Con l’uscita di questo terzo volume (dopo “Lotta Comunista: Il gruppo originario.1943-1952”; “Lotta Comunista. Verso il partito-strategia.1953-1965”) Lotta Comunista cerca di canonizzare la storia del partito “a futura memoria”, creando ad uso interno il mito di un “modello bolscevico” ormai definitivamente insediato nella metropoli italiana.
Anche se nel finale, come lascito, fanno dire a Cervetto: “Vi auguro di sbagliare molto”, praticamente in tutta questa storia agiografica di sbagliato c’è nulla, o quasi.
Alcuni filoni ripetuti fino alla nausea danno l’idea delle “preoccupazioni” che stanno alla base del volume.
Uno di questi è quello della “continuità delle generazioni” del partito: da Marx in poi, con approdo agli ultimi rampolli accasati nel “partito leninista”. Vengono declinate ben otto generazioni.
Una roba per eletti. Un ripescaggio di “scomparsi” o giù di lì. Una “citazione al merito” come nei bollettini delle FFAA in occasione dei ritrovi di “reduci”. Basta non aver ripudiato mamma.
In sostanza, una specie di “aristocrazia marxista” la quale, “Unta dal Signore”, non potrà che guidare la catarsi storica di un (lontanissimo) rivolgimento comunista.
Un altro aspetto che si trova praticamente in ogni pagina è il rimarcare l’indiscussa “superiorità strategica” del partito. Partito scienza, strategia, organizzazione. Partito piano. L’inverazione del collettivo. Il tutto nell’Uno. E l’Uno nel tutto. Una vera religione laica, con le sue gerarchie sacerdotali.
Entrando nei dettagli però ci si può rendere conto che molte di queste “formulazioni strategiche” (“crisi delle relazioni globali”, “crisi della sovranità”, “crisi di internazionalizzazione” ecc.) sono in realtà dei Teoremi di “alta strategia politica statuale”, in cui però è assente il proletariato come soggetto attivo, e non semplicemente “statistico”.
Ragion per cui non vi troverete quasi mai un interesse concreto alle prospettive di lotta di esso, relegate sempre dentro il canovaccio astratto del “processo di sviluppo imperialista”; che diventa praticamente un oggettivismo innocuo quanto idealistico…
Numerose pagine del libro vengono dedicate al problema del ruolo dello “Stato”, degli Stati, per ritenere praticamente “sciolto” nell’U.E. lo Stato della “propria” borghesia: evitando così accuratamente di denunciare e combattere il ruolo ben attivo che l’imperialismo italiano continua ad avere, anche giocando in proprio, sui mercati mondiali e nei teatri di guerra.
In realtà, oltre a non specificare né il “corso”, né la “dinamica” del ciclo capitalistico, l’analisi si perde dietro alle varie “Dottrine” dei guru diplomatici della borghesia, soprattutto statunitense, impostando su di esse questa fantomatica “strategia scientifica”.
“Strategia” che arriva a definire un presunto “deperimento degli Stati nazionali a favore di quelli continentali”: nonostante la Brexit, i nazionalismi ed i “populismi” in Europa; e nonostante le guerre guerreggiate in cui il dato emergente è esattamente l’opposto (ad esempio la guerra siriana, dove l’unico “Stato continentale” in campo sono gli USA…)
Nei fatti, si mette il mitico “proletariato mondiale” di fronte a compiti così “ardui”, su un terreno di così puro avvenirismo, che diventa giocoforza concentrarsi sul quotidiano tran-tran di partito. Senza rischiare di fare del male ad una mosca… (che non siano i fuoriusciti con “infamia” dal partito)
Infatti, a più riprese, si esplicita cos’è questo terribile “modello bolscevico” impiantato finalmente nella metropoli imperialista: il partito-scienza, il partito-organizzazione centralizzata nella strategia che “contrasta le IDEOLOGIE dell’europeismo imperialista”. Capito? Le “ideologie”!!! Tutto il resto mancia… La lotta sarebbe innanzitutto lotta ideologica.
