Spedizioni esplorative sul sentiero noto della precarietà

Nel
capitalismo cosiddetto immateriale vige una divisione cognitica del
lavoro che non prevede nessuna figura centrale del processo produttivo
Proposte
che rimuovono le nuove e spesso feroci linee di confine che separano
lavoratori «cognitivi» qualificati dai «MacJobs». E nulla dicono sulla
necessaria riqualificazione del welfare state che garantisca servizi e
diritti universali di cittadinanza Prove di riforma del mercato del
lavoro nel sito «Lavoce.info». Un insieme di contributi tra loro
eterogenei, ma accomunati da un unico obiettivo: rendere la precarietà
un passaggio ineludibile della vita lavorativa e renderlo socialmente
necessarioAndrea Fumagalli

A
pochi giorni dall’insediamento del governo di Romano Prodi Prodi, uno
degli argomenti caldi nella discussione politica è la riforma del
mercato del lavoro. Nei giorni precedenti, sul sito Lavoce.info
sono state presentate alcune proposte che fanno perno su due assi
principali. Andrea Ichino, fratello del giuslavorista Pietro, propone
ad esempio l’introduzione di un «Contratto temporaneo limitato» (Ctl)
rivolto all’area del lavoro subordinato e parasubordinato in posizione
di dipendenza economica (collaboratori mono-committenti) che dovrebbe
sostituire i preesistenti contratti temporanei di lavoro, con
l’eccezione del lavoro interinale. Secondo questa proposta, tale
contratto, della durata non inferiore ai 3 anni, può essere applicato
dall’azienda a un dipendente solo una volta. Inoltre, questo tipo di
rapporto di lavoro può essere rinnovato solo tre volte. Viene però da
chiedersi cosa accade al termine del terzo «mandato» se il «contratto
temporaneo limitato» non si è trasformato in assunzione a tempo
indeterminato.
Sempre su Lavoce.info,
Marco Leonardi e Massimo Pallini propongono una riforma del rapporto di
lavoro subordinato, in cui sia possibile da parte dell’impresa il
ricorso al licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo
(e non disciplinare), purché esso sia accompagnato dall’introduzione di
una indennità di licenziamento, determinata per legge, secondo il
modello previsto in Germania dalle riforme Hartz introdotte dal passato
governo socialdemocratico. Tale indennità viene garantita
immediatamente se il lavoratore accetta il licenziamento per
giustificato motivo; se invece contesta il provvedimento per via
legislative deve attendere l’esito del ricorso (e considerando i tempi
sempre più lunghi della giustizia, è facile prevedere che il
licenziamento verrà tendenzialmente accettato).

Le tappe della stabilità
Tito
Boeri e Pietro Garibaldo propongono, invece, un sentiero a tappe verso
la stabilità del rapporto di lavoro che cerchi di ridurre il divario
tra un mercato del lavoro ufficiale e quello che i due autori chiamano
«parallelo», cioè a elevata precarietà. Questo sentiero verso la
stabilità prevede tre tappe: periodo di prova, inserimento e stabilità.
L’inserimento dura dalla fine del periodo di prova (6 mesi) alla fine
del terzo anno; è vietato il licenziamento disciplinare e
discriminatorio, ma è possibile il licenziamento economico previo il
pagamento di una «indennità di licenziamento» (da due a sei mesi di
salario). Alla fine del triennio, l’impresa – secondo gli autori – sarà
incentivata ad assumere il lavoratore visto l’investimento in «capitale
umano» che è stato effettuato. La proposta di Boeri e Garibaldo è più
rigida di quella di Ichino, in quanto anche nel periodo di inserimento,
ovvero quello con possibile contratto a termine, solo il licenziamento
economico è ammesso, comunque con un costo economico per l’azienda. Il
«contratto temporaneo di lavoro» di Ichino invece prevede piena
flessibilità senza costi per l’impresa, così come veniva contemplato
dal contestato «contratto di avvio al lavoro» francese. Dal momento che
la proposta di Ichino è rivolta alla generalità del mondo del lavoro,
di fatto il suo «contratto temporaneo di lavoro» è una generalizzazione
del «fratello» francese.
