Chi ci conosce, sa bene che abbiamo sempre ritenuto il reddito di cittadinanza come poco più che un’elemosina di stato, e ciò da molto prima che il governo Conte 1 lo rendesse realtà.
Per decenni la “fu” sinistra di classe si è fronteggiata duramente e si è divisa attorno al tema delle rivendicazioni immediate per il contrasto alla disoccupazione di massa, fattore fisiologico e “necessario” al normale funzionamento del modo di produzione capitalistico ad ogni latitudine.
Tale confronto si è articolato nel tempo essenzialmente attorno a 3 posizioni:
A) i sostenitori del “lavorismo a tutti i costi”, in larga parte eredi delle concezioni staliniste e togliattiane, secondo i quali “solo il lavoro nobilita l’uomo” e solo attraverso la (s)vendita della propria forza-lavoro, a qualsiasi condizione imposta dai padroni, un proletario può acquisire la “patente” di soggetto antagonista al capitale: per costoro il disoccupato, in sostanza, non è altro che un proletario di “serie B”, o peggio un “sottoproletario“, in quanto tale non meritevole di particolare attenzione politica né tanto meno portatore di interessi che vadano al di là di quello a trovare un impiego, qualsiasi esso sia.
B) la vulgata “post-operaista”, secondo la quale le trasformazioni del capitalismo contemporaneo prodotte dalla cosiddetta “globalizzazione”, e in primis dall’automazione su larga scala, avrebbero portato al definitivo superamento della centralità del conflitto capitale-lavoro e all’emergere di una “moltitudine” di esclusi dal ciclo di produzione, quindi di un “nuovo soggetto” sociale la cui ricomposizione dovrebbe avvenire principalmente attraverso la rivendicazione di un “reddito di base universale“.
C) la posizione del marxismo rivoluzionario, che individuando nella disoccupazione di massa, nella marea di contratti precari e a termine e nel lavoro nero una formidabile leva in mano ai padroni per dividere e polverizzare il fronte proletario, vede nella lotta per il lavoro stabile e/o il salario garantito a tutti i disoccupati il principale strumento per un’effettiva ricomposizione di classe, fuori e contro le due “religioni” del lavorismo e della “fine del lavoro”, opposte tra loro sul piano rivendicativo ma, nei fatti, complementari nella loro natura riformista. E, naturalmente, rilancia la prospettiva della lotta per la riduzione drastica e generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario, per il solo lavoro socialmente necessario – una tematica storica del movimento operaio organizzato.
Questa, a larghe linee, l’essenza del dibattito nell’iperuranio della “grigia teoria” di faustiana memoria.
Nel frattempo, negli ultimi decenni abbiamo assistito, in generale nella realtà dei paesi a capitalismo avanzato e più in particolare in Italia, a una impressionante rincorsa verso il basso del salario medio reale: smantellamento dei CCNL, proliferazione di contratti pirata e capestro, dilagare di contratti precari, a tempo parziale e intermittenti, sfruttamento sempre più sistematico del lavoro nero nei settori dell’economia “informale”, nella filiera bracciantile, nel ginepraio del commercio, del turismo e dei servizi (da sempre pilastri del sistema di accumulazione “made in Italy”), moltiplicazione dei contratti “grigi” nella logistica e nell’agro-alimentare grazie all’utilizzo delle finte cooperative e al supersfruttamento della forza lavoro immigrata, perennemente soggetta al ricatto della revoca del permesso di soggiorno.
Queste dinamiche hanno portato in Italia all’abbattimento dei livelli salariali come in nessun altro paese occidentale, al punto che l’Italia è l’unico a registrare un peggioramento del 3,9% negli ultimi 30 anni del salario medio reale: un peggioramento che diviene tanto più drammatico se si tiene conto dell’abbattimento del salario indiretto, e cioè del costo dell’istruzione, della sanità, dei trasporti, ecc., e l’aumento vertiginoso dei canoni d’affitto, i quali ormai erodono in molti casi circa la metà di un salario mensile.
Uno dei principali corollari di questa caduta rovinosa dei salari è stato l’aumento dello sfruttamento del lavoro femminile, che in milioni di famiglie proletarie costringe le donne ad accettare qualsiasi offerta di lavoro sottopagato pur di compensare almeno in parte l’impoverimento delle buste-paga del consorte o del convivente, e riuscire a fare in qualche modo a far quadrare i conti a fine mese. Per non parlare del lavoro minorile che, soprattutto al Sud, negli scorsi decenni ha privato migliaia di giovanissimi del diritto allo studio e alla formazione.
