Con la firma del Capo dello Stato, l’Italicum è legge. Le lamentele avanzate dalla cosiddetta “sinistra” del PD non si sono concretizzate in un voto contrario; solo a posteriori si registrano alcune fuoriuscite, ma fino all’ultimo i “dissidenti” non hanno mai voluto mettere in forse l’attività del governo.
Va chiarito fin d’ora che il Parlamento non è un centro decisionale: da molto tempo i provvedimenti legislativi vengono stesi dal Consiglio dei Ministri anziché dalle Camere, che si limitano a ratificare le decisioni già prese. Alla stesura di una legge importante come il Jobs Act il Parlamento ha fatto solo da spettatore, mentre la stessa legge elettorale – che secondo l’ideologia liberale dovrebbe essere fondamentale per la natura dello stato – non è neppure stata voluta da una maggioranza all’interno del Parlamento, ma da una all’interno del governo, quindi solo una minoranza dei parlamentari sosteneva la legge con convinzione. Lo stesso governo Renzi, il grande legislatore del momento, è nato come il terzo di una serie di governi extraparlamentari creati nelle stanze del Quirinale.
Fatta la debita misura dell’importanza degli organi elettivi, va compreso il disegno delle riforme istituzionali: sveltire le procedure parlamentari accentrando ulteriormente il potere nelle mani di un esecutivo che possa contare su un’ampia maggioranza di deputati e ridurre il Senato a un’emanazione degli enti locali con poteri molto più limitati, soprattutto in campo di bilancio. Si punta ad un ridimensionamento delle clientele e delle frazioni borghesi a livello locale – che esercitano una forte influenza all’interno dei collegi elettorali, sia finanziando direttamente i candidati sia promuovendo la loro immagine attraverso mass-media locali – mentre si vuole rafforzare il ruolo politico del grande capitale e delle sue lobby – che possono influenzare i risultati elettorali a livello nazionale sia usando grandi televisioni e testate giornalistiche sia versando i contributi alle segreterie centrali dei partiti.
La legge ha un impianto anomalo rispetto ad altri sistemi elettorali: il ballottaggio non viene effettuato collegio per collegio, ma a livello nazionale, e si svolge solo se nessuna lista riesce a raccogliere il 40% delle preferenze. Lo scopo è fornire una maggioranza stabile, ma non è da escludere che la lista vincente si spacchi per far nascere una traballante maggioranza trasversale basata sul trasformismo, proprio come avvenuto più volte coi governi delle larghe intese.
E’ comunque una palese negazione del principio della maggioranza su cui si baserebbe la democrazia borghese: una minoranza di voti validi darebbe corpo a una maggioranza capace di fare il bello e il cattivo tempo nel paese; inoltre considerato un astensionismo che si aggira intorno al 40%, un eventuale vincitore già al primo turno potrebbe governare con l’appoggio del solo 24% degli elettori, mentre in caso di ballottaggio la partecipazione e la base elettorale scenderebbero ulteriormente. Aggiungiamo il forte potere dato agli apparati di partito – i capilista vengono decisi dalle segreterie e sono i primi ad essere eletti, le preferenze funzionano solo dal secondo posto in poi – e abbiamo il peso di quanto valgano le belle parole sulla “sovranità popolare”.
Altra questione sono gli obbiettivi di convenienza dei legislatori per massimizzare il risultato elettorale della propria parte politica: la soglia di sbarramento – il 3% – sembra fatta su misura per salvare gli alleati di governo, mentre il premio di maggioranza alla Camera e un Senato basato sulle regioni e gli enti locali darebbero al PD il pieno controllo del Parlamento. Se il calcolo è questo, si tratta di una scommessa azzardata: capita spesso che i flussi di voto trasformino le riforme elettorali varate ad hoc in trappole che favoriscono gli avversari, come quando nel 2005 sul finire della legislatura il governo Berlusconi varò una legge che avrebbe dovuto garantirgli la vittoria (il cosiddetto “Porcellum”) ed invece avvantaggiò il centrosinistra. Che finisca anche ora allo stesso modo?
Ma a prescindere dai calcoli di bottega e dell’effettiva efficacia della legge, come comunisti sappiamo bene che non è nelle urne che i lavoratori possono farsi valere. Gli allarmi per la formazione di un regime autoritario lasciano il tempo che trovano: già oggi per entrare il Parlamento servono grandi quantità di denaro per le spese elettorali e l’appoggio – o per lo meno l’accettazione – dei mass-media e dei poteri economici che li guidano; anche con un Parlamento realmente sovrano, eletto proporzionalmente e senza astensionismo la democrazia liberale sarebbe comunque un meccanismo di rappresentanza delle frazioni borghesi. E’ un carattere comune alle varie democrazie occidentali, dalle cene da mille euro italiane ai milioni di dollari spesi nelle elezioni statunitensi; la corruzione e le clientele che contraddistinguono le istituzioni borghesi sono solo l’aspetto più macroscopico di una mercificazione della politica inevitabile sotto il dominio del mercato.
Solo l’unione dei lavoratori e la loro lotta contro il padronato può garantire loro dei risultati effettivi, sia nel mitigare gli effetti del capitalismo, sia nell’abbatterlo per sempre.