In Ucraina la battaglia infuria ancora. Nelle settimane scorse si è combattuto per il controllo dell’aeroporto di Donetsk, chiuso da maggio 2014, ma considerato strategico per l’evoluzione del conflitto e anche elemento di peso nelle trattative che avrebbero dovuto riprendere il 16 gennaio ad Astana in Kazakhistan. Il vertice previsto ad Astana non c’è stato a causa del fallimentare del vertice preparatorio tenuto a Berlino (12 gennaio) fra Russia, Ucraina, Germania e Francia.
Mai come in questi giorni diplomazia e attività militare si mescolano; ognuno dei due fronti cerca di acquisire terreno per poter condurre i negoziati da posizioni di forza; in particolare i separatisti mirano ad allargare l’area che controllano. Le difficoltà dell’Ucraina a riprendere terreno rendono il governo di Kiev sempre più dipendente dai prestiti di USA e UE e quindi sempre più condizionabile.
Difficile ignorare la presenza di militari russi (non bassa truppa, ma elementi scelti) a sostenere e organizzare i separatisti; la Russia evita di parlare di future annessioni, ma combatte contro l’Ucraina una guerra di logoramento per procura. Altrettanto evidenti gli aiuti militari Usa al governo di Kiev (ultimamente a Donetsk sono comparsi i droni), una situazione che fa dire ai russi che ormai l’esercito ucraino è un reparto mercenario della Nato. Il presidente Poroshenko ha ordinato una mobilitazione parziale, cioè la leva obbligatoria per il fronte, pena il carcere, che riguarderà nel 2015 almeno 200 mila uomini, suscitando un evidente malumore in Ucraina occidentale (sono 1200 i soldati di Kiev morti nel Donbass dall’inizio del conflitto).
L’economia di Kiev è collassata il deficit di bilancio raggiunge i 15 miliardi di $ ed i nuovi prestiti Usa e UE (2 miliardi e 1,8 rispettivamente) non bastano a salvare la situazione (Financial Times 13 gennaio 2015).
Negli ultimi giorni i separatisti hanno riacquistato il totale controllo dell’aeroporto di Donetsk e affermano di controllare la periferia di Mariupol, in attesa di conquistarla definitivamente (dichiarazioni di Aleksandr Zakharcenko, presidente dell’autoproclamata repubblica popolare di Donetsk). Mariupol è anch’essa un nodo strategico, non solo per il peso industriale, quanto perché garantirebbe una comunicazione diretta della Crimea con la Russia. Alla sospensione dei colloqui è seguita, quindi, la strage al mercato di Mariupol (30 morti, 105 feriti), di cui nessuno si è preso la responsabilità; i due fronti si sono reciprocamente accusati della strage. Altri morti nei giorni successivi sono stati provocati dal lancio di razzi Grad da parte dei separatisti.
Poroshenko ha chiesto che le repubbliche autonome di Donetsk e Lugansk siano considerate “organizzazioni terroristiche”; ha poi ottenuto, sull’onda dell’offensiva dei separatisti, ulteriori 15 milioni di € dall’Europa di “aiuti umanitari” a Mariupol (portando a 95 milioni gli stanziamenti UE).
Vivere sotto le bombe
Nel frattempo i costi umani del conflitto continuano a crescere.
A est sono rimasti quelli più convinti, oppure chi non poteva spostarsi perché non aveva dove andare, lavorano e tirano a campare ogni giorno sotto i bombardamenti. Donetsk ad esempio è divisa in due, come il paese, a est i separatisti, a ovest le forze governative. Le banche da mesi hanno smesso di funzionare e pagare le pensioni. Molti edifici sono in macerie. Non tutte le case rimaste in piedi hanno l’acqua. La corrente elettrica c’è in media due volte al giorno. Si cucina all’esterno delle case grazie a fuochi di carbone improvvisati. Le scuole sono chiuse e si organizzano corsi per gruppi di bambini presso abitazioni private. L’esercito di Kiev bombarda spesso anche le miniere da cui i civili estraggono in modo disorganizzato carbone da vendere per sopravvivere. (Osservatorio Balcani 12 dicembre 2014). E può accadere che 500 minatori restino bloccati sottoterra perché le bombe hanno messo fuori uso gli impianti di risalita (Radio Vaticana 26 gennaio 2015). Non che in tempo di pace la loro situazione fosse gran che migliore: l’Ucraina ha il più alto numero di morti sul lavoro in miniera, in percentuale sulle tonnellate di carbone estratto tre volte quella della Cina, 1° volte quella in Russia e 100 volte quella statunitense, il tutto per l’equivalente di 280 € al mese! (International Socialism 10 ottobre 2014).
