra Iran e sauditi, come è limitativo ricondurre la guerra civile in corso da anni in Yemen alla sola contrapposizione Sciiti-Sunniti” (cfr. PM n. 38 Medio Oriente: I conflitti aumentano e si incancreniscono) “Nord e Sud sono stati divisi per decenni e riunificati con una operazione di vertice nel 1990” senza ovviamente risolvere i problemi economici e sociali che sono da far risalire a circa sessant’anni di strapotere di una ristretta élite parassitaria e corrotta che nulla ha fatto per la massa della popolazione, che anche prima del conflitto viveva per il 60% con un reddito inferiore ai 2 $ al giorno.
“La casa Saud ha sempre considerato lo Yemen il proprio cortile di casa, dove estendere la sua influenza, contendendolo negli anni ’60 all’Egitto di Nasser e alla Russia e oggi all’Iran.”
“Come logico le potenze regionali hanno esaltato ogni differenza religiosa o culturale che potesse essere utilizzata nei loro contenziosi al solo fine di garantirsi il controllo del paese e in particolare del porto di Aden, sentinella dello stretto di Bab el Mandeb fra Mar Rosso e Oceano indiano.”
Gli avvenimenti recenti prendono avvio dalla ennesima ribellione nell’autunno 2014 degli Houthi, una popolazione che vive sugli altipiani del Nord, organizzata da un gruppo militar- politico-religioso (Ansar Allah); da anni protestano per l’eccessiva subordinazione agli interessi sauditi, ma anche in difesa di un modello economico agropastorale, basato sull’autoconsumo e minacciato dalla borghesia affaristica del Sud. La protesta si esprime in forma religiosa, rivendicando un ritorno alla società islamica delle origini, non svenduta all’Occidente e non corrotta dal denaro.
La causa occasionale è il progetto federalista del governo Hadi, volto a emarginare il Nord agricolo e arcaico, densamente popolato, povero di risorse energetiche, privo di sbocchi sul mare, dove appunto risiedono gli Houthi. Risorse e investimenti sarebbero toccati tutti invece all’area di Aden, dove si trovano i residui giacimenti di petrolio e il grosso delle attività manifatturiere e commerciali.
Dal settembre 2014 i miliziani houthi si installano nella capitale politica Sana’a, costringendo il presidente Hadi, pedina dell’Arabia Saudita, a rifugiarsi a Riyad. I sauditi delegano la reazione militare alla locale Al Qaeda (qui detta Aqpa, Al-Qaeda della penisola Araba), da sempre finanziata dal principe saudita Sultan. Un salto di qualità per gli Houthi è rappresentato dall’inedita alleanza agli inizi del 2015 con l’ex presidente Saleh e con reparti dell’esercito, dell’intelligence e dell’amministrazione di San’a che ancora fanno riferimento a lui. Nel marzo 2015 l’Arabia Saudita interviene a bombardare le basi houthi, come del resto ha già fatto nel 2010, mette insieme una coalizione “sunnita” con i paesi del Consiglio per la Cooperazione nel Golfo, tranne l’Oman (Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Qatar) più Sudan, Egitto, Marocco, Giordania e Pakistan. E ottiene l’appoggio esplicito e una cospicua fornitura militare da Usa e Gran Bretagna (e in misura minore dalla Francia). Immediatamente gli Houthi ricevono aiuti dall’Iran con il benevolo appoggio della Russia. L’Iran nega ufficialmente qualsiasi coinvolgimento. La stampa collega l’intervento iraniano al fatto che gli Houthi sono seguaci dello zaydismo, una variante settaria dell’islam sciita e sottostimando invece l’importanza del Mar Rosso e del Golfo di Aden come corridoio energetico che collega Mediterraneo e Oceano Indiano, vitale per l’export iraniano. Tanto che dal 2008 navi militari iraniane pattugliano, assieme a navi di altri paesi, il Mar Rosso, ufficialmente per tenere a bada i pirati somali.
