(ovvero: riuscirà il movimento di classe a liberarsi dalla sindrome del “grande evento”?)
Come accade da tempo, attorno alla giornata di assedio ai palazzi del potere romano si era da tempo concentrato il grosso delle attese, delle aspettative e delle speranze del grosso del movimento nostrano, in un gioco di specchi che faceva il paio con la consueta opera di criminalizzazione e di terrorismo psicologico-mediatico messa in campo dal governo, dai padroni e dai loro zerbini ai vari livelli.
Dopo la fiammata del 15 ottobre 2011, il ripiegamento “territoral- vertenziale” delle lotte a cui abbiamo assistito negli ultimi 2 anni ha rappresentato un esito per certi versi inevitabile, data da un lato l’assenza oggettiva di un ciclo di lotte reali dispiegato su larga scala, dall’altro l’incapacità soggettiva di tutte le aree politiche e di movimento a fungere da catalizzatore e punto di riferimento stabile per quella rabbia proletaria che covava (e cova) sotto le ceneri della crisi e che trovò nella rivolta di Piazza San Giovanni l’unico canale attraverso cui esprimersi in tutta la sua radicalità.
Si sa, le rivolte episodiche o fungono da detonatore di un esplosione sociale che a medio e lungo termine si accompagna a reali processi di ricomposizione di classe, oppure finiscono schiacciate tra l’incudine delle spirali repressive e il martello delle illusioni riformiste, delle inflitrazioni istituzionali, delle sirene elettorali o, nella migliore delle ipotesi, della mera autorappresentazione del proprio ruolo di testimonianza.
Inutile dire, poiché è sotto gli occhi di tutti, che tra questi due scenari negli ultimi due anni a prevalere è stato di gran lunga il secondo.
D’altra parte, se per molti il 15 ottobre ha rappresentato l’occasione per “sdoganarsi” definitivamente e assurgere al ruolo di “opposizione pacifica e responsabile”, in molti altri casi è stata l’occasione per far tesoro dello “stato dell’arte” e riprendere sui territori quel grigio lavoro quotidiano nei mille rivoli dello scontro di classe e nelle piccole e grandi contraddizioni quotidiane, fuori e contro la trappola della concertazione e la delega ad istituzioni, partiti e/o governi “amici”. Ci riferiamo al movimento No-Tav e alle lotte per il diritto alla casa (non a caso co-promotrici del corteo del 19) ma non solo: solo per fare qualche esempio, le mobilitazioni dei facchini della logistica nel centro e nel nord Italia negli ultimi anni hanno rappresentato un importante segnale di rottura delle compatibilità nei luoghi di lavoro, ed un esempio (seppur al momento ancora in controtendenza rispetto al quadro generale) di come sia possibile intervenire nelle lotte per il lavoro e il salario non solo in un ottica di mera difesa dell’esistente; analogamente, le lotte in difesa della salute e contro le devastazioni ambientali in corso nel sud-Italia e in particolare in Campania, nel compiere il salto di qualità da un ottica di pura negazione (il no a discariche ed inceneritori) ad una battaglia più complessiva per il diritto a un lavoro e un salario utile socialmente attraverso bonifiche e ciclo integrato dei rifiuti, si pongono oggettivamente (seppur il più delle volte ancora inconsapevolmente) come critica complessiva al capitalismo e alle sue logiche di accumulazione e speculazione senza scrupoli.
Su queste basi, è evidente come la piazza del 19 rappresentasse un banco di prova essenziale per comprendere se vi fossero le condizioni per riannodare i tanti conflitti sparsi sui territori e dar vita a un nuovo ciclo di lotta generale e su scala nazionale. Un punto di partenza, dunque, e non il solito “big event” autunnale.
Le decine di migliaia scese in piazza in maniera determinata e combattiva sono senz’altro un dato incoraggiante, così come è da leggere positivamente il fatto che la piazza del 19, per la prima volta negli ultimi anni (e a differenza del 15 ottobre), ha fin dal primo momento rifiutato l’abbraccio mortale dei rottami del riformismo in tutte le sue varianti.
D’altronde, se è vero, come hanno tenuto a sottolineare gli stessi promotori, che il metro di valutazione del 19 si misura con la capacità di sedimentare nel tempo percorsi di lotta unitari e non, quindi, nella mera conta dei partecipanti al singolo corteo, è del tutto evidente che parlare di “successo” o di inizio di una nuova stagione di lotta appare quantomai prematuro, oltre che contraddittorio con le stesse premesse della vigilia.
