Trumps Zerstörungswerk, l’opera distruttiva di Trump, titola la blasonata testata tedesca Frankfurter Allgemeine. Il disfacimento dell’accordo di liberoscambio Transpacifico, l’infanticidio di quello Transatlantico e la ricontrattazione del NAFTA, le tariffe protezionistiche su acciaio e alluminio, la richiesta di riduzione dell’attivo commerciale Cina-USA per 200 miliardi di dollari (sic!), pena 60 miliardi di tariffe doganali, e ora il ritiro dall’accordo sul nucleare iraniano e l’annuncio del ripristino di sanzioni inasprite contro l’Iran e contro chi commercia, finanzia o investe in Iran: Trump spaccatutto…
Nello stesso momento in cui denunciamo questa offensiva bellica sul terreno economico e diplomatico, che non mancherà di avere ripercussioni militari (già nelle prime 24 ore scambio di bombe e missili Israele-Iran su Siria e Golan), non saremo certo noi a difendere quello che Trump demolisce: la globalizzazione liberista del capitale finanziario che ha partorito estrema ineguaglianza sociale, crisi e guerre regionali, né l’accordo del 2015 sul nucleare iraniano, un accordo tra i 5 briganti vincitori della seconda guerra mondiale, monopolisti della bomba H, + il brigante sconfitto Germania e l’Iran, un accordo per stabilire una bilancia di potenza nella regione mediorientale tra quest’ultimo, a cui veniva legata dietro la schiena per 15 anni la mano nucleare, e gli stati “arabi sunniti” a guida saudita (anche qui la religione è solo un pretesto per tirarsi dietro le masse), che nel frattempo sono stati armati fino ai denti da tutti, americani, francesi, inglesi, tedeschi e italiani in testa.
Così come non saremo certo noi a difendere il “diritto” (!?!) del reazionario regime iraniano massacratore degli oppositori proletari a dotarsi di armi nucleari. Nel Medio Oriente come in tutto il mondo l’alternativa non è tra la guerra e la pace, ma tra le guerre del capitale, tra l’equilibrio o meglio lo squilibrio del terrore, e la rivoluzione proletaria contro il capitale.
Non parteggiamo quindi per nessuno dei campi del terrore, ma dobbiamo lavorare perché la nostra classe si risollevi dalle sconfitte riprendendosi indipendenza, organizzazione e capacità di lotta: in casa nostra nelle vecchie metropoli dell’imperialismo, come nei paesi dove il capitalismo più giovane non è meno sanguinario e sfruttatore. Un lavoro che deve partire dai bisogni quotidiani dei proletari, ma che deve anche fare chiarezza sulla natura e le logiche degli oppressori.
Il metodo nella follia di Trump
Tra i commentatori internazionali c’è chi vi vede nelle mosse di Trump una propensione maniacale a disfare ciò che Obama aveva fatto, chi ad ascoltare i cattivi consiglieri, chi a soddisfare il proprio ego smisurato. Probabilmente anche un po’ di tutto questo, ma c’è del metodo in questa follia, direbbe Shakespeare. È il “metodo” dell’imperialismo, è la logica della maggiore potenza imperialista che dopo avere spinto per la globalizzazione liberista ora si accorge che questa favorisce l’ascesa dei concorrenti, Cina in primis, che insidiano il suo strapotere mondiale.
La logica di Trump, che dopo le fallimentari avventure irachena e afghana va cauto nel mettere più stivali americani sul terreno minato della Siria, è quella di usare il potere di mercato, e soprattutto finanziario e monetario (sempre all’ombra di quello militare) statunitense per piegare rivali e alleati-rivali.
Il calcolo è semplice: se la Cina esporta negli USA più del doppio di quanto gli USA esportino in Cina, ciò significa che la Cina ha più da perdere che non gli USA da una guerra protezionistica. Se gli USA sono un mercato dieci volte più grande dell’Iran, le grandi imprese europee (da Total a Airbus a Renault hanno solo da perdere se continuano a fare affari con l’Iran e si vedranno chiuso il mercato americano). Se il dollaro è ancora la moneta dominante negli scambi, chi lo usa deve sottostare alle regole dettate da Washington. È la guerra con altri mezzi.
Le sanzioni, moderna forma di assedio di un intero paese, nel caso dell’Iran sono soprattutto una mossa politico-militare, rivolta non solo contro l’Iran, costretto alla quasi autarchia, ma anche contro russi, cinesi ed europei. Il nucleare è poco più di un pretesto che dietro la “legalità internazionale” e la lotta al terrorismo (come se gli israeliani non l’avessero, come se non fossero stati proprio gli USA i più grandi terroristi, gli unici finora ad aver usato la bomba atomica per ammazzare centinaia di migliaia di esseri umani – ma non meno ne uccisero in Germania con le bombe incendiarie) serve gli interessi strategici americani.
