Pubblichiamo la traduzione in italiano, a nostra cura, condividendolo, del comunicato dell’Alleanza dei Socialisti del Medio Oriente e Nord Africa sulle recenti manifestazioni di protesta in Iraq, represse nel sangue con circa 150 morti, delle quali poco o nulla è comparso sui media italiani.
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Le richieste di giustizia sociale e ridistribuzione economica contro le politiche distruttive neoliberiste non possono essere dissociate dall’opposizione al sistema politico a base confessionale. La stragrande maggioranza dei manifestanti continua a denunciare l’islamizzazione e la settarizzazione della vita sociale e politica.
17 ottobre 2019
Dal 4 ottobre sono esplose nuove, enormi nuove mobilitazioni popolari che hanno scosso l’Iraq. Le proteste denunciano difficoltà economiche e sociali e stanno dirigendo la loro rabbia contro le ruberie, la corruzione e la repressione da parte dei partiti borghesi a base confessionale e delle milizie criminali.
L’Alleanza dei socialisti del Medio Oriente e Nordafrica esprime il proprio sostegno alle mobilitazioni popolari in Iraq per la democrazia e la giustizia sociale e contro i detentori del potere a base confessionale e borghesi.
Queste proteste hanno concentrato in particolare la loro rabbia contro la corruzione, la disoccupazione e il decadimento dei servizi pubblici in un paese ricco di risorse che soffre di carenza cronica di elettricità e acqua. I manifestanti hanno saccheggiato e incendiato le sedi di diverse partiti politici a base confessionale.
Secondo le statistiche del governo iracheno, il tasso di povertà estrema è stimato intorno al 22,5 per cento, dato ampiamente ritenuto una sottovalutazione. Altre stime indicano che circa 13 milioni o il 30% di una popolazione irachena totale di 38 milioni di abitanti vive in povertà assoluta. Il paese ha uno dei tassi di partecipazione alle forze lavoro più bassi al mondo e nella regione. Tale tasso rappresenta il 48,7% della popolazione, il 12% delle donne e il 26% dei giovani. L’Iraq è un’economia rentier, che continua a fare molto affidamento sulle esportazioni di petrolio che forniscono circa il 90% delle sue entrate pubbliche e il 58% del PIL del paese. Altri settori produttivi come l’industria manifatturiera non petrolchimica e l’agricoltura sono stati in gran parte trascurati.
L’attuale movimento di protesta si trova principalmente nella capitale Baghdad e nella regione meridionale del paese, che è principalmente sciita. Il Kurdistan iracheno e le aree a maggioranza sunnita del Paese – che hanno subito una vasta distruzione a causa dei molteplici conflitti militari dal 2003 e della guerra contro l’ISIS a Mosul – non hanno ancora aderito a questa ondata di proteste. Tuttavia, negli ultimi anni, in diverse occasioni si sono verificate proteste in Kurdistan con richieste simili contro il governo regionale del Kurdistan (KRG) nel nord dell’Iraq.
Grandi settori del movimento di protesta hanno anche denunciato il ruolo dell’Iran in Iraq cantando “Iran, Iran, Out, Out” e bruciando bandiere iraniane. Dall’invasione e l’occupazione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti nel 2003, l’influenza politica ed economica di Teheran è cresciuta con la collaborazione dei suoi alleati iracheni al potere. Temendo queste proteste, Teheran ha dispiegato sistemi di sorveglianza lungo i suoi confini e rafforzato i suoi apparati di sicurezza.
Allo stesso tempo, gli attori dell’influenza filo-iraniana in Iraq hanno dipinto il movimento di protesta come una “cospirazione”, dando la colpa della violenza a presunti “infiltrati” sostenuti da “nemici stranieri” senza nome. Le milizie statali pro-iraniane delle “Unità popolari di mobilitazione”, note come Hashd al-Sha’bi e il suo ramo politico, Fateh Alliance, si sono opposte con forza all’attuale movimento di protesta e hanno chiesto mezzi repressivi e sanguinosi per mettervi fine.
Il governo iracheno ha reagito in modo violentemente repressivo contro i manifestanti uccidendo più di 150 persone e ferendone almeno 6.000 dall’inizio delle proteste il 4 ottobre. Centinaia di persone sono state arrestate, un numero sconosciuto di loro torturati. I manifestanti sono stati uccisi e feriti dai cecchini tra le forze di sicurezza, che sparano indiscriminatamente sulla folla dai tetti mentre il ministero degli interni nega che le forze governative abbiano sparato direttamente ai manifestanti. Il governo ha anche quasi immediatamente represso la copertura mediatica dall’inizio delle proteste. Gli uffici dei media locali e internazionali sono stati attaccati la scorsa settimana e i giornalisti hanno affermato di essere stati ammoniti dalle autorità di non coprire le proteste. Con Internet disattivato, c’era poca copertura delle proteste in televisione e le persone hanno fatto affidamento su altri mezzi per ottenere filmati e informazioni.
