ITALIA, IRAQ
REPUBBLICA Lun. 1/5/2006 MARIO PIRANI
L’apertura di un’inchiesta penale sull’attentato di
Nassiriya è paradossale: non si vuole capire che è in corso una guerra e le
azioni non si possono giudicare col metro delle inchieste penali normali.
N.d.R.: alle
stesse conclusioni arrivava un editoriale del CORRIERE di ieri.
Le due inchieste – l´una della procura di Roma, l´altra della
procura militare (che, peraltro, è ormai di competenza anch´essa di magistrati
normali) – sull´ultimo agguato a Nassiriya, pone una volta ancora
l´interrogativo se simili iniziative oltrepassino i limiti del paradosso o,
quanto meno, evidenzino una grave contraddizione.
Qualcuno potrebbe dire che, stando alla decisione di lasciare l´Iraq, il
problema si risolverà da solo ma così non è. Sia perché è probabile che in Iraq
resteremo, seppure in forme nuove, sia perché le nostre forze armate nel
quadro dell´Onu e della Nato già operano in 21 zone calde del mondo per un
totale di 10.500 uomini, dall´Afghanistan al Sinai. Mi soffermerò, quindi,
nei limiti della rubrica, sulle due inchieste, partendo dalla prima. Aprendola la
procura di Roma agisce, sulla base della obbligatorietà dell´azione penale, con
l´intento di scoprire i colpevoli materiali e gli eventuali mandanti
dell´azione criminosa con le stesse regole e procedure di qualsivoglia delitto,
analoghe, ad esempio, a quelle che portarono alla scoperta degli assassini del
piccolo Tommaso a Casalbaroncolo.
Per andare a buon fine essa dovrebbe rispettare il principio costituzionale
della responsabilità personale dei colpevoli, suffragata inoltre da prove
certe da portare in giudizio al vaglio del giudice. È sufficiente ciò per
immaginare che l´azione della procura sia destinata a restare in un ambito
puramente virtuale? Mi par di capire, peraltro, che se la magistratura in
questo e in altri casi vi si inoltra, essa è mossa da una fondata
preoccupazione di principio: impedire che nella lotta al terrorismo prevalga
la prassi di un comportamento dei contendenti avulso da qualsivoglia norma di diritto
per cui, se, come è stato ipocritamente stabilito, la nostra presenza in Iraq
si svolge sotto l´usbergo della "missione di pace", l´osservanza
della legge spetta alla procura di riferimento. Peccato che i terroristi e/o
resistenti, guerriglieri, feddayn o, comunque, vogliamo definirli neppure
percepiscano queste distinzioni e ci vedano esattamente come gli americani e
tutte le altre forze presenti nel teatro di guerra. Quindi, se giustamente non
vogliamo essere risucchiati in forme non tollerabili di
"eccezionalità", tipo Guantanamo e Abu Ghraib, dovremmo accompagnare
le nostre operazioni da una giurisdizione ad hoc, aggiornata ad un tipo di
guerra – che di questo si tratta – alla quale siamo impreparati anche da questo
punto di vista. Basti pensare alla mancata riforma dei Servizi costretti
sovente a sollecitare il segreto di Stato per coprire attività illegali
compiute, però, per finalità istituzionali.
La questione, peraltro, si pone in Iraq come in Italia. La guerra
terroristica di matrice islamica è un conflitto asimmetrico di tipo totalmente
diverso dal passato: non conosce confini, fronti di combattimento, differenza
tra civili e soldati, leggi internazionali. Per questo spiazza i giudici quando
si trovano a decidere. Esemplare, quanto irrisolto nei suoi quesiti, resta
il caso Forleo, la cui sentenza di assoluzione nei confronti di un gruppo
islamico, confermata in appello, sosteneva sia la non ammissibilità di prove
fornite dai Servizi italiani ed esteri, in quanto anonime, sia la non punibilità
del reclutamento a Milano di adepti da inviare in Iraq in quanto non si sapeva
se per attentati contro civili o per entrare nella resistenza, considerata
legittima. Dilemma per fortuna superato con le elezioni e la formazione a
Bagdad di un governo riconosciuto, mi assicura Giovanni Salvi, uno dei più
autorevoli membri del Csm, che nella sua carriera di magistrato ha dedicato un
grande impegno pratico e anche teorico nei confronti del terrorismo. «Nelle
operazioni di polizia internazionale, su richiesta di un governo legittimo,
qualsiasi attacco contro le forze di "peacekeeping" – afferma – è
considerato atto terroristico. Oggi chi organizzasse il reclutamento per l´Iraq
ricadrebbe nella fattispecie». È qualcosa ma certamente non basta, se
proprio l´altro giorno è apparsa la notizia che un marocchino, scoperto a
Torino con i piani per effettuare un grave attentato durante le Olimpiadi, è
stato semplicemente espulso e non arrestato, libero di effettuare le sue
imprese, magari altrove.
Due parole sull´inchiesta della procura militare che indaga per capire se
l´attentato fosse prevedibile e se erano valide le misure per proteggere i
nostri soldati. Che fare? Inviare altre scorte che scortino i carabinieri? O
rinserrare i soldati nel campo trincerato senza mai farli uscire? In effetti
non si vuol capire che in Iraq c´è una guerra. E non solo lì.