Mentre la guerra in Siria sembra concludersi con un accordo di spartizione e di influenza Iran-Russia-Turchia che lascia fuori gli USA, e in Libano la longa manus dell’Iran, Hezbollah, accresce la propria influenza, mentre in Yemen Iran e Arabia usano le antiche rivalità tribali per combattere una sanguinosa guerra di influenza (e gli Emirati issano la loro bandiera sull’isola di Socotra), Trump spara la cannonata del ritiro dall’accordo sul nucleare per dire che i giochi sono da rifare: o l’Iran accetta di cedere terreno a USA e sauditi, oppure sarà costretto a cederlo perché le sanzioni lo ridimensioneranno facendogli perdere risorse finanziarie e tecnologiche (si stima che con le precedenti sanzioni l’Iran abbia perso 400 miliardi di dollari in 10 anni). Il cannone è puntato anche contro Francia, Germania e Italia che stavano ricominciando a fare affari d’oro con l’Iran, ma anche contro Cina e Sud Corea, i primi due acquirenti di petrolio iraniano davanti a Turchia, Giappone e Italia, e pure grandi fornitori dell’Iran. Gli USA abbandonano il multilateralismo nel commercio e nelle relazioni internazionali, dicono agli europei: qui la danza la conduciamo noi, chi dà una mano all’Iran sta punito.
Un commentatore del Wall Street Journal, organo del grande capitale americano che avversò l’accordo sul nucleare iraniano, osserva tuttavia che la mossa di Trump si basa su una serie di scommesse, o di azzardi:
- Che l’impatto delle nuovi sanzioni contro l’Iran sarà tale da costringere il regime degli ayatollah a tornare al tavolo delle trattative e fare nuove concessioni su nucleare e missili;
- O in caso contrario che faranno tanto peggiorare le condizioni di vita da provocare nuove sollevazioni che favoriranno il ritorno al potere del partito filo-americano (il figlio dello scià è ben accudito dai servizi USA), anziché rafforzare il sostegno al regime contro il Grande Satana.
- Che gli “alleati” Germania, Francia, Gran Bretagna (e Italia) coopereranno con le sanzioni che colpiscono anche loro, anziché ribellarsi e consolidare i rapporti con l’Iran, isolando gli USA;
- Che l’Iran non riprenda lo sviluppo accelerato della bomba nucleare, nel qual caso sarebbero probabili attacchi militari di Israele e USA, e una controffensiva iraniana con terrorismo e guerra cibernetica oltre che militare, ma anche lo sviluppo della bomba atomica da parte dell’Arabia…
Gli iraniani aspettano le decisioni degli europei. Trump ha snobbato il lobbying di Macron e Merkel perché confermasse l’accordo sul nucleare. I capi di Total (che ha appena investito 1 miliardo di dollari nello sviluppo del grande giacimento di gas iraniano South Pars, insieme ai cinesi), Siemens (che fornì le prime tecnologie nucleari all’Iran) e le associazioni degli industriali tedeschi chiedono ai governi francese e tedesco di proteggere i loro affari contro le nuove sanzioni. Anche Airbus rischia di veder svanire un contratto da 100 aerei per 20 miliardi. Se Merkel ha più volte espresso la tentazione di “fare da soli” senza gli USA (e in Germania è in corso una campagna riarmistica), Macron teme che abbandonando lo Zio Sam la Francia finirebbe sotto, e non a fianco, della Germania, mentre la Gran Bretagna prende il largo dal Continente, ed è impensabile che si opponga agli USA.
In Italia Ansaldo, Tecnimont e FS che hanno da poco firmato grossi contratti in Iran, rischiano di doverli stracciare mentre l’ENI, fortemente scottata dalle sanzioni I e prima ancora dal golpe USA contro Mossadeq nel 1953, negli ultimi tre anni ha preferito scorrazzare nel resto del mondo evitando di riprendere la strada di Teheran.
La mossa di Trump ha anche questa valenza: alimentare la divisione e l’impotenza politica europea. Non saremo certo noi comunisti in Europa, impegnati innanzitutto a combattere gli imperialismi di casa nostra, a chiedere la loro unione contro gli yankee.
Il nostro appoggio va a quei proletari che nei mesi scorsi hanno sfidato la teocrazia nelle piazze iraniane e che ora, nelle carceri, nelle fabbriche e università, cercano la strada della rivoluzione.