Il
tema delle garanzia e degli ammortizzatori sociali non può non può
essere scisso dal punto precedente. Nella proposta di Ichino nulla
viene detto sull’argomento, mentre in quella di Leopardi e Pallini si
introduce la riforma dell’indennità di licenziamento. Boeri e Garibaldi
propongono invece due misure ragionevoli e condivisibili:
l’introduzione di un salario minimo orario per i lavoratori non
contrattualizzati e l’introduzione di un contributo previdenziale
uniforme, a prescindere dalla prestazione lavorativa e dal tipo di
contratto di lavoro. L’ovvio obiettivo è garantire una maggior
copertura previdenziale per tutti gli «atipici». Il punto non chiarito
riguarda chi paga questi contributi: se essi sono a carico del
lavoratore, difficilmente tale copertura previdenziale potrà avvenire a
causa delle basse remunerazioni oggi esistenti. Diventa quindi
necessario ipotizzare un onere maggiore a carico delle imprese e il
ricorso a eventuali contributi sociali pubblici.
La costosa estensione
Nel
suo contributo Paolo Sestito affronta il tema della riforma degli
ammortizzatori sociali proprio a partire dalla crescente flessibilità
del mercato del lavoro, sostenendo che l’estensione degli
ammortizzatori sociali previsti solo per i «salariati» a tempo
indeterminato a tutte le tipologie di «tempo determinato» sarebbe
costoso e inefficiente. Occorre quindi, secondo l’autore, ridisegnare
gli strumenti. Tale riforma dovrebbe seguire due direttrici: definire
sussidi e schemi di finanziamento degli stessi in modo tale da
scoraggiarne l’uso prolungato e ripetuto e, in secondo luogo,
«attivare» i beneficiari degli stessi sussidi, tramite un sostegno ed
un controllo nella ricerca di un nuovo lavoro.
Le
varie proposte, pur nella diversità, partono da presupposti teorici e
empirici che non sono però del tutto condivisibili. In primo luogo, la
logica prevalente è ancora eminentemente «fordista». L’obiettivo è il
contratto di lavoro a tempo indeterminato. Il che non è di per sé
errato, soprattutto se è solo tramite il raggiungimento di
lavoro stabile e continuativo che si ha garanzia di un reddito
altrettanto stabile e garantito che consenta una vita dignitosa. In
secondo luogo, vi è la tendenza a considerare un mercato del lavoro
omogeneo e caratterizzato da lavoratori in grado di contrattare la
propria posizione con le imprese in condizioni di pari opportunità, al
limite caratterizzata da asimmetria informativa o da carenze (comunque
limitate e superabili) di formazione.
Divisione cognitiva del lavoro
La
realtà non è questa come anche il mercato del lavoro statunitense
dimostra. Nel capitalismo cognitivo-immateriale, che ha sostituito nei
paesi occidentali il vecchio capitalismo industriale-fordista, il
mercato del lavoro si presenta segmentato e gerarchizzato in base a una
divisione cognitiva del lavoro che si somma a quella
tradizionale per mansioni (esecuzione, progettazione,
commercializzazione). In termini generali, il mercato del lavoro si
presenta suddiviso in tre gironi.
Al primo posto della gerarchia, troviamo i lavoratori della conoscenza altamente specializzati (brain knowledge workers)
che, detenendo conoscenze tacite (ovvero conoscenze che non sono
alienabili dalla persona), possono far leva su un potere contrattuale e
una forza di attrazione che spinge le imprese ad assumerli non solo con
elevate prebende ma anche a cercare di trattenerli il più possibile.
Se, per ipotesi, il mercato del lavoro fosse composto interamente da
questo livello, sarebbero gli stessi lavoratori a imporre elementi di
rigidità alle imprese e il termine «precarietà» verrebbe bandito dal
vocabolario. Nella realtà, invece, la detenzione di conoscenze tacite è
per definizione patrimonio esclusivo di pochi, un élite appunto.
