Come era facilmente prevedibile, la batosta subita dal cartello elettorale di Rivoluzione Civile ha portato al capolinea la vicenda politica di Rifondazione Comunista. Nonostante il generoso impegno profuso da moltissimi militanti di base, sinceramente convinti di appartenere ad un partito di classe, Rifondazione si è caratterizzato dalla nascita come un partito riformista e opportunista e per questo incapace di esistere senza che i suoi rappresentanti siano seduti in Parlamento, nei consigli comunali etc.. Formalmente esiste ancora, anche se lo si è notato solo per la vicenda dei dipendenti del partito in cassa integrazione che non avendo ricevuto nessuna notizia sulla loro sorte dai dirigenti del partito, hanno chiamato i carabinieri per “difendersi” dai loro padroni.
La crisi è però irreversibile ed è cominciata la lotta per accaparrarsi l’eredità. Da alcune settimane sta girando un documento dal titolo “ PER UN MOVIMENTO POLITICO ANTICAPITALISTA E LIBERTARIO” , frutto, ci viene spiegato , “di uno sforzo comune che tiene insieme militanti e attivisti provenienti da esperienze diverse (da Rifondazione alla Rete dei comunisti a Sinistra critica alla Rete 28 aprile della CGIL e della FIOM all’USB,da giuslavoristi, scrittori, docenti, etc). Accomunati dall’intento di dar vita a un movimento politico di massa, non a una banale sommatoria delle diversità”. I promotori del documento pongono come prima verifica di tale progetto un’assemblea da tenere a Bologna a maggio.
Per valutare fino a che punto i promotori dell’appello abbiano seriamente riflettuto sulle cause della disastrosa esperienza di Rifondazione non resta che la lettura attenta del summenzionato documento.
Il testo enuncia che “Vediamo e viviamo la miseria, l’offesa della libertà e alla dignità della persona, la devastazione della natura esercitata ogni giorno da parte di un capitalismo criminale “. E si afferma che “Torna all’ordine del giorno la necessità di costruire un’alternativa all’attuale sistema economico, sociale e politico”. Gli estensori del documento sanciscono l’impossibilità della liberazione mediante un compromesso con l’attuale governo dell’economia e della società, spingendosi fino ad affermare: “Noi crediamo che sia all’ordine del giorno la necessità di un cambiamento rivoluzionario “. Tali considerazioni possono essere facilmente condivise da tutti i militanti comunisti senza distinzioni, tuttavia non si può non notare l’assenza di qualsiasi riflessione critica sulla bancarotta politica della sinistra riformista. Si nota invece una frase, apparentemente buttata lì, senza approfondimento: “ Certo il socialismo reale è crollato nel passato per sue colpe, ma il capitalismo reale oggi distrugge il presente e il futuro”. Evidentemente per gli estensori del documento i regimi stalinisti che dominavano fino al 1989 in URSS, Polonia, etc. erano regimi “socialisti”, e che non si tratti di una svista è confermato successivamente con il riferimento al presunto socialismo del ventunesimo secolo che caratterizzerebbe l’America Latina, con chiaro riferimento ai regimi di Cuba, Venezuela etc.. Al che non possiamo non chiederci come si fa a definire socialisti regimi in cui tutti i tipici pilastri di un’economia capitalistica e cioè il carattere di merce dei prodotti, il denaro, il lavoro salariato che produce plusvalore, non solo sono presenti ma nemmeno se ne prevede una prossima abrogazione? Non lo si capisce o si fa finta di non capirlo? Certo questi paesi avevano e, in parte hanno tuttora, la faccia tosta di definire socialismo il loro capitalismo di Stato che è basato sull’ oppressione e sulla penuria di beni di consumo. Gli estensori del documento non capiscono o fanno finta di non capire che il capitalismo di stato travestito da socialismo, con i suoi orrori e le sue nefandezze, ha generato il disgusto per il concetto di comunismo in larghissimi strati del proletariato? E dopo l’infame esperienza dei regimi stalinisti hanno il coraggio di riproporci simili modelli?
Ripartire oggi dalle macerie lasciate dal falso comunismo russo, cinese, cubano, etc. implica necessariamente la chiarezza su cosa significa capitalismo e cosa significa comunismo. Significa capire che ciò che caratterizza il capitalismo non è la proprietà privata dei mezzi di produzione ma esso consiste nei rapporti mercantili, nella produzione aziendale per il profitto, nel denaro e nel lavoro salariato che crea plusvalore. Non cambia nulla alla natura capitalistica di un paese il fatto che la maggior parte delle imprese (neanche tutte!) siano nelle mani dello Stato. Non comprendere questi concetti elementari comporta che i buoni propositi di costruire un movimento anticapitalistico sono destinati al fallimento o, peggio, a diventare arma di riserva della borghesia nel momento in cui le cose si dovessero mettere male per il sistema.
Questo perché ,mentre si proclama solennemente di voler costruire un movimento anticapitalistico, di fatto si stanno gettando le basi per un movimento che rivendica non l’abbattimento del sistema di sfruttamento capitalistico ma un miglioramento del sistema stesso attraverso una radicale riforma che lo renda più sostenibile e più “umano”. Non siamo noi a dirlo con delle insinuazioni ma sono loro stessi ad esplicitarlo. Scrivono infatti:
“Alternativa oggi vuol che dopo trenta anni di politiche liberiste prima di tutto bisogna distruggere la disoccupazione di massa.