Una deformazione spaventosa. Se la lotta non è innanzitutto lotta materiale (contro i padroni, contro lo Stato, contro i sindacati di Stato; combattendo ogni ingiustizia dalla più piccola alla più grande, raggruppando uomini per radicalizzare ed estendere il combattimento, collegando il combattimento ad un programma a medio-lungo termine…) sono il settarismo, la “fede”, l’”appartenenza”, il “conformismo” a prevalere e non la coscienza.
Non è tutto questo la ricerca di una nuova forma di “quieto vivere” di socialdemocratica memoria?
E che dire dello strano “vizietto” dei gran sacerdoti di stilare nel libro lunghissimi elenchi dei “giusti” che parteciparono alle “battaglie” di Genova, Milano e Torino, sottacendone però accuratamente altri?
Il criterio seguito è quello rigorosamente stalinista di “fare sparire” i nomi scomodi, di gente che se n’è andata magari sbattendo la porta: senza “pentimenti”, o “costernazione”, o “rimpatri strappalacrime”.
E non è affatto vero, come afferma boriosamente il libro, che “gli abbandoni” furono “sparuti” perché “quasi mai si può parlare di un dissenso politico compiuto”. Con il “fuoriuscitismo” di Lotta Comunista ci si potrebbero fare almeno altri due partiti; e una buona parte dei “giusti” cooptati nel “Regno dell’Immortalità” sono nei fatti dei compagni da tempo ai margini del partito. Senza contare un dato non trascurabile: in LC non è ammesso nessun “dissenso politico compiuto”…
E’ proprio il caso di dire: dimmi come racconti la tua storia e ti dirò chi sei!
Avete presente quella foto con Lenin sul palco in un comizio, ed appena sotto di lui Leone Trotsky?
Come è risaputo, durante il periodo stalinista ed oltre, in URSS, l’immagine di Trotsky venne semplicemente… cancellata dalla foto. Bene, il metodo è lo stesso.
Auguri antistalinisti di lunga vita al partito “più vecchio d’Italia”, come si gloria La Barbera.
“Vorrà pur dire qualcosa no?” Gongola il Nostro.
Certo che vuole dire qualcosa. Però a Roma, in piazza S. Pietro, qualcuno assai autorevole personaggio potrebbe spiegare al meglio a La Barbera come si riesce a campare anche 2000 e più anni continuando a predicare il Cristo Risorto… basta avere un po’ di “adattamento”…
Si parla a piene mani delle “battaglie” di Genova, Milano e Torino, guardandosi bene dal solo citare che durante la “battaglia” dell’Iraq di inizio secolo il partito ha preferito subire la perdita di oltre una ventina di compagni pur di non far passare la loro sacrosanta richiesta di DENUNCIA DEL RUOLO DELL’IMPERIALISMO ITALIANO in tale vicenda…
Emblematica è anche la cosiddetta “battaglia di Torino”. Una battaglia “interna”, contro i refrattari del Comitato di Torino che non ci stavano a “filosofeggiare” mentre infuriava la lotta. Da quell’evento ha preso piede in Lotta Comunista una certa tendenza a snobbare ed infine ad irridere alle lotte operaie, coprendosi dietro i comodi “sociologismi” sulla “famiglie plurireddito” intese come “nuova aristocrazia operaia”…
Prima nel ’79 coi 61 licenziamenti degli “indesiderabili”, poi coi successivi 14.469 nel settembre del 1980, la Fiat va all’attacco. Si aprono i “35 giorni”, culminati con la “marcia dei 40.000” e con la resa dei sindacati confederali. LC ha 6 militanti nei vari stabilimenti del gruppo torinese.
Scrive La Barbera: “Fu quell’impianto, diffuso (?!) ma di recente o recentissima esperienza, che si trovò ad affrontare la battaglia della ristrutturazione… questo solo fatto basterebbe a spiegare le difficoltà che il Comitato di Torino si trovò ad affrontare nell’autunno del 1980, quando gli scioperi alla Fiat contro la cassa integrazione per 23.000 dipendenti (la controfferta della Fiat per chiudere la vertenza, NDR) si AVVITARONO nel blocco dei cancelli e nella lotta dei 35 giorni.”
Notare il verbo: “avvitare”, cioè girare su se stessi.