Quello saudita è un intervento con molte sfaccettature; serve a ribadire il controllo su Aden e sul mar Rosso, ma anche a ribadire il ruolo guida di Riyad sugli altri stati della penisola arabica (come ha fatto di recente mettendo sotto sanzione il “ribelle Qatar”). Serve a esaltare la sua capacità egemonica ad esempio nei confronti dell’Egitto, del Sudan e del Senegal costretti a mandare contingenti militari che combattano sul terreno al posto degli uomini della penisola arabica.
É anche l’inizio di una operazione dinastica, perché la spedizione in Yemen è fortemente voluta dal trentunenne figlio del re Mohammad bin Salman e fortemente osteggiata da Muhammad bin Nayef, nipote del re e nel 2015 anche erede al trono, poi giubilato a vantaggio del primo.
E infine quello in Yemen è un attacco preventivo in chiave anti-proletaria: impedire nella propria area di influenza un “contagio” di rivolta sociale. Il governo saudita siede su un vulcano rappresentato da un lato da lavoratori supersfruttati spesso stranieri, anche yemeniti, accettati quando servono, espulsi senza complimenti quando non servono più (l’ultima volta nel novembre 2013), dall’altro su minoranze etniche e religiose (dai curdi agli sciiti) tenute a bada col pugno di ferro.
Dietro la rivolta degli Houthi c’è una popolazione affamata che vive in condizioni miserrime; in Yemen come in Bahrein gli sciiti si collocano negli strati più deprivati della popolazione. Se si esclude Aden e Ta’ziz, lo Yemen non è un paradiso esotico come certe immagini cartolina possono far credere; su 25 milioni di abitanti, 10,6 milioni sono sottoalimentati. Il 63% della popolazione ha meno di 24 anni; il 43% dei ragazzini sotto i 14 anni sono sottopeso, la mortalità infantile è del 9%. Metà della popolazione non ha accesso all’acqua potabile, che scarseggia perché si sono consumate senza criterio le riserve di acqua fossile non rinnovabili. Il 32% degli abitanti è analfabeta. Se tanti movimenti radicali vi si radicano è perché la protesta sociale cova sotto la cenere ed esplode a intervalli regolari. L’ideologia degli Houthi rispecchia però la loro storia e la situazione del paese, non è una rivolta per il progresso degli sfruttati quanto una posizione precapitalista di strati contadini emarginati da interessi economici più forti.
La violenza dei bombardamenti sauditi, che hanno colpito soprattutto obiettivi civili hanno però suscitato una profonda ostilità nella popolazione yemenita. I morti per cause direttamente belliche sono circa ventimila, ma non è possibile valutare quelle per malnutrizione (che minaccia 7 milioni di persone, di cui 2,5 milioni sono bambini) e malattia (sono stati messi fuori uso la metà degli ospedali e dei presidi medici), infuria il colera (320 mila casi). Tre milioni di persone (sui 25,6 milioni di abitanti) hanno dovuto lasciare le loro case. Il tutto nell’indifferenza delle agenzie dell’Onu (ma cosa sono le vittime in Yemen a confronto coi 110 miliardi di $ di contratto per la vendita di armi ai Sauditi promesso da Trump nel maggio di quest’anno?).
E anche sul piano militare l’offensiva saudita segna il passo, si è rivelata costosa e inconcludente. E i gruppi fondamentalisti dell’Hadramautsono fuori controllo. Il rischio è che il conflitto si regionalizzi, acutizzandosi, e si apra un fronte di guerra marittimo sul Mar Rosso, “una minaccia formidabile per i traffici marittimi che connettono il Mar Mediterraneo con l’Oceano Indiano” (Analisi Difesa 26 febbraio 2017).