Eppure chi vive a Donetsk è “fortunato” rispetto a Lugansk o Gorlovka dove è in atto una “catastrofe umanitaria” totalmente ignorata in occidente. Ad oggi l’Onu stima in 1,2 milioni il numero di profughi (Al Jazeera); Voce della Russia parla di almeno 600 mila ucraini ospitati oltre il confine russo e quasi 80 mila emigrati in Crimea. Si tratta ovviamente di russofoni.
Non esistono statistiche su chi è emigrato in Europa, mentre una stima delle associazioni umanitarie parlano di 120-150 mila rifugiati a Kiev e altre città ucraine occidentali.
Coloro che sono fuggiti a Kiev o Dnepropetrovski lamentano che, in assenza di parenti, lo Stato non offre assistenza ai profughi, solo qualche associazione di volontariato è attiva. Alcuni sono addirittura tornati a est, quando hanno finito i soldi.
Nell’Ucraina dell’est, d’altro canto, manca un potere centralizzato, ogni area tende a costituirsi in clan autonomo, con propri comandanti militari. Solo l’area di Donetsk conserva una parvenza di ordine e controllo centrale.
Il fenomeno dei volontari di destra
Nell’attuale fase di scontro un elemento, militarmente marginale ma politicamente “sensibile” attira l’attenzione dei commentatori: la presenza di volontari di estrema destra di tutti i paesi (anche italiani) in entrambe le file dei combattenti. A fianco del regime di Kiev i volontari militano sotto le bandiere di Svoboda, il più antirusso, statalista e nazionalista, filo-americano e antieuropeo.
Pravy Sektor partecipa con il battaglione Azov alla battaglia del Donbass, è antiamericano e antieuropeo, perciò a differenza di altri gruppi non è riconosciuto dal Ministero della Difesa. Queste organizzazioni si finanziano offrendo servizi di guardia del corpo a personalità politiche, vessando gli immigrati o imponendo il pizzo ai commercianti. In Italia a tifare Svoboda è rimasta Casa Pound, mentre Forza Nuova ha preso le distanze e flirta con Putin (è stato ospite a Yalta del Cremino a un convegno organizzato da Mosca per sostenere il proprio diritto a conservare la Crimea).
Fra i separatisti è forte il gruppo «Russia National Unity», dichiaratamente neonazista, antisemita, già attiva in Cecenia e in Trasnistria, dove hanno raccolto armi e soldi. Un altro gruppo è rappresentato da una sezione della “Euroasian union” di Alexander Dugin. Entrambi i gruppi sono anti-Putin, sognano il ritorno alla Grande Russia pre Eltsin. Alcuni di questi “guerriglieri”, a est come a ovest, sono dei mercenari consapevoli, altri cercano in Ucraina la “vita vera”, altri ancora sperano nell’opportunità di acquisire meriti da spendere poi nell’agone politico, dal momento che a ovest la destra ha subito nel 2014 una batosta elettorale e in Russia ha perso terreno (Manifesto 6 gennaio 2015). Questo fenomeno ci fa capire come, nell’epoca del multipolarismo, il caos non domini solo molte aree del mondo, ma anche le ideologie.
Un conflitto congelato
Le ipocrite dichiarazioni delle grandi potenze sulla loro disponibilità a sedersi a un tavolo per trattare la pace corrisponde la realtà di un “conflitto congelato”, in cui le ambizioni dei leaders locali si mescolano alle interferenze dei blocchi imperialisti, ben attenti questi ultimi a non farsi trascinare in un conflitto diretto, troppo costoso rispetto alla posta in gioco. Meglio usare come pedine i lavoratori dell’una e dell’altra parte intruppandoli sotto bandiere contrapposte, creando un solco che sarà difficile a breve colmare. Ancora agli inizi del 2014 solo il 27% dei russofoni voleva la separazione delle regioni dell’est; ma in precedenza la contrapposizione linguistica è stata esasperata, mentre il 40% degli abitanti sono perfettamente bilingui e comunque l’84% ha frequentato fino al 1988 scuole in russo; solo fra i giovani sotto i trent’anni sta crescendo il numero di quelli che parlano una sola lingua (International Socialism 10 ottobre 2014). Dopo il conflitto è aumentato lo sciovinismo da una parte e dall’altra e i lavoratori tendono a schierarsi con l’imperialismo che foraggia le loro autorità; nessuna organizzazione di sinistra internazionalista è stata in grado in Ucraina, a est come ad ovest di opporsi a questa tendenza all’interno dei lavoratori. E’ questa l’eredità più pesante dal nostro punto di vista.