(italiano-English)
Con 80 bombe-bunker da una tonnellata ciascuna, l’esercito sionista ha assassinato il capo di Hezbollah, massacrando con lui decine, o più verosimilmente, centinaia di civili abitanti nel popoloso quartiere preso di mira.
L’uccisione di Nasrallah fa seguito all’esplosione dei cerca-persone e dei walkie-talkie in dotazione non solo alla struttura militare ma anche a quella civile del movimento-partito sciita e ai raid che continuano a martellare il Libano (compreso il centro di Beirut) e le infrastrutture portuali e logistiche degli Houti in Yemen. A questa aggressione condotta grazie all’uso dell’aviazione e ad operazioni di spionaggio preparate da tempo, si aggiunge ora l’invasione di terra del territorio libanese da parte dell’IDF.
I colpi durissimi inferti dal regime sionista hanno decapitato la catena di comando di Hezbollah, che aveva già subito l’uccisione di altri suoi comandanti militari, determinando con ogni probabilità un indebolimento nel breve/medio periodo delle sue capacità di reazione, anche se a terra l’esercito sionista sembra incontrare tuttora un’imprevista resistenza.
Oltre alla conferma della natura stragista del regime di Tel Aviv, appare chiaro che si tratta di un’operazione militare di ampia portata, volta a ridisegnare profondamente gli equilibri in Medio Oriente, un Medio Oriente dove Israele possa continuare ad estendere i suoi confini di potenza coloniale occupante ben oltre gli attuali, riservandosi a tale fine di ricorrere a qualunque mezzo ritenga necessario per perseguire i suoi scopi, dal bombardamento di ambasciate in altri Stati all’eliminazione dei propri nemici come accaduto con Haniyeh in Iran, all’invasione vera e propria con le forze di terra.
Mentre non si arresta il genocidio nella Striscia di Gaza – resa invivibile per molti anni a venire – e prosegue l’offensiva israeliana in Cisgiordania, già fatta a brandelli e fagocitata dalle colonie sioniste, Tel Aviv volge ora la sua macchina sterminista contro il Libano, che considera da sempre il suo cortile di casa, dove ha spadroneggiato per anni grazie all’appoggio della Falange di Gemayel, dei cristiano-maroniti e delle truppe del maggiore Haddad, responsabile, insieme al macellaio sionista Sharon, del massacro di Sabra e Shatila nel 1982.
Al momento, non è dato sapere se l’obiettivo di Israele sia quello di respingere Hezbollah al di là del fiume Litani, occupare il sud del Libano permanentemente, ripristinando una sorta di protettorato come quello garantito in passato dall’Esercito del Libano del Sud, o perseguire una sorta di massacro sistematico che replichi il martirio cui è stata sottoposta la popolazione palestinese di Gaza. Di certo, se i piani strategici di Tel Aviv contemplano una presenza stabile in una fascia più o meno limitata del Libano, questo rischia di far riesplodere la guerra civile in quel paese, destabilizzando ulteriormente gli equilibri politici e confessionali su cui si regge.
L’uccisione di Nasrallah e l’offensiva contro Hezbollah dicono almeno un paio di cose di fondo. Senza dimenticare, da parte nostra, sarebbe una dimenticanza grave, la funzione di controllo e anche di repressione sociale che la formazione sciita ha all’interno del Libano, né il ruolo di sostegno che ha avuto nel sanguinoso soffocamento della rivolta popolare in Siria con l’appoggio dato al macellaio Assad in questa operazione, nell’attuale congiuntura agli occhi di Israele Hezbollah si è macchiato dell’imperdonabile colpa di aver portato un reale sostegno alla resistenza della popolazione di Gaza. Con l’apertura del fronte Nord, lo stato di Israele è stato costretto, per poter continuare il genocidio nella Striscia, a sopportare l’evacuazione dall’alta Galilea di una massa di abitanti stimata fra i sessanta e i centomila. Questa circostanza si è unita a tutte le altre difficoltà: al calo degli investimenti esteri dovuto alla generale insicurezza dell’area e al danno di immagine che il 7 ottobre ha inferto a Tel Aviv, alla carenza di manodopera dovuta allo sforzo bellico che ha sottratto decine di migliaia di riservisti alle occupazioni lavorative in un paese di pochi milioni di abitanti, alle perdite militari inflitte dall’eroica resistenza dei Palestinesi – certamente maggiori di quanto dichiarato – alla stessa ostilità contro Netanyahu di ampi settori della popolazione che, pur in gran parte intossicati dall’ideologia sionista e dall’odio anti-palestinese, continuano a dare fastidio al governo e ad intralciare la gestione delle operazioni a partire dalla questione dei prigionieri israeliani detenuti dalla resistenza palestinese.