Senz’altro gli appuntamenti lanciati nei prossimi giorni dal cartello dei promotori per dare continuità al percorso comune possono essere un primo, immediato momento di verifica delle possibilità di generalizzare le lotte e/o radicarle sui territori in un ottica e in una cornice comune, ma a tal proposito occorre chiarire alcuni elementi di fondo, i quali, se non affrontati, rischiano di inficiare tale scopo già alla partenza:
1) La lotta contro la Tav e quella dei movimenti per il diritto all’abitare rappresentano senz’altro dei perni imprescindibili per una generalizzazione delle lotte su scala nazionale in quanto capaci di fungere da punto di riferimento e da polo attrattivo per altre lotte, ma ciò non deve portare all’automatismo di considerarle, per loro stessa natura, fattori automatici di generalizzazione. Per essere più concreti: l’accampata del 19 fuori al ministero delle infrastrutture risponde (com’é normale che sia) all’esigenza, specifica e concreta, di ottenere un incontro con le istituzioni (Lupi) per rimettere in discussione la Tav e porre l’attenzione sull’emergenza – casa. Per noi si tratta di un passaggio necessario e fisiologico, poiché è chiaro a chiunque abbia condotto anche una sola lotta vertenziale e/o rivendicativa che i tavoli di trattativa con la controparte rappresentano dei passaggi obbligati cui non si può “per principio” fare a meno, pena il mettere a repentaglio lo “scopo” particolare attorno a cui si sono aggregate, spesso con anni di lavoro, forze umane e materiali. Detto questo, pensiamo sia altrettanto chiaro a tutti coloro che hanno animato la piazza del 19 che il governo Letta (così come ogni altro governo dei padroni), essendo nient’altro che un comitato d’affari dei potentati economici, affaristici e speculativi contro cui siamo scesi in piazza, non sarà disposto a retrocedere di un millimetro ne sulla Tav ne sulle politiche di precarietà e di smantellamento dell’edilizia pubblica. La trattativa, dunque, per quanto sia un “atto dovuto” nei confronti di chi spera, legittimamente, di strappare qualche risultato concreto, a nostro avviso non è ancora supportata da una forza e da una capacità di scontro generale tale da lasciar prefigurare esiti anche solo parzialmente positivi.
2) Se tutto ciò corrisponde al vero, è chiaro che il futuro delle lotte che hanno animato la giornata del 19 è legato a doppio filo alla capacità di queste ultime di essere parte di una vertenza generale che assuma come baricentro la lotta contro precarietà, licenziamenti, disoccupazione e bassi salari. Per quel che ci riguarda, a partire dall’assemblea dello scorso 29 luglio a Napoli e proseguendo con la giornata di mobilitazione del 27 settembre a Pomigliano e per le vie del centro di Napoli promossa dal cartello “Uniti si vince”, abbiamo dimostrato, nel nostro piccolo e con forze ancora estremamente limitate, che non vogliamo limitarci solo ad evocare questa prospettiva a chiacchiere, ma siamo disponibili sin d’ora a praticarla quotidianamente, e in quest’ottica e con questo spirito siamo stati presenti a Roma insieme ai compagni del SI-Cobas e ai cassintegrati Fiat.
Il crescente peggioramento delle condizioni materiali di vita e di lavoro, frutto delle politiche di austerity, il clima irrespirabile che si respira in gran parte delle fabbriche e delle aziende sia private che pubbliche, dove lo strapotere padronale e la complicità di Cgil-Cisl-Uil si traduce in ricatti, minacce, rappresaglie e licenziamenti che colpiscono in primo luogo i soggetti più combattivi, la disoccupazione dilagante (oramai non solo più a sud) e divenuta dato strutturale per un intera generazione di proletari, l’insufficienza ormai cronica dello stesso sindacalismo di base, al contempo politica e organizzativa, a rendersi portavoce e punto di riferimento anche solo di una parte significativa di questa galassia, sono tutti elementi che concorrono a determinare un vuoto oggettivo enorme da parte del movimento proprio sul terreno principale dello scontro di classe: quello della lotta per il salario.