6 milioni di proletari in condizione di povertà assoluta, e altri 8 in condizione di povertà relativa: è questo il contesto drammatico nel quale si è andata a collocare l’introduzione del reddito di cittadinanza ad opera del primo governo Conte: una misura del tutto parziale, frammentaria e insufficiente, tanto più alla luce della crisi prodotta dalla pandemia e, ora, del caro-bollette e dell’inflazione galoppante sui generi di prima necessità connesse ai venti di guerra e dalle annesse spirali speculative.
La vera e propria campagna terroristica in atto contro il reddito di cittadinanza, che in questi mesi viene portata avanti dai padroni e dai loro reggicoda della piccola borghesia frustrata e delle mezze classi di schiavisti ed evasori seriali, per quanto sia indicativa del livello di disprezzo e di autentico odio di classe nutrito dalla borghesia (dalla media e dalla piccola borghesia ancor più della grande) verso i disoccupati e i poveri, non può in alcun modo mettere in secondo piano la natura materiale, e tutt’altro che meramente ideologica, di quest’offensiva.
Quando orde invasate di ristoratori e di albergatori lamentano di non riuscire più a trovare manodopera a causa del reddito di cittadinanza (cioè, va ribadito, di un misero obolo di stato dell’importo medio di poco più di 500 euro al mese), questi non fanno altro che riconoscere ed ammettere involontariamente la cruda realtà dei fatti, ovvero che i salari da essi offerti si attestano su livelli analoghi se non addirittura inferiori all’importo del reddito di cittadinanza, dunque nettamente al di sotto del rapporto costo-opportunitá che un disoccupato reputa accettabile per rinunciare a “stare a casa” con il reddito.
Dunque, soprattutto nel meridione, quella che era stata pensata dai 5 stelle come una misura assistenziale e temporanea, nel contesto dato si è oggettivamente tradotta in una mina piazzata sotto il sistema di schiavitù e di supersfruttamento che caratterizza una parte non trascurabile del “mercato del lavoro” così come consolidatosi all’indomani del ciclo di sconfitte del movimento operaio e delle conseguenti controriforme (Treu, Biagi, Fornero, Renzi…) che si sono susseguite negli ultimi 25 anni.
Una mina dalle dimensioni modeste – è ovvio che, come mina sotto le impalcature del sistema sociale capitalistico, sarebbe di ben altra portata la conquista, con la lotta, di un vero salario garantito per tutti i disoccupati o di una forte riduzione generalizzata dell’orario medio di lavoro – ma che, data la gravità della crisi attuale, sembra essere più che sufficiente per determinare una chiara linea di trincea tra gli interessi immediati dello strato più basso del proletariato (e di conseguenza, per la classe lavoratrice tutta) e quelli dei padroni, dei parassiti e degli sfruttatori di ogni risma.
L’esito delle ultime elezioni politiche ha offerto una rappresentazione nitida di questa linea di trincea.
Il crescente rifiuto di ogni fiducia e complicità con le istituzioni borghesi manifestatosi in ampi strati proletari attraverso l’astensione è una tendenza costante su tutto il territorio nazionale: un rifiuto ancora passivo, ma tutt’altro che “qualunquista” e men che meno “neutro” dal punto di vista di classe, se è vero che tutti gli istituti di ricerca certificano come gli astenuti siano in larga parte operai, precari, disoccupati e pensionati dalle basse pensioni.
Ma all’interno di questa tendenza generale e nazionale non si può non vedere il dato peculiare del meridione, laddove non solo l’astensione è letteralmente schizzata alle stelle, ma in cui a quest’ultima si è affiancato nelle urne un consenso proletario in larga parte bulgaro per i 5 stelle di Conte, individuati come un’arma di difesa contro “l’assalto alla diligenza” del reddito di cittadinanza promesso da Meloni, Salvini, Letta, Calenda e compagnia.
Una forma di “autodifesa” che, alla luce dello stato di passività attuale della classe e dello stato confusionale e/o comatoso delle sue presunte “avanguardie”, va analizzato per il suo carattere esplicito (e classista) di scelta dettata da una convenienza concreta e immediata.
D’altra parte, il crollo verticale dei consensi al Sud di tutti i restanti partiti borghesi (a Napoli la somma dei voti di tutte le liste di centro-destra e centro-sinistra rappresentano meno del 25% dell’elettorato totale), è sintomatico di una crisi dei blocchi di potere e di clientela che attraverso il voto di scambio e l’intervento attivo della criminalità organizzata, fin dal secondo dopoguerra, hanno garantito ingenti fortune elettorali a tutti principali partiti “di sistema”. Ciò è vero, per ora, solo limitatamente al voto nazionale (le ultime regionali in Campania dimostrano invece come nelle tornate locali i “blocchi di potere” siano ancora del tutto vivi e vegeti…).