La scheda successiva ha lo scopo di dare alcuni elementi informativi per meglio comprendere le ragioni storiche del conflitto:
Fin dal VII sec. il Nord Yemen pratica una variante dello sciismo, lo zaydismo. Il nome viene da Zayd, fratello di Muhammad al-Bāqir (676-731 d.C.), il quinto imam sciita, che gli yemeniti non riconobbero preferendogli Zayd. Una “eresia” quindi lo zaydismo che permise allo Yemen del Nord di rivendicare la sua autonomia rispetto alle vicende politiche mediorientali. Zayd fondò una dinastia di imam locali che funzionarono da autorità religiosa e insieme politica (un po’ come i vescovi conti del nostro Medioevo) fino al 1962 quando l’ultimo viene deposto e lo Yemen del Nord diventa repubblica. Questa lunga sopravvivenza di un papa-re si spiega con l’arretratezza sociale del Nord che vede il predominio di aristocrazie terriere a base tribale su plebi agricole in condizioni semi servili.
Il Nord è comunque privilegiato per il clima gradevole sulla costa e sugli altipiani, quindi è più popoloso; produce caffè pregiato (il nostro nome Moka deriva dal loro principale mercato di commercio del caffè), prodotti agricoli e della pastorizia. Il caffè suscita l’interesse degli egiziani che esercitano una sorta di protettorato largo, dai Fatimidi (1117 d.C.) ai Mamelucchi, passando per gli Ayyubidi, anche durante l’epoca ottomana, perché a Istanbul quella provincia lontana e non più tanto ricca interessava poco. A partire dal ’700 infatti il caffè yemenita, che si vendeva in Europa, Nord Africa e Medio Oriente perde di competitività a vantaggio del caffè delle Antille. Le grandi piantagioni sono sostituite in parte da orti coltivati col sistema arabo delle huertas per produrre prodotti agricoli pregiati, coltivati da contadini liberati sia pure sotto l’ombrello dei grandi proprietari terrieri.
Il cosiddetto Yemen del Sud è composto da due aree diversissime: Aden e lo Hadramaut.
Aden ebbe una storia autonoma come città-stato facente capo a un porto.
L’Hadramaut, in antico produttore di incenso, è una regione anch’essa di altipiani ripidi lungo la costa e una pianura paludosa all’interno, con un clima ingrato, per cui rimase sempre poco popolato, ma percorso dal traffico carovaniero di lunga distanza. Resistette duramente alla conquista araba, rifiutò a lungo l’islamismo del Medio Oriente, poi fu domato, ma diventò comunque il rifugio preferito degli oppositori religiosi e politici, grazie alla scarsa popolazione e alla natura ostile. Alternò periodi di indipendenza e sudditanza nei confronti dell’Egitto e dello Yemen del Nord.
Nel 1839 gli inglesi tolsero Aden ai portoghesi e trasformarono anche l’Hadramaut in un protettorato inglese, collegato all’India britannica, e vi avviarono un certo sviluppo industriale e urbano.
Con l apertura del Canale di Suez (1869) e la rivalutazione commerciale del Mar Rosso lo Yemen risveglia l’interesse degli Ottomani che nel 1872 occupano San’a, capitale del Nord-ovest. Questo interesse viene ereditato dai Saud che, conducendo la loro campagna militare di riunificazione dell’Arabia, conquistano l’Hejaz (1926) e l’emirato di Asir (1932). Tentano di conseguenza di incorporare anche lo Yemen del Nord, ma le truppe inglesi intervengono, la GB garantisce l’indipendenza e i confini dello Yemen e in cambio ottiene dallo Yemen del Nord il riconoscimento del protettorato inglese su Aden (1934)
Dopo la seconda guerra mondiale