Allo stesso tempo, il governo iracheno ha anche inizialmente annunciato una serie di misure sociali in risposta alle richieste dei manifestanti. Tra queste l’assistenza abitativa e la promessa di costruire 100.000 alloggi, benefici per pensionati e giovani disoccupati. La promessa di nuove costruzioni residenziali è arrivata dopo le decisioni del governo a settembre di distruggere edifici e abitazioni in insediamenti informali in diverse parti del paese in cui tre milioni di iracheni hanno costruito strutture non autorizzate su terreni dello Stato.
Il 9 ottobre il primo ministro iracheno Adel Abdul Mahdi è andato oltre, annunciando un rimpasto di governo, ha dichiarato tre giorni di lutto nazionale e ha dichiarato che coloro che hanno sparato ai manifestanti sarebbero stati puniti. è tuttavia improbabile che tali misure e proposte di riforma, alcune delle quali sono state riciclate da un pacchetto di riforme proposte dopo le proteste del 2015, passano sedare la rabbia popolare e le lamentele del movimento di protesta.
Nel 2011 e ancora di più dal 2015, l’Iraq ha visto ricorrenti proteste da parte delle classi popolari. Questa nuova ondata di proteste popolari in Iraq dimostra la determinazione di ampi settori della società irachena, in particolare i giovani, tra cui molte donne, a provocare cambiamenti radicali.
Le richieste di giustizia sociale e ridistribuzione economica contro le politiche distruttive neoliberiste non possono essere dissociate dall’opposizione al sistema politico a base confessionale. La stragrande maggioranza dei manifestanti continua a denunciare l’islamizzazione e la settarizzazione della vita sociale e politica. Chiedono uno stato “civile” basato su una cittadinanza inclusiva che riconosca la diversità etnica e religiosa della popolazione irachena.
Il sistema politico settario (a base confessionale), promosso sotto il governo dispotico di Saddam Hussein, è stato ristrutturato e rafforzato a seguito della devastante invasione dell’Iraq del 2003. Questo sistema settario ristrutturato è stato ulteriormente consolidato dalle classi dominanti settarie e borghesi irachene sostenute dall’Iran.
È impossibile immaginare soluzioni ai problemi della democrazia e dell’ingiustizia socioeconomica per la classe operaia irachena all’interno del sistema politico a base confessionale che mantiene e protegge il dominio e i privilegi della classe dominante. Le varie fazioni della borghesia irachena hanno sfruttato la rendita petrolifera per costruire e rafforzare una rete monolitica di clientelismo, nepotismo e corruzione, mentre la maggior parte della popolazione irachena ha continuato a soffrire di povertà e privazioni.
La classe operaia irachena è stata anche ostacolata dalle leggi sul lavoro di Saddam Hussein, che furono tra le leggi del regime di Saddam che rimasero durante l’occupazione americana. Inoltre, le modifiche al diritto societario hanno rimosso il ruolo sindacale nel processo decisionale aziendale. Nel 1987, il regime iracheno aveva riclassificato la maggior parte dei lavoratori iracheni, compresi quelli delle grandi imprese statali, come pubblico impiego, vietando così loro di formare sindacati e contrattare. Nonostante alcune modifiche a gran parte della struttura legislativa irachena, questo decreto rimane in vigore e si sono verificati solo miglioramenti secondari. I dipendenti pubblici non hanno ancora il diritto di scioperare.
Inoltre, le donne irachene si sono opposte alla violenza inflitta loro dalle credenze dominanti tradizionali e misogine, dal governo, dalle milizie settarie fondamentaliste religiose, dagli Stati Uniti e da altre forze di invasione. Dall’invasione del 2003, gli Stati Uniti, che hanno installato il regime settario che governa il Paese, hanno lavorato per minare la Legge progressista sullo stato personale [diritto di famiglia] introdotta da esponenti di spicco femministe e comuniste nel 1959, una legge che sopravvisse persino al brutale regime di Saddam Hussein.
Donne come Tara Fares, Rasha al-Hassan, Hamoudi Al Mutairi sono state alcune delle ultime ad essere uccise in un’ondata di attacchi misogini e omofobi volti a mettere a tacere voci diverse volte a liberare il loro futuro dalla dicotomia degli estremismi. Tra queste voci di resistenza c’è l’artista Marina Jaber, la cui campagna “Io sono la società” rivendicava il ruolo delle donne nello spazio pubblico. Un’altra è l’Organizzazione per la libertà delle donne in Iraq, che dopo essersi opposta all’invasione degli Stati Uniti ha continuato a mobilitarsi in seguito, organizzando proteste contro la violenza domestica a Baghdad, chiedendo alla Corte penale internazionale di perseguire lo Stato islamico per i suoi crimini contro le donne e individui LGBTIQ e costituendo rifugi per donne che fuggono dalla violenza domestica.
Riflettendo queste dinamiche e altro, il celebre slogan dei processi rivoluzionari del M.O. e Nord Africa “Il popolo vuole la caduta del regime” è riemerso in molte manifestazioni, espresso da molte voci.
L’Alleanza dei socialisti mediorientali e nordafricani esprime la sua solidarietà ai manifestanti in Iraq. Denunciamo la repressione violenta da parte delle forze di sicurezza e delle milizie irachene. Sosteniamo l’opposizione a tutte le forme di settarismo religioso, razzismo e sessismo.
Solidarietà con gli oppressi!
Alleanza dei socialisti mediorientali e nordafricani
17 ottobre 2019