Il regime sionista, come dichiarato alcuni giorni fa da alti esponenti di governo, non poteva tollerare oltre che “decine di migliaia di propri cittadini vivessero da profughi nel proprio paese” ed è passato al contrattacco. Detto da chi vive da 76 anni occupando la Palestina, dopo averne scacciato i legittimi abitanti ed averli massacrati e dispersi a milioni in giro per il mondo, e mentre ha trasformato in “profughi nella propria striscia” altri due milioni di abitanti di Gaza, è la riprova di un suprematismo razzista per il quale le persone non ebree sono prive di dignità e di diritti.
La seconda questione che l’uccisione del capo di Hezbollah e i massacri sionisti in Libano evidenziano ha a che fare con le prospettive della resistenza palestinese e, più in generale, con la necessità di fare della lotta contro la dominazione imperialistica in Medio Oriente un tassello della lotta anticapitalistica a scala internazionale.
È un fatto incontestabile che Israele può dare sfogo al suo bellicismo sfrenato e alla sua azione genocidaria perché gode dell’appoggio di tutte le grandi potenze, USA in testa, ovviamente. Non a caso, la prima dichiarazione di genocide Biden è stata di plauso perché l’eliminazione del capo di Hezbollah sarebbe stata una “forma di giustizia” e Blinken ha poco dopo rincarato la dose dicendo che “il mondo è migliore senza Nasrallah”. Insieme agli USA, tutti gli Stati imperialisti del fronte “occidentale” sono schierati da sempre a sostegno totale del regime sionista, dal “nostro” Stato, che fornisce armamenti ad Israele e non ha mancato mesi fa in sede ONU di votare contro il cessate il fuoco a Gaza, agli altri paesi dell’UE, alcuni dei quali, come la Germania, sono arrivati a perseguire penalmente gli attivisti che hanno avuto l’ardire di gridare “Palestina libera dal fiume al mare”.
Ma la complicità con Israele non si ferma ad USA e UE. Essa si estende anche agli Stati arabi e alle oligarchie borghesi che li governano, che sono a capo di regimi che sfruttano i proletari, i contadini e le masse povere, e sono infeudati pressoché da sempre alle potenze imperialiste. Dalle relazioni privilegiate con le strutture dominanti dell’imperialismo (sul piano diplomatico, finanziario, militare), queste oligarchie traggono gran parte dei loro profitti, dei loro privilegi di schiavisti, della forza repressiva contro i loro stessi popoli. Contro di esse, vera e propria longa manus del dominio imperialistico, si sono rivoltate le masse arabe e islamiche a più riprese, rivendicando con forza la fine dei regimi al Cairo, a Tunisi, in Algeria, in Iran. Come potrebbe il regime di Al Sisi, ad esempio, “mediare” il cessate il fuoco con Israele e sostenere la causa palestinese mentre intasca un finanziamento da 10 miliardi di dollari dal Fondo Monetario Internazionale in cambio della costruzione di un campo profughi gigantesco per rinchiudere i Palestinesi sopravvissuti al genocidio nella Striscia e scacciati dalla loro terra grazie alla nuova Nakba attuata da Tel Aviv? E non è stato forse l’Egitto a sigillare il confine di Rafah, permettendo a Israele di rendere completa la trasformazione di Gaza in una prigione a cielo aperto? E non vanno nello stesso senso gli accordi fra Egitto, Emirati Arabi Uniti e Bahrein per permettere a Israele di aggirare le difficoltà di navigazione nel Golfo Persico? E che dire della Giordania, che ha mantenuto le sue relazioni commerciali con Tel Aviv e si è spinta fino all’abbattimento dei razzi lanciati da Teheran contro lo Stato sionista, nonostante fosse un segreto di Pulcinella che la reazione “telefonata” degli ayatollah era solo un’operazione di facciata senza alcuna pretesa realmente offensiva verso Israele? Del resto, se non fosse sopravvenuta l’operazione del 7 ottobre, la “normalizzazione” dei rapporti fra Israele e Stati arabi, via accordi di Abramo, sarebbe probabilmente cosa fatta.