Da questo punto di vista, il 19 ottobre ha rappresentato la riprova di quanto affermiamo: poca, troppo poca (o comunque poco visibile) la presenza in piazza di esperienze di lotta operaia o comunque riconducibili al mondo del lavoro e del non lavoro. Discorso analogo per quanto riguarda il tema precarietà e disoccupazione: le campagne sul “reddito”, al di la di ogni valutazione di merito sulla giustezza o meno di tale rivendicazione in termini di classe (a tal riguardo, non essendo questa la sede per affrontare tale dibattito, rimandiamo al documento di Coc-Napoli e LP Iskra “Perché lottare per il salario garantito”), finora sono rimaste tali solo sulla carta. Noi pensiamo che agitare la parola d’ordine del reddito (ma vale lo stesso anche qualora si parlasse, a nostro avviso più correttamente, di salario garantito) solo nei “giorni di festa”, dunque senza porci il problema qui ed ora di offrire alla massa dei disoccupati, dei precari e dei lavoratori al nero uno strumento capace di organizzarli materialmente e costruire percorsi di lotta che partano dalla quotidianetà dello scontro di classe, ci porta a nient’altro che a una sterile autorappresentazione , ovvero a quel “sostituzionismo” che gli stessi promotori del 19 ottobre dichiarano di voler evitare. Osservando dal di dentro il corteo del 19, ci pare fuor di dubbio che il dato politicamente più importante sia stato la presenza massiccia in piazza dalle migliaia di famiglie sotto sfratto o in occupazione: non il ceto politico, non i militanti che “agiscono in nome di…” come per troppo tempo siamo stati abituati a vedere, bensì migliaia di proletari in carne ed ossa che portano in piazza i loro bisogni materiali e il loro protagonismo.
Ora si tratta di compiere il passo successivo: se, come crediamo, la lotta per la casa non è altro che un pezzo di una lotta più generale per la riappropriazione di quote di salario diretto e indiretto sottratte ai proletari in decenni di offensive padronali, allora si tratta di far tesoro di questi primi segnali di ripresa della conflittualità e di lavorare per estendere il raggio d’azione in una prospettiva realmente unificante. Detto in soldoni, si tratta di mettere in piedi una campagna che ponga al centro il tema della garanzia di salario per tutti i proletari, capace non solo di far coesistere al proprio interno la lotta per la casa con quella dei disoccupati, dei precari, dei cassintegrati, e queste ultime con lotte per i servizi sociali (trasporti, sanità, istruzione), ma soprattutto in grado di fungere da strumento di mutuo rafforzamento delle singole lotte e vertenze. Una “vertenza” generale che, per ovvi motivi, non può che andare di pari passo con l’altrettanto generale battaglia per la riduzione dell’orario di lavoro (lavorare meno, lavorare tutti) che alla luce dei tempi e dei ritmi sempre più schiavistici imposti dai padroni sia in fabbrica che nel “sommerso” diviene quantomai attuale.
Per fare ciò pensiamo che occorra un intervento sistematico e quotidiano, quindi ne spontaneo ne occasionale, ma organizzato.
3) Alla vigilia del corteo, la nostra risposta ai “rumors” delle questure di tutta Italia e della stampa ad essi asservita è stata un appello ai manifestanti ad andare “oltre la rivolta episodica…per la lotta quotidiana”. Con ciò mettevamo nel conto la possibilità che nel corteo si esprimessero forme di insubordinazione e di “sollevazione” che di certo non avremmo guardato con distacco o, peggio ancora, con la puzza sotto il naso, bensì sottolineando come la lotta quotidiana e organizzata rappresenti l’unico antidoto duraturo contro la spirale repressiva che, puntualmente, ci costringe a leccarci le ferite ogni volta che un corteo travalica i limiti consentiti dalle leggi dello stato e dei padroni.
Possiamo dire senza timore di essere smentiti che nel corteo del 19 quei “limiti” non sono stati superati: non c’è stata rivolta, non c’è stata sollevazione, al punto che domenica mattina sui giornali borghesi era tutto un fiorire di attestati di stima e congratulazioni al governo e alle forze dell’ordine per aver tenuto la situazione “sotto controllo” ed evitato una replica del 15 ottobre. Come area comunista rivoluzionaria non intendiamo certo cadere nella trappola della repressione, ne tantomeno ci interessa offrire il fianco ai panegirici dello “scontro a tutti i costi”. Conosciamo fin troppo bene la potenza di fuoco del nemico di classe e l’enorme inadeguatezza che, allo stato attuale, anche su questo versante caratterizza il movimento di classe, così come non ci lasciano di certo indifferenti le possibili rappresaglie che lo Stato avrebbe potuto mettere in campo contro quel poco di buono che si è costruito nel caso in cui il 19 ci fossimo trovati di fronte a scenari del tutto differenti.
Fatta questa doverosa premessa, resta tuttavia il fatto che se da un lato (il nostro) la piazza è stata gestita con particolare zelo e senso della misura, dall’altro lato lo Stato borghese ha ancora una volta dimostrato di voler colpire, comunque e senza andare troppo per il sottile, il movimento di classe.