Infatti, grazie alla capacità delle tecnologie informatiche di imporre
procedure meccanizzate e codificate di trasmissione della conoscenza,
la maggior parte dei lavoratori scolarizzati utilizza competenze e
saperi che sono loro alienabili in qualsiasi momento, innescando
meccanismi di subalternità e ricattabilità nel rapporto di lavoro. E’
questo il secondo livello gerarchico del mercato del lavoro, costituito
da lavoratori con conoscenze codificate (chain knowledge workers),
che operano nei settori dei servizi immateriali alle imprese (dalla
comunicazione-editoria, alla logistica informatica di base, a tutte
quelle attività di tipo cognitivo che sono standardizzate e sottoposte
a un taylorismo crescente) o nelle fasi più specializzate della
produzione manifatturiera, con elevato turn-over e soprattutto con la
consapevolezza che la propria prestazione lavorativa è sostituibile da
un momento all’altro. Infine nel gradino più basso troviamo i
lavoratori non qualificati (chaiworkers), che operano nelle produzioni a maggior contenuto di manualità (i cosiddetti MacJobs) o di capacità relazionali (non riconosciuta) come spesso avviene nel lavoro migrante di cura.
I
due gironi più «bassi», che costituiscono i 4/5 della forza lavoro,
sono caratterizzati da dumping sociale che va oltre la tradizionale
separazione tra garantiti e non garantiti, poiché anche chi oggi è
garantito sa perfettamente che domani potrebbe non esserlo più. In tale
contesto, non solo non c’è mobilità verso l’altro tra i tre livelli, ma
la condizione di incertezza e instabilità, ovvero di precarietà, tende
a generalizzarsi. Inoltre, nel contesto italiano, dove non esiste una
politica «universale» di protezione sociale, tale precarietà tende a
tracimare nella vita quotidiana e assumere connotati esistenziali.
In cerca di welfare state
Se
partiamo da questo contesto, qualunque intervento sul mercato del
lavoro non può essere univoco e omogeneo. Inoltre la logica e la
tempistica degli interventi dovrebbe essere rovesciata. Se si vogliono
estendere le garanzie e le tutele, occorre inizialmente partire da una
seria politica di protezione sociale che metta al primo posto la
garanzia di un reddito stabile e continuativo, la possibilità di
usufruire di servizi sociali di base, una formazione autonomamente
scelta (e non imposta come nella riforma Moratti), la libera
circolazione delle conoscenze, l’accesso al credito e a tutto ciò che
consente la libera espressione delle proprie capacità. Nell’attuale
situazione di strutturale flessibilità di un lavoro prevalentemente
cognitivo, ciò potrebbe dare l’opportunità di affermare quella capacità
creativa (individualità, non individualisno) a vantaggio della stessa
cooperazione sociale produttiva. Se ciò avviene in un contesto
giuridico in cui alcune diritti e servizi sociali di base, a
prescindere dalla situazione lavorativa, sono garantiti (assieme a un
salario minimo per chi non è contrattualizzato e un contributo
previdenziale universale), allora è probabile che il governo della
flessibilità diventi un obiettivo perseguibile. In caso contrario, le
imprese che operano nei settori dei MacJobs o dei chain
knowledge workers
saranno
sempre più incentivate a sfruttare la precarietà come leva per ottenere
facili profitti immediati a danno di una riqualificazione tecnologica e
qualitativa. E allora l’auspicio ad un lavoro stabile rischia di
diventare una chimera.
In conclusione, è la presenza di un robusto welfare state
a favorire un processo di miglioramento delle condizioni di lavoro e
una riduzione della precarietà. Confindustria e sistema delle imprese
sono oggi completamente sorde al riguardo. Lo sarà anche il nuovo
governo di Centro-sinistra? Alla luce delle proposte di riforma della
Legge 30, sembrerebbe di sì

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