Sul carattere apertamente reazionario dell’Arabia Saudita e dei suoi satelliti nel Golfo non è neanche il caso di soffermarsi. Ma che dire delle potenze imperialistiche del fronte avverso, Cina e Russia, che hanno continuato a fornire petrolio e suoi derivati, macchinari e tecnologia, nonché a mantenere i loro rapporti commerciali e diplomatici col regime sionista, magari in considerazione delle speciali relazioni che, come ha dichiarato Putin, legano Russia e Israele? Il loro contributo alla causa palestinese è consistito nel premere su Haniyeh affinché Hamas ricucisse i propri rapporti con l’ANP, cioè con il collaborazionismo più smaccato di chi da anni lavora fianco a fianco con i sionisti e gli esperti militari yankee per tenere sotto controllo la Cisgiordania in cambio di uno strapuntino miserabile nella struttura del potere coloniale esercitato da Israele. Eppure, c’è ancora chi, qui da noi, tenta di avvalorare il carattere “oggettivamente antimperialista” di Mosca e di Pechino.
Nell’analizzare le implicazioni dell’offensiva sionista in Libano e dell’uccisione di Nasrallah, non si può non chiamare in causa l’Iran, visti i rapporti che legano Hezbollah e la sua milizia al regime degli ayatollah. Il governo libanese nel suo insieme cerca di evitare un conflitto generalizzato con Israele, come sembrano dimostrare le dichiarazioni di disponibilità ad attuare la risoluzione 1701 dell’ONU; Hezbollah, da parte sua, è intenta a riorganizzare le proprie fila dopo i colpi di maglio subiti (nonostante, così sembra, Nasrallah avesse dato l’assenso alla tregua con Israele, mediata da Biden e Macron). Ma se questa è la situazione interna del Libano, men che meno Teheran è disposta ad avventurarsi in un conflitto aperto. Tutte le ultime mosse dell’Iran mostrano che il preteso appoggio alla causa palestinese è uno spauracchio agitato per tutt’altri fini che il sostegno reale alla liberazione dalla colonizzazione sionista. Non sappiamo quanto siano fondate le letture che si spingono fino a sostenere una collaborazione di una parte dell’intelligence iraniana con quella sionista per eliminare Haniyeh, e prima ancora l’ex presidente Raisi (cui è succeduto Pezeshkian, fautore di un accordo con “l’Occidente”), fino all’uccisione di Nasrallah preceduta da quella di Shukr e dall’esplosione dei cerca-persone, tutte operazioni che necessitano di una qualità di informazioni frutto o di un’infiltrazione capillare dei servizi di Tel Aviv o di una collaborazione de facto con l’avversario.
Certo è che l’Iran, al di là delle dichiarazioni di facciata, ha interesse a negoziare un accordo sul nucleare che metta fine o attenui le sanzioni, ridando fiato all’economia, e questo si lega anche al tentativo di rafforzare i rapporti con Riyad avvenuto dopo il 7 ottobre sotto la regia di Pechino. Ne è prova, da ultimo, il lancio di missili su Israele effettuato da Teheran qualche giorno fa come risposta – assolutamente obbligata – agli attacchi in Libano. Anche questa volta, come in aprile, più che di un’operazione di guerra reale, si è trattato di un’azione in prevalenza dimostrativa, da cui l’Iran non poteva esimersi senza perdere la faccia agli occhi di tutto il mondo arabo e islamico (da quel che si può sapere, sono stati presi di mira alcuni obiettivi militari), un’azione lontana tuttavia anni-luce dal carattere devastante che sta caratterizzando l’aggressione sionista in Libano e il perdurante genocidio a Gaza; un’azione, tra l’altro, fatta trapelare per tempo agli USA, che hanno così potuto cooperare nell’abbattimento di una parte dei missili, contribuendo a vanificarne in larga misura l’efficacia. Né si può trascurare che il governo iraniano ha giustificato la sua risposta militare facendo riferimento agli “interessi iraniani”, e cioè all’uccisione di un alto ufficiale dei pasdaran che era a colloquio con Nasrallah, e non alla causa palestinese.