Questa volta, a differenza di altre, abbiamo assistito a un imponente opera di “prevenzione” su larga scala (segno che, con ogni probabilità, l’interesse primario di governo e padroni era, prim’ancora che reprimere, quello di disinnescare una possibile rivolta che, seppur episodica poteva lasciare strascichi nei già traballanti equilibri politici di palazzo): una prevenzione chirurgica che nei giorni precedenti al corteo è passata attraverso controlli a tappeto, blocco e/o perquisizione degli autobus dei manifestanti, sequestri finanche del materiale di autodifesa o di indumenti del tutto inoffensivi (felpe, sciarpe, ecc.). Una prevenzione che, tuttavia, non è bastata a distogliere lo Stato dall’obiettivo di conseguire il “risultato pieno” attraverso un’opera altrettanto chirugica di fermi ed arresti durante il corteo, al punto che, nel mentre scriviamo, diversi compagni e compagne sono ancora in carcere in attesa della convalida o meno degli arresti a seguito dei pochi minuti di scontri (peraltro annunciati) fuori al ministero dell’economia.
Questo per dire che dello Stato non c’è mai da fidarsi, ed ogni illusione di poter riuscire, seppur in maniera conflittuale, a “cogestire” o “calmierare” la piazza pur di evitare le rappresaglie del potere, finisce per rivelarsi sempre per quello che è: una pia illusione, appunto.
Fatto fermo l’auspicio che i compagni fermati siano già liberi nelle prossime ore, pensiamo altresì che movimento tutto debba assumere su vicende come questa una condotta unitaria e coerente: al di la dei consueti presidi e manifestazioni di solidarietà, un primo, importante passo in direzione di un effettivo sostegno agli arrestati pensiamo possa essere l’interruzione dei rapporti con ogni organo centrale e periferico dello Stato fin quando i compagni non vengono liberati: “fin quando i compagni sono dentro, non si tratta e non si discute su nulla”, questa pensiamo possa essere una prima risposta alle strategie repressive.
4) I compiti di oggi, sia nell’ottica della ricomposizione delle lotte sia di strategie per porre argine all’offensiva repressiva, non possono e non devono mettere in secondo piano la battaglia politica più complessiva per la liberazione dallo sfruttamento salariato. Sappiamo che su questo tema molti compagni storceranno la bocca, e altri continueranno, seppur concordi in prospettiva, a fare “orecchie da mercante”. Tuttavia, se da un lato non è nel nostro stile (per dirla col Marx del “Manifesto”), nascondere le nostre intenzioni, dall’altro ci sembra (e non ce ne vogliano i compagni “di movimento”…) che il tema della costruzione dell’organizzazione politica di classe, comunista, rivoluzionaria e dunque autonoma da ogni compatibilità con gli apparati politici, sindacali e sociali della classe dominante, risulti quanto mai attuale. Basterebbe guardarsi attorno, anche solo rimanendo in Europa, per comprendere il nesso dialettico che intercorre tra la capacità di lotta e di autorganizzazione della classe e la necessità che esse si dotino di un organizzazione politica indipendente: in Spagna, e ancor più in Grecia, la presenza di forme di mobilitazione radicale e continuata da parte delle forze anticapitaliste, pur nella sua generosità e nell’abnegazione di migliaia di militanti, in assenza di un’organizzazione politica di classe credibile, non ha di certo impedito all’Ue, alla Troika e ai suoi governi fantocci di portare a termine tutte le controriforme che essi si erano posti in agenda. Evidentemente l’autorganizzazione e le lotte, per quanto unite e coordinate, da sole non bastano…. Ciò tanto più nell’epoca del tramonto (definitivo?) di ogni spiraglio riformista e redistributivo, sempre più storicamente incompatibile con l’attuale ciclo di crisi del capitale.
L’irriformabilità conclamata del capitalismo, l’impraticabilità oggettiva di ogni ipotesi di trasformazione di carattere gradualista o “partecipativa”, e, di converso, il costante e crescente processo di impoverimento e proletarizzazione in tutto l’occidente, sono tutti fattori che lasciano presagire che nei prossimi mesi e nei prossimi anni il destino dei movimenti e delle lotte proletarie di resistenza alla crisi sarà sempre più legato a doppio filo con l’attualità e la necessità per milioni di uomini e donne di dotarsi di un’organizzazione politica che lavori all’abbattimento del capitalismo, del suo stato e dei suoi organi di potere.
Sarà forse il caso di tornare a discuterne?
Comunisti per l’organizzazione di classe
Laboratorio politico Iskra