Nel tentativo di sottrarre Aden agli inglesi l’imam-re dello Yemen del Nord punta a una alleanza con Egitto e Arabia Saudita in funzione genericamente “anticoloniale”; entrano nell’aprile 1956 nel patto di Gedda, la cui durata è effimera perché ben presto Nasser e i sauditi entrano in conflitto. Dopo la crisi di Suez (luglio-ottobre 1956), ad Aden, peraltro impoverita dalla chiusura del canale, partono pesanti manifestazioni che chiedono l’indipendenza, ma gli inglesi resistono. Nasser finanzia nel 1962 un colpo di stato appoggiato dall’esercito, che depone l’imam in carica, accusato di essere una marionetta corrotta nelle mani dei sauditi. Nasser manda reparti dell’esercito egiziano e impone la proclamazione della repubblica. I sauditi immediatamente foraggiano e armano i proprietari terrieri che appoggiano il deposto imam. Scoppia una guerra che contrappone città e campagne, Egitto e sauditi. Nel ’67 gli egiziani, impegnati nella “guerra dei sei giorni” ritirano le truppe e al governo della repubblica si succedono governi militari, che non riescono a soffocare la rivolta monarchica degli altipiani. Nel 1970 l’Arabia Saudita accetta la repubblica ma impone il suo protettorato sul Nord (rientro dei monarchici esiliati, epurazione degli ufficiali pro Egitto) e scarica le frustrazioni legate alla miseria economica sull’idea che si deve procedere alla riunificazione con Aden e l’Haudramat. Viene ceduta una fetta consistente di territorio ai sauditi e consiglieri e istruttori militari sauditi puntellano il governo, in cui si susseguono al governo generali o membri della famiglia del vecchio imam. Dallo Yemen del nord devastato e impoverito migliaia di contadini emigrano per lavorare nell’industria petrolifera e nell’edilizia Saudita, ma anche in Kuwait e in Iraq, l’agricoltura viene parzialmente abbandonata, le famiglie vivono delle rimesse degli emigrati.
Nel 1972-74 scoppia un conflitto non guerreggiato con lo Yemen del Sud: incidenti di frontiera, raid nel territorio nemico, finanziamento dei ribelli interni del vicino. Nel 1978 diventa presidente il militare Saleh, che sarà poi presidente dello Yemen unificato fino al 2012.
Nello Yemen del Sud lo sviluppo commerciale e manifatturiero ha creato consistenti strati urbani di moderno proletariato, commercianti, impiegati. L’Urss punta su questi strati per appoggiare nel 1963 la rivolta armata contro gli inglesi, guidata da un Fronte di Liberazione Nazionale. Nel 1967 gli inglesi lasciano, il paese diventa indipendente, l’FNL diventa Partito Socialista Yemenita, partito unico al governo con capitale Aden, totalmente filosovietico. Viene creata una “repubblica popolare” che nazionalizza terra e industria; satellite dell’Urss, il paese ospita molti leader palestinesi. Ma il paese arranca economicamente. Anche dal Sud si parte per andare a lavorare nei paesi del Golfo. Nel 1980 il 40% del PIL dei due paesi è rappresentato dalle rimesse degli emigrati. La scoperta di pozzi petroliferi sembra risollevare le sorti economiche, anche se poi le riserve risultano sopravvalutate. Un effetto positivo ebbe anche la riapertura del canale di Suez nell’83 e la ripresa dei traffici commerciali.
Nel 1986 l’inizio della crisi dell’Urss si ripercuote immediatamente sul governo dello Yemen del Sud: due fazioni militari si affrontano nelle strade di Aden, l’una filosovietica l’altra favorevole a una apertura all’Arabia Saudita e all’Occidente; lo scontro è feroce, 11 mila i morti lasciati sul terreno, esecuzioni sommarie, devastata la città.
Ne esce un governo che liberalizza l’economia, privatizza le aziende di stato e inizia trattative col Nord per la riunificazione.