Saranno ora le mosse di Israele, in particolare la ventilata possibilità di un attacco alle strutture petrolifere di Teheran o addirittura ai suoi impianti per l’arricchimento dell’uranio, che determineranno i prossimi scenari di guerra, mentre da parte iraniana l’intento evidente è quello di chiudere il prima possibile le operazioni militari (il riferimento di oggi di Khamenei alla “pazienza strategica” ha questo significato).
È chiaro che tutto ciò non avviene perché lo scontro fra l’asse Cina, Russia, Iran – in ordine gerarchico – e il fronte USA, UE, NATO sia una sceneggiata. Lo scontro è quanto mai reale, ma caratteristiche, e soprattutto tempi di marcia, rispondono a interessi che nulla hanno a che fare con il sostegno alla liberazione nazionale e sociale dei Palestinesi e delle masse arabe e islamiche del Medio Oriente.
La resistenza palestinese si trova da sempre inserita e soffocata dal reticolo dei rapporti interstatali dell’area e da sempre è stata costretta, per non svendere la propria causa, a tentare di rompere questa gabbia percorrendo la strada dell’organizzazione autonoma, indipendente dagli interessi e dall’aiuto peloso dei vari Stati arabi (o islamici – appare certo, ormai, che della stessa operazione del 7 ottobre i vertici dell’Iran non fossero stati preavvertiti dalle forze della resistenza palestinese, o che addirittura avessero preventivamente sconsigliato iniziative di quel tipo). Quella dell’organizzazione autonoma è l’unica strada che può offrire una prospettiva reale di emancipazione per i Palestinesi. Ma è una strada che i Palestinesi non possono intraprendere da soli. Da sempre, il dominio imperialistico nel Medio Oriente si fonda sul mantenimento di una serie di entità statali le cui condizioni di esistenza, garantite dai mille fili che li legano alle grandi potenze, si saldano in un quadro che sta in piedi grazie alla contrapposizione reciproca di interessi delle diverse oligarchie. Sotto il peso di questi contrapposti interessi, che costituiscono un pesantissimo ostacolo all’emancipazione delle masse arabe, sono da tempo falliti i tentativi di dar vita ad un panarabismo sotto la direzione delle componenti progressiste della borghesia nazionale. Da tempo, la causa della liberazione anche nazionale, come nel caso della Palestina, è diventata un compito che solo le masse sfruttate, il proletariato, i contadini, gli strati diseredati di questa area possono portare avanti.
Le oceaniche manifestazioni di solidarietà delle masse arabe contro il genocidio a Gaza e l’occupazione sionista della Palestina, se testimoniano quanto è sentito il problema e quanto i destini degli sfruttati di tutta l’area sono collegati, dimostrano anche, purtroppo, la loro insufficienza. Senza che tali manifestazioni si trasformino in vere e proprie sollevazioni per rovesciare i regimi arabi reazionari, anche la liberazione della Palestina sarà destinata a rimanere un sogno incompiuto. Nessuno Stato dell’area, e anche nessuna milizia in qualche modo legata ai diversi regimi arabi o di ispirazione islamica, può adempiere al compito di scardinare l’ordine imperialistico che ha nell’occupazione sionista e nella complicità con essa un pilastro fondamentale. Si tratta di una prospettiva che può prendere corpo solo all’interno e nel quadro della resistenza all’occupazione e alla pulizia etnica perseguita dal sionismo, della lotta per il ritorno dei “profughi”, della fine di Israele in quanto Stato coloniale fondato sull’apartheid contro i palestinesi e della costituzione di un unico Stato senza oppressione nazionale, senza discriminazione razziale e religiosa, che riconosca pienamente tutti i diritti democratici per ogni componente della popolazione.
Diciamo questo da sostenitori incondizionati della causa e della resistenza palestinese, e ci guardiamo bene dall’impartire lezioni a chi da sempre, e con particolare eroismo nell’ultimo anno, sta conducendo una battaglia impari contro la macchina di sterminio sionista, una battaglia che noi additiamo al proletariato dei paesi imperialisti come il nostro, che sono diretti mandanti del genocidio e dell’oppressione del popolo palestinese, come un esempio di abnegazione, di sacrificio, di fede incrollabile nella causa della propria emancipazione.
