La rivolta è scoppiata nei primi giorni di febbraio, nelle aree del Nord e dell’Est, rovinate dalla siccità, come Daraa, si è estesa al centro petrolifero di Dayr az Zawre, ha coinvolto Hama e Homs, roccaforti dell’opposizione sunnita e il ricco porto di Latakia, e infine i sobborghi di Aleppo e Damasco, che fino a luglio avevano rappresentato la maggioranza silenziosa lealista. Per qualche settimana il presidente Bashar ha giocato la carta delle riforme: ha promesso elezioni con la presenza di più partiti, ma ha ribadito l’illegalità dei partiti con base etnica, religiosa o professionale; in questo modo tagliando fuori i Fratelli Mussulmani e i Curdi, ma anche partiti con eventuali richiami di classe (es. “partito operaio”). In ogni caso alla fine il regime si è affidato alla sola repressione. L’esercito attacca brutalmente quartieri e villaggi, cui viene tagliata la luce e l’acqua, i carri armati bombardano come in zona di guerra lasciandosi dietro macerie e morti, poi intervengono le forze speciali che battono casa per casa. (Economist 1 ag. ’11).
La crisi complessiva di un modello
La crisi siriana è in parte legata al ciclo economico internazionale, ma è fondamentalmente una crisi strutturale, affonda le sue radici nella storia del paese, nel venir meno degli equilibri interni su cui si è basato il quarantennale regime degli Assad (guidato prima da Hafez, artefice del colpo di Stato del 1970 e dal 2000 dal figlio Bashar), ma anche nella crisi e implosione del capitalismo di Stato siriano. Nel rapporto 2007 del Forum di Davos su 13 paesi arabi, la Siria era penultima per competitività davanti alla sola Mauritania. Il World Bank 2011 Doing Business Survey mette la Siria al 168° posto su 183 paesi per disponibilità finanziaria. Nel 2008 il Pil siriano era di 106,4 miliardi di $ (un ventesimo di quello italiano). Per Pil pro capite (4800 $ nel 2008 la Siria si collocava al 114° posto nella classifica della Banca Mondiale su 169 paesi; per l’indice Isu (sviluppo umano) si collocava al 107° posto, prima del Marocco (114°), ma dopo Libia (56° posto), Tunisia (81°), Algeria (84°), Egitto (101°).
In passato gli Assad hanno potuto contare sull’appoggio degli Alawiti (il che significa forze armate, burocrazia di Stato), ma anche dei contadini, degli strati poveri delle città, delle minoranze religiose e di buona parte della borghesia commerciale sunnita (vedi riquadro 5). Oggi è esplosa la rivolta, non a causa dell’estremismo islamico o di una congiura imperialista, come sostiene il governo siriano, ma perché il regime, in una situazione di stagnazione economica, non può più garantire alla popolazione lavoro e condizioni di vita decenti, incompatibili con i costi dell’apparato repressivo (le spese militari assorbono il 33% del bilancio dello Stato) e del parassitismo mafioso dei clan al potere, che induce la stessa borghesia sunnita a rivendicare una rappresentanza negli organi di potere.
L’opposizione è diffusa, lo dimostrano le cifre della repressione. Il bilancio al 1° settembre è di più di 2600 morti, 13 mila arrestati nell’ultimo mese, 63 mila dall’inizio della rivolta, 3 mila scomparsi (dati del Institute for War and Peace Reporting – Iwpr). Anche se fossero dati un po’ gonfiati, è un fenomeno di massa.
Il malcontento sociale si sta accumulando da anni, man mano che è cresciuta l’ineguaglianza sociale. Nel 2005 per reagire alla bassa produttività del sistema economico, viene adottata una svolta liberista che apre ulteriormente ai capitali e agli investimenti stranieri non Usa, ma soprattutto tenta di ridurre la presenza dello Stato in tutti i settori economici. Del processo si avvantaggiano tutti coloro che a vario titolo hanno legami clientelari con gli Assad. Si ripete in piccolo quanto avvenuto in Urss nei primi anni ’90: gli ex manager di Stato, i membri del partito al potere, gli alti papaveri dell’esercito e ovviamente la famiglia Assad comprano a prezzo di saldo industrie, alberghi, centri commerciali ecc. Il cugino di Bashar Rami Makhlouf controlla la telefonia mobile, il settore immobiliare e il settore agroalimentare; il fratello di Bashar, Maher, capo della guardia presidenziale, gestisce le commesse militari. In mano alla famiglia Assad anche la fiorente industria del tabacco e buona parte delle banche. Come in Egitto e in Tunisia il clan dominante assorbe parassitariamente risorse, a scapito dell’efficienza e della produttività dell’apparato industriale. Aumentano le disparità sociali ma anche regionali (il Nord e il Sud sono poveri di infrastrutture, l’Est è soggetto alla siccità, con un tasso di disoccupazione più elevato).