Alternativa significa il rifiuto del vincolo del debito, la nazionalizzazione e la socializzazione delle banche e delle imprese strategiche, l’istituzione di poteri democratici reali e diffusi nei luoghi di lavoro, nel territorio, nelle istituzioni. Ci vuole un piano di grandi interventi pubblici per milioni di piccole opere, cancellando tutte le TAV che distruggono ambiente e lavoro.
Alternativa significa la costruzione, la difesa, la riappropriazione e gestione sociale dei beni comuni, contro la mercificazione delle vite, dell’ambiente e della salute, della conoscenza.
Alternativa, perché bisogna riprendere la marcia verso l’eguaglianza sociale partendo dalla riduzione generalizzata degli orari di lavoro, dall’abbassamento della età della pensione, dalla cancellazione delle leggi sulla precarietà, e di quelle sullo schiavismo e la criminalizzazione dei migranti.
Alternativa perché ci vuole una grande redistribuzione della ricchezza verso il basso, con un generale ed egualitario incremento delle retribuzioni e delle pensioni più basse, e con la istituzione di un reddito minimo garantito.
Alternativa, perché nulla di tutto questo potrà essere realizzato con le vecchie classi politiche di destra e di sinistra e con l’attuale sistema di concertazione burocratica sindacale.
Alternativa, perché un movimento politico anticapitalista è necessario per ricostruire forza e unità in tutto il mondo oppresso e disperso dalla precarizzazione devastante che ha imperversato in questi venti anni.”.
In aggiunta a ciò nel documento si afferma la necessità di liberarsi dalla tirannia del capitalismo finanziario e dalla sua oligarchia economica, politica e culturale. Non si parla quindi della liberazione dal capitalismo ma solo dal capitalismo finanziario, come se quest’ultimo non fosse in tutto e per tutto connaturato al modo di produzione capitalistica.
In sostanza non si tratta di un programma comunista, ma di un programma socialdemocratico di riforma su basi più egualitarie della società borghese. Se esso per ipotesi (altamente improbabile) venisse realizzato i lavoratori continuerebbero a essere degli schiavi del capitale, anche se ben retribuiti e con un numero minore di ore di lavoro sul groppone. Ci si potrebbe replicare che, anche se questo non è un programma che prevede la distruzione del capitalismo, comunque il capitalismo di stato potrebbe essere un passo avanti rispetto al sistema attuale. Una tale obiezione vale davvero poco. Il capitalismo di stato era un passo avanti per la situazione della Russia dei primi anni venti o la Cina del 1949 non certo per paesi a capitalismo stramaturo,come gli USA o i paesi europei. Occorre inoltre tenere presente che il capitalismo è un sistema economico che per sua natura è esposto a crisi devastanti, guerre e catastrofi ecologiche. Il capitalismo, per sua natura, non potrà mai eliminare la miseria, l’insicurezza dell’esistenza né l’esercito industriale di riserva anche qualora “tutta” la produzione fosse concentrata nelle mani dello Stato. Solo se la produzione e la distribuzione non sono mediate dal mercato e finalizzate al profitto d’impresa (non importa se statale o privata), solo se la produzione e la distribuzione sono nelle mani del proletariato che le organizza per il soddisfacimento dei bisogni della società non ci saranno più crisi economiche, guerre, catastrofi ecologiche, miseria e insicurezza.
Affermando ciò non intendiamo dire che bisogna limitarsi a propagandare i vantaggi della futura società comunista (cioè per usare un espressione d’altri tempi, il “programma massimo”) e trascurare la necessità di condurre le lotte per un miglioramento della condizione di vita e lavoro dei proletari. Al contrario! Le lotte rivendicative sono indispensabili: con esse la classe lavoratrice sperimenta la necessità dell’organizzazione, dell’azione comune. In esse progressivamente comincia a riconoscersi come classe. Noi partecipiamo a queste lotte, ove possibile le promuoviamo. Siamo però consapevoli e lo comunichiamo ai lavoratori con cui siamo in contatto, che le conquiste ottenute, i successi parziali ottenuti a prezzo di grandi sacrifici, finché dura la società basata sul profitto saranno sempre precari e revocabili e comunque mai potranno eliminare la miseria e lo sfruttamento.
E qui necessariamente bisogna considerare l’ultimo elemento totalmente ignorato dagli estensori del documento. Come realizzare il cambiamento? I comunisti rivoluzionari sin dai tempi della Comune di Parigi sanno che per la liberazione dei proletari dal dominio del capitale è necessario “spezzare” la macchina statale, sanno cioè che è impossibile realizzare il cambiamento semplicemente utilizzando l’attuale macchina amministrativa, repressiva e giudiziaria dello Stato borghese. Gli estensori del documento nulla dicono a questo proposito e questo silenzio è la più eloquente conferma che la necessità di un “cambiamento rivoluzionario” di cui scrivono somiglia molto a quella rivoluzione evocata a parole dai dirigenti socialdemocratici dell’inizio del secolo scorso nei discorsi domenicali per scaldare il cuore dei militanti mentre, per il resto della settimana, si praticava il più becero opportunismo.
S.C.