Usa-India, le (buone) ragioni di un patto

Usa, India, Nucleare

CORRIERE Ven. 10/3/2006
Marta Dassu’

Nucleare e Strategie


L’INDIA non ha mai esportato tecnologia nucleare, è
stato giusto riconoscerla come potenza nucleare responsabile e associarla nel
contrastare le aspirazioni nucleari iraniane.

Anche se l’uso di un “doppio standard” nel far
rispettare il Trattato di Non-Proliferazione nucleare (TNP) incoraggia
l’adozione della bomba atomica, va riconosciuto che il TNP non funziona più da
tempo e che acquisire un alleato contro l’IRAN è comunque un buon risultato.


Condannare le aspirazioni
nucleari dell’ Iran e insieme riconoscere ex-post quelle dell’ India, è
un esempio tipico di doppio standard. Nelle questioni di proliferazione, l’
amministrazione Bush ha scelto apertamente una linea discrezionale
. Secondo i critici, è un peccato mortale perché
segna la fine di qualunque cosa assomigli a un regime internazionale, cioè a
regole valide per tutti. Secondo i fautori della svolta pro-India di Bush, è un
segno di realismo: ciò che importa, alla fine, non è che qualcuno proliferi ma
chi lo fa e come
. Esistono, in realtà, ragioni giuste e ragioni sbagliate
per criticare l’ accordo di cooperazione nucleare fra la più grande democrazia
occidentale, gli Stati Uniti, e la più grande democrazia emergente, l’ India. E’
giusto sottolineare che Bush ha ottenuto meno di quanto avrebbe dovuto: l’
India aprirà alle ispezioni internazionali solo una parte dei propri siti
nucleari. Intanto però comincia a farlo
, ragion per cui il direttore dell’
Agenzia atomica di Vienna, El Baradei, ha commentato positivamente un accordo
che non avrà comunque vita facile al Congresso americano.
Conveniva trasformare una potenza nucleare di fatto in una potenza quasi di
diritto?
Per gran parte delle tesi critiche, fra cui quella di
Filippo Andreatta su questo giornale, non conveniva proprio: il risultato è
di dare il colpo di grazia al Trattato di non proliferazione nucleare in vigore
dal 1970 (Tnp) e insieme di incoraggiare tutti gli altri aspiranti a uno status
nucleare, a cominciare proprio da Teheran
.
E’ una preoccupazione fondata; ma lo sono anche altre, io credo. Va detto,
per cominciare, che il Tnp non costituisce a questo punto una solida barriera
verso chi intenda acquisire armi nucleari
. E’ vero: negli anni ‘ 60 la
previsione (di Kennedy, fra gli altri) era che sarebbero diventati nucleari
altri venti Paesi, cosa che non è accaduta. Ma è vero anche che i confini
fra uso pacifico e uso militare delle tecnologie nucleari diventano sempre più
labili
. Rispettando la lettera del Tnp, un Paese ha diritto di sviluppare
energia nucleare a scopi pacifici (è quanto l’ Iran rivendica di fare);
tuttavia – e dati i «buchi» esistenti nel Trattato – ciò facilita anche il suo
accesso alle armi nucleari. La traiettoria della Corea del Nord è
sufficientemente rivelatrice. Che un Paese rispetti il confine fra nucleare
civile e nucleare militare è affidato a ispezioni internazionali; ma è al
fondo, nelle percezioni esterne, una questione di fiducia politica
.
E’ giusto avere fiducia nell’ India? Sì, e non solo o non tanto per una
convinzione generale nella maggiore affidabilità dei sistemi democratici, ma
per i comportamenti di fatto che l’ India ha tenuto dal 1974 in poi, dal suo
primo esperimento nucleare. A differenza del Pakistan, della Corea del Nord o
anche della Cina, l’ India non ha mai esportato tecnologie sensibili
. La
bomba nucleare, nel suo caso, è veramente un progetto nazionale, che risponde a
logiche di prestigio e a obiettivi di bilanciamento della Cina (condivisi da
Washington)
. Che ciò abbia innescato la risposta del Pakistan – regime che
invece ha proliferato attraverso il famoso circuito di Khan e di cui è saggio
non fidarsi mai troppo – è stato il prezzo che tutti abbiamo pagato alla scelta
nucleare dell’ India. Questo è ormai un dato della storia, da cui è impensabile
«scendere»: la denuclearizzazione del subcontinente indiano è altrettanto
improbabile del disarmo nucleare totale degli Stati Uniti, della Cina o della
Francia
.
Siamo dove siamo, quindi. E dove siamo conviene rinunciare alle ipocrisie e
considerare l’ India per quello che è: una potenza nucleare responsabile. Una
potenza che ha votato a Vienna per fermare la corsa nucleare dell’ Iran: se l’
accordo di Bush servirà a questo – e cioè ad ancorare New Delhi dalla nostra
parte, nel lungo braccio di ferro con Teheran – avrà raggiunto un obiettivo importante
.

E’ un se decisivo per altre ragioni. Come la Cina, l’ India è alla
disperata ricerca di energia
, dati i suoi tassi di crescita economica. E
più energia significa nuovi rischi geopolitici (gasdotti dal Golfo) e maggiori costi
ambientali (un aumento degli enormi consumi indiani di carbone inquinante). In
uno scenario del genere, la cooperazione nucleare civile con New Delhi è forse
il minore dei mali possibili. Lo dirà la Francia, dopo l’America
.
Detto tutto ciò, certo: l’ ideale sarebbe che gli Stati Uniti avessero deciso
di riformare il regime di non proliferazione non in modo unilaterale e nei
fatti ma con un accordo internazionale. Il punto è che questa strada è già
fallita una volta: nel maggio scorso a New York, con il clamoroso insuccesso
della Conferenza di revisione del Tnp. Conviene provare di nuovo, tenendo conto
che il mondo del 2006 ha ormai molto poco a che fare con quello del 1970, come
dice Bush; ma aggiungendo, cosa che Bush invece non dice, che qualunque sistema
di sicurezza funzionante avrà bisogno non solo di nuovi alleati fra i Paesi
emergenti ma anche di criteri condivisi. Tanto più in campo nucleare
.

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