Un’opposizione ad ampio spettro sociale
La nuova politica economica interrompe anche la tradizione di rigido controllo dei prezzi dei beni di prima necessità, porta a drastici tagli ai sussidi erogati dallo Stato per tenere bassi i costi di elettricità, gas, cereali e riso.1 Fino al 2004 metà dei siriani viveva direttamente o indirettamente di salari o provvidenze di provenienza statale (ad es. lavori stagionali o part time) che, assieme ai sussidi, attutivano la povertà delle famiglie. Un siriano su tre vive infatti sotto la linea di povertà (il dato ufficiale dell’11,8% è sottostimato) con meno di 2 $ al giorno. (Wsws 28 luglio ’11). Un’inchiesta della General Social Security Organization informa che nel 2009 il 44,2% dei salariati percepisce circa 127 $ al mese. E’ in aumento il lavoro minorile, che era scomparso anche nelle campagne negli anni ’80. Nel 2009-10 si aggiungono inflazione e disoccupazione (il dato ufficiale dell’8,5% di disoccupazione è clamorosamente falso secondo il Fmi. L’Ilo lo stima intorno al 18%, cui si aggiunge il dato che il 40% almeno dei lavoratori sono in nero). Il deterioramento delle condizioni di vita è stato maggiore per i giovani, che non a caso hanno riempito le piazze. Essi costituiscono i due terzi dei disoccupati (secondo l’Al-Ahram Weekly è disoccupato il 30% dei giovani), sono mediamente istruiti ma senza prospettive. La popolazione cresce ancora al ritmo del 2,5% all’anno (i siriani erano 12 milioni nel 1990 e sono arrivati a 23,7 milioni nel 2010); ogni anno 250 mila giovani si affacciano al mercato del lavoro, che è asfittico e produce al massimo 20-30 mila nuovi posti all’anno. Negli anni ’70 i giovani siriani si recavano a lavorare nei paesi del Golfo, poi la loro preparazione tecnica è risultata sempre più carente e li ha relegati ai lavori per cui non è richiesta specializzazione. Oggi la concorrenza degli operai asiatici li mette fuori mercato (da Occidente n. 1 2007, Mario Ermini “il crocevia siriano”). La disoccupazione è legata anche alla chiusura di molte imprese locali, dopo che un trattato con la Turchia ha determinato il calo dei dazi e la conseguente invasione di manufatti turchi. Ma ha influito pesantemente anche l’impatto della crisi mondiale con un calo dal 3 al 5,5% dell’export (indagine Psia genn. 2010); calato significativamente anche il commercio di transito che era una delle voci economiche di rilievo. Il risultato è stato un deprezzamento della sterlina siriana e il maggior costo degli interessi sul debito. Nei primi mesi di rivolta il governo ha bruciato l’equivalente dello 0,8% del Pil, mandando in rosso il bilancio dello Stato siriano, per ripristinare in parte i sussidi e pagare con regolarità gli stipendi dei dipendenti pubblici. Essendo incapace di imporre il pagamento delle tasse a chi potrebbe (in Siria le tasse pesano per l’11% del Pil contro un 15% in Egitto e un 25% in Marocco), lo Stato è sempre più indebitato e non può contare di collocare i suoi titoli a causa delle sanzioni, ma anche della sfiducia dei mercati internazionali. Contemporaneamente le entrate da petrolio che garantivano nel ’95 il 15% del bilancio dello Stato si sono dimezzate; l’estrazione è crollata da 600 a 380 mila barili.
Il governo per ridurre l’ineguaglianza sociale dovrebbe tagliare i privilegi della casta al potere, ma preferisce la repressione. Fra le rivendicazioni dei giovani, raccolte dalla stampa occidentale, c’è un lavoro e un salario dignitosi, ma anche la fine della legge marziale imposta nel 1963 e ancora in vigore, la riduzione del servizio militare obbligatorio che dura dai 18 ai 24 mesi.