In realtà stavolta nei quartieri degradati e devastati delle periferie urbane del meridione c’è stato un solo “voto di scambio”, quello verso i 5 stelle: e non c’è nulla di cui sorprendersi né tanto meno scandalizzarsi. Demonizzare, o al contrario negare, questa evidenza dei fatti, significherebbe sostituire l’analisi materialista degli eventi con un astratto moralismo piccolo borghese. Soprattutto se la “morale” viene invocata da chi, per decenni, ha fatto uso sistematico del voto di scambio con migliaia e migliaia di voti comprati a 50 euro “una tantum”, quasi sempre dalla destra o dal PD…
Quantomeno, stavolta il prezzo della “prestazione” offerta dai disoccupati che si sono recati alle urne è stato decisamente più alto, e allo stato attuale trattasi di una prestazione “non occasionale”…
Sta ora a chi ha filo da tessere di dimostrare coi fatti che non basta certo il voto al “Giuseppi” di turno, né per difendere le briciole del RdC, né tanto meno per aspirare a una vita che non sia ridotta una mera e stentata sopravvivenza; iniziando ad evidenziare, ad esempio, che l’importo di quel Rdc che i padroni e i vecchi e nuovi governanti nostrani definiscono un “intollerabile privilegio”, corrisponde in realtà a meno della metà di quanto viene riconosciuto a un disoccupato in Germania, preso individualmente e non per nucleo-familiare (una famiglia composta da 2 disoccupati e altrettanti figli può ricevere fino a 1.700 euro al mese), senza l’obbligo tassativo di dover accettare qualsiasi proposta di lavoro e senza il meccanismo poliziesco di sanzioni previsto in Italia.
Non si tratta certo di esaltare il “modello tedesco”, che è espressione delle compatibilità capitalistiche, della Germania e del livello peculiare delle contraddizioni di classe al suo interno: si tratta casomai di indicare una strada e degli obbiettivi di lotta, concreti, tangibili e unificanti per milioni di disoccupati e precari anche al di là dei confini nazionali: lo smascheramento dell’ipocrisia e della retorica europeista dei padroni non passa per le illusioni sovraniste né per anacronistiche quanto reazionarie aspirazioni al “ritorno alla lira”, bensì per una vera battaglia di classe per ancorare in tutta l’UE i salari e le prestazioni sociali allo stesso livello dei paesi più sviluppati, per il ripristino generalizzato della scala-mobile, per la garanzia di un salario pieno a tutti i disoccupati, per l’abolizione di ogni forma di discriminazione e di ricatto nei confronti dei lavoratori immigrati, per il blocco della tendenza all’allungamento degli orari e la ripresa della lotta per la riduzione drastica e generalizzata degli orari di lavoro.
Questo può e deve essere un importante terreno di lotta su cui dar vita a una vera opposizione di classe al nascente governo reazionario a guida Meloni, a cominciare dagli appuntamenti di lotta autunnali, su tutti lo sciopero generale del sindacalismo di base del prossimo 2 dicembre e la manifestazione nazionale indetta per il 5 novembre a Napoli dal movimento dei disoccupati “7 novembre” proprio a partire dalla denuncia del caro-vita e dalla loro lotta per un lavoro stabile, sicuro e a salario pieno: una mobilitazione, quest’ultima, che ha il merito di saper inquadrare la lotta dei disoccupati in una cornice non solo locale e/o settoriale, bensì nell’ottica di un collegamento col resto della classe lavoratrice e con i suoi segmenti più combattivi, dagli operai Gkn ai lavoratori della logistica. Proprio riguardo a questi ultimi, va sottolineato il ruolo-pilota svolto sul piano sindacale-rivendicativo dal SI Cobas anche sul tema della precarietà e della disoccupazione, con la conquista, negli scorsi mesi, di rilevanti accordi nelle più importanti filiere della logistica che limitano fortemente l’utilizzo (e l’abuso) dei contratti a termine e interinali, con la previsione che dopo la prima chiamata, il lavoratore o la lavoratrice assunto sia collocato in una graduatoria e dopo 18 mesi debba essere assunto/a a tempo indeterminato.
Ciò a dimostrazione di come sia possibile, anche nell’attuale giungla del mercato del lavoro, condurre battaglie parziali di portata unificante per l’insieme della classe.
Non è dato sapere se il nuovo esecutivo sceglierà la strada dello scontro diretto, frontale e immediato con i lavoratori e i disoccupati, oppure opterà per una ben più insidiosa strategia “a mosaico” per dividere e frammentare la controparte.
Ma nel contesto attuale è certo che un eventuale attacco al reddito di cittadinanza è una bomba ad orologeria ancora più esplosiva, forse, del caro-bollette e della crisi energetica: trovarsi impreparati al momento dell’innesco sarebbe un crimine per ogni anticapitalista degno di questo nome.
Tendenza internazionalista rivoluzionaria