La fine dell’occupazione sionista e la vittoria dell’autodeterminazione palestinese sono possibili solo all’interno di un processo di rivoluzione d’area capace di indebolire la presa delle grandi potenze sul Medio Oriente e costituire un tassello importante di una strategia rivoluzionaria globale, in grado di aggredire il sistema capitalistico internazionale sul versante delle “periferie” e su quello dei suoi centri direttivi.
Nei paesi imperialisti come il “nostro”, per quanto possano superficialmente apparire distanti dallo scenario mediorientale, si gioca larga parte dei destini del movimento rivoluzionario di quell’area. Opporsi alla politica di guerra dei propri governi, costruire un fronte proletario contro tutti gli imperialismi, e sostenere incondizionatamente la causa e la resistenza palestinese, come quella delle masse povere di tutti i paesi soggetti al dominio e al controllo dell’imperialismo, non è solo un imperativo morale e di solidarietà. Significa contribuire a tagliare le unghie alla macchina bellica, non meno che economica e finanziaria, delle grandi potenze che reggono le fila di un sistema di rapina, sfruttamento e oppressione che avvolge il mondo intero. Ed è un compito che da decenni il proletariato dei paesi centrali del sistema capitalistico non è in grado di svolgere. Altro che impartire lezioni alla resistenza palestinese! Il compito più urgente è lavorare, qui “da noi”, per dichiarare guerra alle “nostre” classi dominanti, ai “nostri” governi, alla loro azione di preparazione di sempre più devastanti guerre sullo scenario mondiale. Se i rivoluzionari delle metropoli avranno successo nell’avviare un simile processo, se sapranno spostare settori crescenti del proletariato contro la propria borghesia, dimostrando coi fatti che gli sfruttati dei paesi ricchi non sono una massa di manovra della borghesia, ma si muovono come parte integrante di un fronte anti-capitalistico, riconquisteranno quell’autorevolezza che adesso manca loro e che è indispensabile per costruire una strategia internazionale di lotta al sistema capitalistico.
La resistenza del popolo palestinese resta uno snodo fondamentale attraverso cui passa la battaglia per unire gli sfruttati dell’intero Medioriente. La sua importanza supera dunque la dimensione regionale e assume una valenza anticapitalistica internazionale.
“Palestina patria degli oppressi di tutto il mondo” non è uno slogan sentimentale: esso esprime invece il legame profondo fra la resistenza del popolo palestinese, i destini del Medio Oriente e la battaglia internazionale dei proletari di tutti i paesi per rovesciare il dominio capitalistico in tutto il mondo.
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On the killing of Nasrallah and the new Israeli aggression against Lebanon – Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria
With 80 one-tonne bomb-bombers each, the Zionist army assassinated the leader of Hezbollah, slaughtering with him dozens, or more likely, hundreds of civilians living in the populous neighbourhood targeted.
Nasrallah’s killing follows the explosion of the pagers and walkie-talkies equipped not only to the military but also to the civilian structure of the Shiite party-movement and the raids that continue to pound Lebanon (including downtown Beirut) and the Houti port and logistics infrastructure in Yemen. In addition to this aggression carried out through the use of the Air Force and long-prepared espionage operations, there is now the ground invasion of Lebanese territory by the IDF.
The extremely hard blows inflicted by the Zionist regime have decapitated Hezbollah’s chain of command, which had already suffered the killing of other of its military commanders, most likely leading to a weakening in the short/medium term of its reaction capabilities, even though on the ground the Zionist army still seems to be facing unexpected resistance.
In addition to the confirmation of the slaughterous character of the Tel Aviv regime, it is clear that this is a far-reaching military operation, aimed at radically redrawing the equilibrium in the Middle East, a Middle East where Israel can continue to extend its borders as an occupying colonial power well beyond the current ones, reserving for this purpose the right to resort to whatever means it deems necessary to pursue its aims, from the bombing of embassies in other states to the elimination of its enemies as happened with Haniyeh in Iran, to the actual invasion with ground forces.
While the genocide in the Gaza Strip – rendered unlivable for many years to come – does not stop, and the Israeli offensive in the West Bank, already torn to shreds and engulfed by Zionist colonies, continues, Tel Aviv now turns its exterminationist machine against Lebanon, which it has always considered its backyard, where it has ruled for years thanks to the support of Gemayel’s Phalange, the Christian Maronites and the troops of Major Haddad, responsible, together with the Zionist butcher Sharon, for the massacre of Sabra and Shatila in 1982.