In rivolta i piccoli contadini (l’agricoltura assorbe il 17% della forza lavoro contro il 16% dell’industria e il 67% dei servizi), che in passato sono stati la struttura portante del sostegno al regime. Le piccole dimensioni della proprietà terriera, in particolare al Nord non consentono investimenti e migliorie tecniche. Ma il problema principale è la mancanza d’acqua. A partire dall’80 lo Stato non ha più contribuito ad aumentare l’area dei terreni irrigui (oggi pari al 21% dei terreni coltivati), vuoi per la perdita di una fonte idrica essenziale come le Alture del Golan, vuoi per il drenaggio d’acqua operato negli anni ’80 dalla Turchia coi suoi progetti di dighe sul Tigri e l’Eufrate (come il SouthEastern Anatolia Project), vuoi per fattori meteorologici (5 anni di siccità). La produzione agricola è calata del 25% negli ultimi 6 anni, anche per la difficoltà a garantire lo stoccaggio e per effetto della progressiva salinizzazione del suolo. Molti contadini rovinati sono stati costretti a lasciare la terra e a emigrare nelle città, dove peraltro non hanno un futuro. L’urbanizzazione aggrava la mancanza di acqua nelle città. Dieci anni fa la fornitura d’acqua era garantita a singhiozzo 4 giorni su 7. Oggi la situazione è molto peggiorata, l’acqua è dappertutto razionata. L’assenza dello Stato nella gestione del problema fa sì che la poca acqua disponibile sia usata male e spesso sprecata. I pozzi sono scavati illegalmente e senza criterio. (AT 30 mar. ’11). Daraa, un’area agricola molto povera, in sei anni è stata investita dall’arrivo di un milione di persone che hanno lasciato l’Est del paese rimasto senza acqua. La rivolta è scoppiata per chiedere acqua potabile (Jerusalem Post 1° dic. 2010).
La novità degli ultimi due mesi è l’allargarsi della protesta alla borghesia delle grandi città, come Aleppo e Damasco. Finora questa borghesia (negozianti, manager di hotel, grandi commercianti, imprenditori) era col regime, di cui condividevano le scelte liberiste, che avevano beneficato banche private, commercio e turismo. La rivolta riguardava i villaggi di campagna e i sobborghi poveri delle piccole città. Adesso la sanguinosa repressione e il caos interrompono il turismo, mettono in fuga i capitali (20 miliardi di $ secondo Traball, su Sole 28 luglio). Le attività commerciali e industriali sono crollate del 50%. Inoltre scarseggia l’elettricità, calano le riserve alimentari (Figaro 1° ag. ’11). La comunità degli affari non si scompone per le repressioni, ma non accetta una prolungata instabilità. Per loro l’ideale sarebbe una transizione all’egiziana, con un altro leader alawita ben accetto all’esercito che sostituisca lo screditato Bashar (The Washington Times 26 magg. ’11)
Perché il regime resiste
La protesta è ampia e non si piega nonostante la violenza del regime, un fatto che dimostra l’insostenibilità della situazione per i lavoratori e la popolazione siriana. Tuttavia l’opposizione non riesce ad ottenere nemmeno risultati tattici, in particolare perché è frammentata, non ha una piattaforma condivisa, non ha gruppi dirigenti riconosciuti universalmente, dopo 40 anni di repressione. Il Sole del 28 luglio così sintetizza la situazione “Dopo quasi cinque mesi di lotta non è emerso un partito, un leader né un fronte davvero alternativi. Gli oppositori non hanno la forza per scalzare il regime”. Osserva con il suo disincantato pragmatismo G. Friedman (su Stratfor 30 agosto) che, per contro, se un regime dura quarant’anni (ed è il caso di Gheddafi o degli Assad in Siria) questo non può avvenire solo sulla base della pura e semplice violenza. Occorre che ci sia il consenso e il supporto almeno di una parte consistente della società, di strati che ne traggono vantaggi che non sono disposti a perdere senza combattere. La minoranza alawita non cederà il potere senza combattere. La lealtà del Partito Baath, che ha 2 milioni di iscritti, non è scalfita (solo 200 dissidenti, concentrati nella città di Daraa, hanno stracciato la tessera. Soprattutto non ci sono defezioni significative nelle forze armate. Secondo fonti anonime, in molte località le forze speciali fedeli agli Assad si sono scontrate con reparti di polizia locale che rifiutavano di sparare sui dimostranti; inoltre in