La riunificazione viene realizzata nel 1990, ma, ovviamente, non risolve le contraddizioni. Nel ’91 al Nord rientrano più di un milione di emigrati, cacciati dall’Arabia Saudita perché il governo dello Yemen all’epoca ha simpatizzato per Saddam. Il regime del presidente-dittatore Ali Abdallah Saleh, espressione del Nord, liberalizza ulteriormente l’economia e questo significa la chiusura di molte fabbriche al Sud. Già nel 1994 esponenti politici del Sud denunciano la marginalizzazione dell’economia della loro area, l’80% delle risorse petrolifere sono al Sud ma i profitti vanno tutti nella capitale. Anni dopo un’inchiesta ONU denuncia che Saleh e la sua cricca ne hanno ricavato una fortuna personale di 60miliardi di $. Infine il Sud vuole conservare il suo esercito separato da quello del Nord, con un comando militare autonomo. Scoppia la guerra di secessione del Sud, foraggiata dall’Arabia Saudita, ma repressa nel sangue dall’esercito del Nord, probabilmente foraggiato e armato dall’Iraq di Saddam Hussein.
Nel 1995 lo Yemen è coinvolto in un conflitto guerreggiato con l’Eritrea per il controllo delle isole Hanish nel Mar Rosso, cui seguono una serie di scontri di frontiera con l’Arabia Saudita, che tenta di invadere anche alcune altre isolette nel mar Rosso. Contemporaneamente i sauditi foraggiano nell’Hadramaut gruppi che compiono attentati antigovernativi e che aderiranno poi ad Al Qaeda.
Dopo l’attacco alle torri gemelle gli Usa offrono sostanziosi aiuti al presidente Saleh perché abbandoni l’alleanza con l’Iraq e si schieri con il fronte “antiterrorista”. Saleh accetta per evitare il crollo finanziario a causa del debito pubblico, ma anche per porre fine al secessionismo del Sud. L’Arabia Saudita ottiene di poter finanziare madrasse e scuole coraniche nell’intento di presiedere alla formazione dei quadri tecnici e politici del paese. L’invadenza della religione saudita suscita l’irritazione fra le tribù del Nord, che denunciano come immorale la condotta della casa reale saudita, la sua fame di denaro (le tribù sono fortemente colpite dall’aumento del prezzo del petrolio saudita). Ciò le rende terreno fertile per la creazione del gruppo politico religioso zaydita, a base tribale, (la gioventù credente) che poi organizzerà gli Houthi (e le cui ribellioni si susseguono nel 2005, 2007, 2011). É in questa fase che probabilmente l’Iran comincia a vedere negli Houthi possibili alleati per danneggiare gli interessi Sauditi. Anche gli ayatollah sciiti dell’Iraq danno il loro sostegno morale alla ribellione zaydita.
Ma anche al Sud, nell’Hadramaut, si formano gruppi guerriglieri indipendentisti anti-sauditi.
Tutto il paese manca dei servizi elementari (scuole, sanità), la corruzione è endemica. Saleh governa come un dittatore appoggiandosi a una cricca di affaristi e profittatori che si spartiscono le cariche pubbliche, civili e militari. Nel 2009 Iran e Arabia Saudita si fronteggiano nel mar Rosso con le navi da guerra. I guerriglieri somali e la lotta ad Al Qaeda sono il pretesto per gli Usa per pretendere dallo Yemen una base sull’isola di Socotra (2010), da cui possono lanciare droni su aree del paese; in cambio gli Usa hanno fornito 500 milioni di armi all’esercito yemenita.
Lo Yemen del Sud insorge nuovamente nel 2010 e poi durante la primavera araba, ma nel 2011 anche il Nord scende in piazza per mesi, finché i sauditi temendo di perdere influenza impongono nel febbraio 2012 a Saleh le dimissioni e lo sostituiscono con il suo vice Abd Rabbo Mansour Hadi, che è nato ad Aden e gode del favore degli ambienti commerciali e finanziari. Tuttavia Saleh continua a risiedere a San’a, dove la sua tribù e la sua famiglia controllano interi reparti della polizia, dei servizi segreti e dell’esercito.
Hadi si è dimostrato incapace di risolvere problemi come la gravissima scarsità di acqua potabile; l’arretratezza dell’agricoltura (che occupa il 54% della manodopera e produce il 15% del PIL), di utilizzare i proventi del petrolio per sviluppare le infrastrutture e i servizi, di arginare la corruzione dei funzionari e la disoccupazione dei giovani (54%).