At the moment, we cannot know whether Israel’s objective is to push Hezbollah back across the Litani river, occupy South Lebanon permanently, re-establishing a sort of protectorate like the one guaranteed in the past by the Army of South Lebanon, or pursue a sort of systematic massacre that replicates the martyrdom to which the Palestinian population of Gaza has been subjected. Certainly, if Tel Aviv’s strategic plans envision a stable presence in a more or less limited strip of Lebanon, this risks re-exploding the civil war in that country, further destabilising the political and confessional balances on which it rests.
The killing of Nasrallah and the offensive against Hezbollah mean at least a couple of things in the background. Without forgetting, it would be a serious oversight on our part, the function of control and also of social repression that the Shiite formation has within Lebanon, nor the supporting role it played in the bloody suppression of the popular uprising in Syria with the support given to the butcher Assad in this operation, in the current conjuncture for Israel Hezbollah has been guilty of the unforgivable guilt of having brought real support to the resistance of the population of Gaza. With the opening of the Northern Front, the state of Israel was forced, in order to continue the genocide in the Strip, to endure the evacuation from the upper Galilee of an estimated sixty to one hundred thousand inhabitants. This circumstance was added to all the other difficulties: to the drop in foreign investment due to the general insecurity in the area and the image damage that 7 October inflicted on Tel Aviv, to the shortage of manpower due to the war effort that has taken tens of thousands of reservists away from their jobs in a country of a few million inhabitants to the military losses inflicted by the heroic resistance of the Palestinians – certainly greater than declared – to the same hostility against Netanyahu by large sectors of the population that, although largely intoxicated by Zionist ideology and anti-Palestinian hatred, continue to annoy the government and hinder the management of operations starting with the issue of Israeli prisoners held by the Palestinian resistance.
The Zionist regime, as senior government officials declared a few days ago, could no longer tolerate ‘tens of thousands of its own citizens living as refugees in their own country’ and went on the counter-attack. Coming from someone who has lived for 76 years occupying Palestine, after having driven out its legitimate inhabitants and massacred and scattered them by the millions around the world, and while having turned another two million inhabitants of Gaza into ‘refugees in their own strip’, it is proof of a racist supremacism for which non-Jews are deprived of dignity and rights.
The second issue that the killing of the leader of Hezbollah and the Zionist massacres in Lebanon highlight is related to the prospects of the Palestinian resistance and, more generally, to the need to make the struggle against imperialist domination in the Middle East a component of the anti-capitalist struggle on an international scale.
It is an indisputable fact that Israel can give vent to its unbridled bellicism and genocidal action because it enjoys the support of all the great powers, the USA in the lead, of course. Not surprisingly, Genocide Biden’s first statement was one of applause because the elimination of Hezbollah’s leader would be a ‘form of justice’, and Blinken shortly afterwards stepped up the dose by saying that ‘the world is better off without Nasrallah’. Together with the USA, all the imperialist states on the ‘Western’ front have always lined up in total support of the Zionist regime, from ‘our’ state, which supplies arms to Israel and did not fail months ago at the UN to vote against the ceasefire in Gaza, to the other EU countries, some of which, like Germany, have gone so far as to prosecute activists who have had the audacity to shout ‘Free Palestine from the river to the sea’.
But complicity with Israel does not stop with the US and the EU. It also extends to the Arab states and the bourgeois oligarchies that rule them, who are at the head of regimes that exploit the proletarians, peasants, and poor masses, and have been enfeoffed to the imperialist powers almost since time immemorial. These oligarchies derive from their privileged relations with the dominant structures of imperialism (diplomatically, financially, militarily) most of their profits, their privileges as slavers, their repressive force against their own peoples. Against them, the real longa manus of imperialist domination, the Arab and Islamic masses have revolted on several occasions, vigorously demanding the end of the regimes in Cairo, Tunis, Algeria, Iran. How could Al Sisi’s regime, for example, ‘mediate’ the ceasefire with Israel and support the Palestinian cause while pocketing a $10 billion loan from the International Monetary Fund in exchange for the construction of a gigantic refugee camp to enclose the Palestinians who survived the genocide in the Strip and were driven out of their land by the new Nakba implemented by Tel Aviv? And was it not Egypt that sealed the Rafah border, allowing Israel to fully transform Gaza into an open-air prison? And do not the agreements between Egypt, the United Arab Emirates and Bahrain go in the same direction to allow Israel to circumvent the navigation difficulties in the Persian Gulf? And what about Jordan, which maintained its trade relations with Tel Aviv and went so far as to shoot down the rockets fired by Tehran against the Zionist state, despite the fact that it was an open secret that the ayatollahs’ “phone call” reaction was only a front operation with no real offensive pretensions towards Israel? After all, if the 7 October operation had not taken place, the ‘normalisation’ of relations between Israel and the Arab states, via the Abraham Agreement, would probably be a done deal.