alcuni casi i soldati sunniti hanno rifiutato di obbedire agli ordini degli ufficiali alawiti. Gli episodi di defezioni della truppa sono confermati da Al Arabiya (31 lugl. ’11), ma sono comunque minoritari, riguardano i bassi ranghi e si concentrano in una sola area, il Sud-ovest. L’esercito siriano coincide largamente, infatti, con la frazione al potere; il 70% dei 200 mila militari di carriera è alawita e anche l’80% degli ufficiali, nonché il 100% della Guardia Repubblicana, il corpo di élite guidato dal fratello di Bashar Maher. Al contrario la maggior parte dei coscritti sono sunniti e sono di leva per 2-3 anni, in genere giovani contadini che scelgono la carriera militare per sfuggire alla fame delle campagne. Sunniti sono anche i piloti dell’aviazione, ma tutta la logistica a terra, le telecomunicazioni e la manutenzione sono in mano agli alawiti, rendendo improbabile una ribellione dell’aviazione. Assad non piace a tutti i generali o a tutti gli alawiti, ma essi temono le rappresaglie se il potere fosse rovesciato dalla “piazza sunnita”, non c’è una opposizione organizzata che possa garantire l’immunità ai perdenti, per cui Foreign Policy (6 lugl. ’11) sostiene che non c’è una plausibile possibilità di una transizione negoziata in Siria. Timori di rappresaglie circolano anche fra le minoranze religiose. Ma al di là di questo, come in Libia, chi si è identificato col regime non è disposto a cedere i vantaggi di cui gode.
Usa, Turchia, Arabia Saudita, Qatar, Francia e Svezia ospitano e foraggiano gruppi siriani di opposizione, formati da intellettuali, imprenditori, esuli spesso senza alcun legame con la protesta delle piazze, ma utili nell’ipotesi di un eventuale intervento militare. Sono stati organizzati meeting e conferenze per la stampa occidentale.
L’incognita di un possibile intervento in Siria
Ammesso e non concesso che Gheddafi venga neutralizzato, si potrebbe aprire la partita siriana. Molti analisti si chiedono se i vecchi imperialismi, stravolti dalle crisi di borsa, se lo possano permettere economicamente. Cinicamente il FT osserva che in ogni caso la Libia pagherà col suo petrolio le spese sostenute per “liberarla”. La Siria non avrebbe le risorse per ripagare analoghi “benefattori”. Al di là di questo conto da bottegai, l’intervento in Siria sembra geopoliticamente più gravido di conseguenze. Il paese potrebbe deflagrare in conflitti etnico-religiosi con inevitabili coinvolgimento di Irak, Libano, Giordania e Israele.
Soltanto Qatar e Arabia Saudita da un lato, governo inglese dall’altro sembrano ansiosi di passare dalla deplorazione contro la violenza del regime siriano a un eventuale intervento. Vincent Cannistraro, ex direttore dell’antiterrorismo della Cia, afferma “Intervenire significherebbe sconvolgere i delicati equilibri del Medio Oriente e del Golfo Persico”. Non che questo sia stato un deterrente per Bush all’epoca dell’intervento in Irak. Arabia Saudita e Qatar vedono la caduta di Bashar al Assad come un colpo inferto all’Iran e in generale all’influenza sciita in Medio Oriente, il corollario necessario agli interventi repressivi in Yemen e Bahrein. Ma buona parte dell’Amministrazione Obama preferisce limitarsi alle sanzioni, per lo meno fino a che non ci sarà stato un consistente ritiro da Irak e Afghanistan. In passato al di là degli attacchi verbali, la Siria è stata considerata anche dagli Usa un elemento stabilizzatore nell’area, un contrappeso all’Iran. E comunque ha goduto dell’appoggio diplomatico e politico di Iran, Turchia, Russia.2 E’ d’altro canto evidente che come in Libia, senza interventi esterni, Assad non è abbastanza forte da reprimere efficacemente l’opposizione, ma l’opposizione, in assenza di consistenti defezioni da parte dell’esercito e in assenza di una piattaforma rivendicativa unitaria, non sembra in grado di rovesciare il regime. Sull’opposizione attiva nel paese trapelano scarse informazioni. Non ci è dato sapere se esistano movimenti a base proletaria; è inevitabile che nella lotta gruppi di lavoratori abbiano maturato posizioni autonome dalla propria borghesia e indipendenti dalle potenze locali e occidentali. La rivolta siriana non può che far emergere la lotta di classe.
[da ‘PagineMarxiste’ n°28 ottobre ’11]