Ora, la cialtroneria interessata della direzione sindacale dei confederali era un fatto. Ma non l’unico fatto.
C’era in atto una mobilitazione nazionale dei metalmeccanici e non solo. C’erano i delegati di fabbrica, FLM ed altri, che non ci stavano. C’era una fetta consistente di operai Fiat che aveva compreso nell’essenziale quale posta fosse in gioco. E quelli di LC in fabbrica non potevano non “risentirne”…
Ed invece, che cosa ne deducono gli “scienziati” del Centro Nazionale? Che non bisogna assecondare “la rincorsa massimalista, con un sindacato che non aveva alcuna cognizione dei reali rapporti di forza (?!) e della necessità di organizzare una ritirata ordinata (?!).”
Cioè in pratica si sarebbe dovuta accettare la cassa integrazione (senza ritorno) per i 23.000 ed andare nelle assemblee a raccontare agli operai che “era solo un problema di scelta da parte della Fiat se dare o no un colpo al sindacato.” (Cervetto al CN 19/20 dicembre 1980)
Ragion per cui l’unica cosa valida da fare era “una ritirata ordinata raccolta attorno a partito rivoluzionario”… (ibidem)
Non era vero che i vertici sindacali “avevano tradito”. “I nostri hanno ottica da sinistra sindacale” (ibidem).
“No alla rincorsa retorica sull’occupazione di Mirafiori e sullo sciopero ad oltranza, senza alcuna impostazione organizzativa.” (Vol. 18 Opere di Cervetto, verbali della riunione del CN).
“Col riflusso, la questione dell’occupazione non si doveva nemmeno porre.” (ibidem)
Si preferiva dare credito alla versione del Kissinger dell’industria italiana, Cesare Romiti, che uscire dal canovaccio di un partito ormai già proiettato innanzitutto all’“autoconservazione”.
Quel Cesare Romiti che racconta (“Questi anni alla Fiat”, riportato come “Verbo” da La Barbera) di essersi deciso di calare l’asso della “marcia dei 40.000” quando vide coi suoi occhi che i “lottatori” davanti ai cancelli erano in realtà i soliti 2.000 attivisti del sindacato giunti da ogni dove, e non i lavoratori Fiat…
Casomai Berlinguer andava sfidato sulla veridicità della sua intenzione di occupare la Fiat e sull’allargamento della lotta (che non ci fu), e non sul suo gioco “massimalista”.
Ed è veramente sintomatico che si ebbe il coraggio di falsare lo stesso Lenin del 1920, il quale avrebbe detto agli italiani “se siete in grado di occupare e fabbriche allora siete in grado di prendere il potere, ma se non siete in grado non lo fate.”
In primo luogo il richiamo c’entra poco, perché nel 1980 non era all’ordine del giorno la rivoluzione. In secondo luogo ci risulta il contrario: Lenin rimproverava ai comunisti italiani proprio la loro ASSENZA, la loro INADEGUATEZZA…
“Durante l’occupazione delle fabbriche si è forse rivelato un solo comunista? No…” (V. I. Lenin: “Sul movimento operaio italiano”- Editori Riuniti, 1969)
Una triste “scienza” non c’è che dire…
Questa la valutazione del partito riguardo ai militanti di LC che non si piegavano facilmente alla logica “interna”:
“Se era UN FATTO DELLA VITA (sic) che le nostre presenze in fabbrica risentissero del clima oggettivo e psicologico dei 35 giorni… il compito del partito era proprio di STACCARE militanti e simpatizzanti da quell’influenza, e portarli ad ALZARE LO SGUARDO all’intero quadro dei rapporti politici e di classe che si era trovato riassunto nella battaglia di Torino.”
Il canonico richiamo al “Che fare?” di Lenin anche in questo caso c’entra come il cavolo a merenda, perché è giusto acquisire la coscienza di “tutte le le classi, le frazioni di classe e dello Stato”, ma per lottare non per nicchiare…
Una bella “battaglia” non c’è che dire. La battaglia di una organizzazione votata in maniera ormai irreparabile verso l’autoconservazione di sé stessa come quintessenza del “comunismo”.