The openly reactionary character of Saudi Arabia and its satellites in the Gulf is not even worth dwelling on. But what about the imperialist powers on the other side, China and Russia, who have continued to supply oil and its derivatives, machinery and technology, as well as maintaining their commercial and diplomatic relations with the Zionist regime, perhaps in view of the special relationship that, as Putin has declared, binds Russia and Israel? Their contribution to the Palestinian cause consisted in pressuring Haniyeh to get Hamas to mend its relations with the PNA, i.e. with the most blatant collaborationism of those who for years have been working hand in hand with Zionists and Yankee military experts to keep the West Bank under control in exchange for a miserable foothold in the colonial power structure exercised by Israel. Yet, there are still those over here who attempt to validate the ‘objectively anti-imperialist’ character of Moscow and Beijing.
In analysing the implications of the Zionist offensive in Lebanon and the killing of Nasrallah, one cannot but call Iran into question, given the relations that bind Hezbollah and its militia to the ayatollahs’ regime. The Lebanese government as a whole is trying to avoid a generalised conflict with Israel, as the declarations of readiness to implement UN Resolution 1701 suggest; Hezbollah, for its part, is intent on reorganising its ranks after the hammer blows it suffered (despite the fact that, so it seems, Nasrallah had given his assent to the truce with Israel brokered by Biden and Macron). But if this is the internal situation in Lebanon, Tehran is even less willing to venture into open conflict. All of Iran’s latest moves show that its alleged support for the Palestinian cause is a bogeyman waved for anything other than real support for liberation from Zionist colonisation. We do not know how well-founded are the readings that go so far as to claim a collaboration of part of the Iranian intelligence with the Zionist one in order to eliminate Haniyeh, and before that the former president Raisi (who was succeeded by Pezeshkian, an advocate of an agreement with ‘the West’), up to the killing of Nasrallah preceded by that of Shukr and the explosion of the pagers, all operations that require a quality of information that is the result either of a capillary infiltration of the Tel Aviv services or of a de facto collaboration with the adversary.
What is certain is that Iran, beyond the façade declarations, has an interest in negotiating a nuclear agreement that would put an end to or ease the sanctions, giving its economy a new lease of life, and this is also linked to the attempt to strengthen relations with Riyad after 7 October under the direction of Beijing. Evidence of this is the latest missile launch on Israel by Tehran a few days ago as a response – absolutely obligatory – to the attacks in Lebanon. This time too, as in April, more than a real war operation, it was a mainly demonstrative action, from which Iran could not exempt itself without losing face in the eyes of the entire Arab and Islamic world (as far as we know, some military targets were targeted), an action that is nevertheless light-years away from the devastating character that is characterising the Zionist aggression in Lebanon and the continuing genocide in Gaza; an action, by the way, leaked in good time to the USA, which was thus able to cooperate in the shooting down of a part of the missiles, helping to largely nullify their effectiveness. Nor can it be overlooked that the Iranian government justified its military response by referring to ‘Iranian interests’, i.e. the killing of a senior officer of the Pasdaran who was in talks with Nasrallah, and not to the Palestinian cause.
It will now be Israel’s moves, in particular the aired possibility of an attack on Tehran’s oil facilities or even on its uranium enrichment plants, that will determine the next war scenarios, while on the Iranian side the evident intention is to end military operations as soon as possible (Khamenei’s reference today to ‘strategic patience’ has this meaning).
It is clear that all this is not because the clash between the China, Russia, Iran axis – in hierarchical order – and the US, EU, OTAN front is just a show. The clash is very real, but the characteristics, and especially the timing of the march, respond to interests that have nothing to do with supporting the national and social liberation of the Palestinians and the Arab and Islamic masses in the Middle East.
The Palestinian resistance has always found itself embedded in and suffocated by the network of inter-state relations in the area and has always been forced, in order not to sell out its own cause, to try to break out of this cage by following the path of autonomous organisation, independent of the interests and hairy help of the various Arab (or Islamic) states – it now seems certain that the leaders of Iran had not been forewarned by the Palestinian resistance forces about the 7 October operation, or that they had even advised against such initiatives in advance). The autonomous organisation is the only road that can offer the Palestinians a real prospect of emancipation. But it is a road that the Palestinians cannot take alone. Since time immemorial, imperialist domination in the Middle East has been based on the maintenance of a series of state entities whose conditions of existence, guaranteed by the thousands of strings that bind them to the great powers, are welded into a framework that stands thanks to the reciprocal opposing interests of the various oligarchies. Attempts to create a pan-Arabism under the leadership of the progressive components of the national bourgeoisie have long failed under the weight of these opposing interests, which constitute a very heavy obstacle to the emancipation of the Arab masses. For a long time now, the cause of liberation, even a national one, as in the case of Palestine, has become a task that only the exploited masses, the proletariat, the peasantry, the dispossessed strata of this area can carry forward.
The oceanic demonstrations of solidarity of the Arab masses against the genocide in Gaza and the Zionist occupation of Palestine, if they testify to how much the problem is felt and how the fates of the exploited in the entire area are linked, also unfortunately demonstrate their insufficiency. Without such demonstrations turning into real uprisings to overthrow the reactionary Arab regimes, the liberation of Palestine will also remain an unfulfilled dream. No state in the area, and also no militia somehow linked to the various Arab regimes or of Islamic inspiration, can fulfil the task of dismantling the imperialist order that counts the Zionist occupation and complicity with it as a fundamental pillar. This is a perspective that can only take shape within and in the framework ofresistance to the occupation and ethnic cleansing pursued by Zionism, the struggle for the return of the ‘refugees’, the end of Israel as a colonial state founded on apartheid against the Palestinians, and the establishment of a single state without national oppression, without racial and religious discrimination, and which fully recognises all democratic rights for every component of the population.
We say this as unconditional supporters of the Palestinian cause and resistance, and we take care not to lecture those who have always, and with particular heroism over the past year, been waging an unequal battle against the Zionist extermination machine, a battle that we hold up to as an example of self-denial, sacrifice, and unwavering faith in the cause of their own emancipation to the proletariat of imperialist countries like ours, who are direct instigators of the genocide and oppression of the Palestinian people.
The end of the Zionist occupation and the victory of Palestinian self-determination are only possible within a process of area revolution capable of weakening the grip of the great powers on the Middle East and constituting an important piece of a global revolutionary strategy, capable of attacking the international capitalist system on the ‘periphery’ side and on that of its leading centres.
In imperialist countries like ‘ours’, however distant they may superficially appear from the Middle East scenario, a large part of the destiny of the revolutionary movement in that area is at stake. To oppose the war policy of one’s own governments, to build a proletarian front against all imperialisms, and to unconditionally support the Palestinian cause and resistance, like that of the poor masses in all countries subject to imperialist domination and control, is not only a moral imperative and one of solidarity. It means helping to cut the nails to the war machine, as well as the economic and financial machine, of the great powers that hold the strings of a system of robbery, exploitation and oppression that envelops the entire world. And it is a task that the proletariat in the core countries of the capitalist system has been unable to perform for decades. Anything but lecturing the Palestinian resistance! The most urgent task is to work, here ‘by us’, to declare war on ‘our’ ruling classes, on ‘our’ governments, on their action of preparing for ever more devastating wars on the world stage. If the revolutionaries in the metropolises are successful in initiating such a process, if they know how to move growing sectors of the proletariat against their own bourgeoisie, demonstrating with facts that the exploited in the rich countries are not a bourgeoisie’s manoeuvring mass, but are moving as an integral part of an anti-capitalist front, they will regain the authority they now lack and which is indispensable for building an international strategy of struggle against the capitalist system.
The resistance of the Palestinian people remains a fundamental junction through which passes the battle to unite the exploited of the entire Middle East. Its importance therefore goes beyond the regional dimension and takes on an international anti-capitalist significance.
‘Palestine, homeland of the oppressed of the whole world’ is not a sentimental slogan: instead, it expresses the profound connection between the resistance of the Palestinian people, the destiny of the Middle East, and the international struggle of proletarians of all countries to overthrow capitalist rule throughout the world.