Sangue sulla Birmania

Infuria la repressione in Birmania. A centinaia di migliaia sono scesi in piazza, operai e studenti in prima fila, contro il regime dell’esercito-padrone che ha deposto Aung San Suu Kyi, rieletta con oltre l’80% dei voti. Nella maggioranza vi è ancora l’illusione della democrazia parlamentare, che ha coltivato il compromesso coi militari, che si era fatta garante del regime di sfruttamento capitalista da parte delle multinazionali (anche italiane) come dei militari, che ha coperto il genocidio e l’espulsione di 700 mila Rohingya, molti dei quali ora deportati dal Bangladesh su un’isola-prigione. Ma è nella lotta di opposizione ai militari, con tutte le etnie unite, che può essere superato il nazionalismo etnico e si può sviluppare un movimento di classe anticapitalista e internazionalista. Dipende anche dalla concreta solidarietà internazionalista che giungerà loro dal movimento operaio internazionale.

L’escalation

La violenza della giunta militare il 15 marzo ha subito un’escalation senza precedenti: 130 morti in un solo giorno.

I militari reagiscono così agli scioperi iniziati l’8 marzo. Era successo anche nel 1988 quando alla rivolta studentesca pro democrazia si erano aggregati operai, portuali, lavoratori urbani che rivendicavano aumenti salariali e condizioni di vita più decenti. I militari risposero con una repressione feroce, i morti furono migliaia.

Lavoratori delle grandi città in sciopero

In febbraio le manifestazioni si sono susseguite senza sosta coinvolgendo soprattutto ragazzi molto giovani e donne. L’Unicef denuncia che fra gli arrestati ci sono 500 bambini, fermati con le loro madri. Suore cattoliche e monaci buddisti scendono in strada a sostegno dei manifestanti.

La giunta reagisce scatenando i propri alleati naturali, cioè la criminalità organizzata; il 12 febbraio rilascia 23 mila detenuti comuni, perché creassero disordini.

I militari compiono ogni notte raid nelle case dei democratici noti per arrestarli. Osservatori stranieri sottolineano che nelle manifestazioni del 1988 la resistenza era soprattutto concentrata nelle università; nel 2007 nei monasteri buddisti. Oggi la resistenza alla giunta è più globale e abbraccia tutti i settori della società. Il 22 febbraio viene proclamato il primo sciopero generale. Manifestazioni oceaniche si svolgono a Yangon, principale città del Paese, nella capitale Naypyidaw e a Mandalay, oltre che nel nord, a Myitkyna, a Bhamo vicino al confine con la regione cinese dello Yunnan e nella centrale città di Pyinmana. Le operaie del tessile scioperano per alcuni giorni, organizzate dalla Federazione dei lavoratori dell’abbigliamento.

L’8 marzo tutto il settore pubblico e nove sindacati del commercio, delle banche e dell’industria dell’edilizia, dichiarano lo sciopero generale per tre giorni. Scioperano medici, insegnanti, studenti, ferrovieri portuali. Lo stesso gen. Min Aung Hlaing ha dovuto riconoscere che i due terzi dei lavoratori pubblici sono in sciopero, e sono chiusi tutti i 24 ministeri per mancanza di impiegati.

L’esercito birmano ha occupato gli ospedali e le università del Paese in vista dello sciopero generale indetto dai sindacati. Secondo il Foglio la stima complessiva di 200 morti al 15 marzo è inferiore alla realtà perché molti morti vengono fatti sparire. Un’altra accusa è che i poliziotti vengono mandati a sparare ai civili disarmati fatti di anfetamine. Ci sono anche notizie di diserzioni degli agenti semplici che fuggono in India. Il governo birmano ne ha chiesto l’estradizione.

I giornali governativi mostrano la foto di impiegati di banca costretti a riprendere il lavoro sotto la minaccia di un fucile. Le sedi dei ferrovieri in sciopero a Yangon sono state circondate dai poliziotti.

Ci vorrebbe una solidarietà internazionale dei lavoratori, che per ora non c’è. Il Covid allenta l’attenzione e assopisce le coscienze. C’è una foto, pubblicata dal Post, delle operaie tessili che chiedono il sostegno di H&M e Zara, per la loro lotta per la democrazia. Una classe operaia giovane, isolata, che è ancora piena di illusioni. Certo Benetton e OVS dopo aver approfittato per anni del banchetto birmano (bassi salari e repressione garantita dall’esercito-padrone), hanno preso le distanze dalla mattanza, ma non più di questo.

Tutte le borghesie occidentali, tramite la loro stampa e la loro diplomazia “deplorano”, ma stanno a guardare. Sono tutte complici. Ma la solidarietà dei lavoratori stenta a partire. Per ora si è mossa la

diaspora birmana in Thailandia, in Giappone, in Australia e Canada.

Il colpo di stato

Quello del 1° febbraio è il quarto colpo di stato in 60 anni (riquadro 1), un evento del tutto probabile se si considera la storia della Birmania/Burma/Myanmar. Chi conosce il paese non si stupisce, se mai si è chiesto perché nel 2011 c’è stato parziale disgelo e liberalizzazione, formazione di un governo ibrido con civili e militari, che hanno illuso soprattutto i giovani (il 43% dei 57 milioni di birmani ha meno di 24 anni) che finalmente si stesse voltando pagina.

La Birmania crocevia di criminalità

La Birmania dei militari è stata per 50 anni un crocevia di criminalità, un carcere a cielo aperto e l’esercito (il Tatmadaw), forte di 500 mila uomini, intasca la maggior parte dei proventi. L’esercito controlla le materie prime e il loro commercio: teak e altri legni pregiati, pietre preziose fra cui giada, rubini, zaffiri. Controlla la concessione di concessioni per estrarre petrolio e gas, gestisce imprese industriali, turistiche, commerciali. L’attuale uomo forte dopo il colpo di stato, Min Aung Hlaing, accusato in prima persona del genocidio dei Rohingya, controlla con altri generali MEC (Myanmar Economic Corporation) e MEHL (Myanmar Economic Holding Ltd), le due società monopolistiche che costituiscono un vero impero industriale e affaristico dei militari, che va dalla manifattura all’agricoltura, dall’edilizia all’immobiliare, dalla finanza alle assicurazioni, dalle miniere alle telecomunicazioni. Ma il vero cuore degli affari, la madre di tutti i profitti è la coltivazione e lo smercio delle droghe, un business da 40 miliardi di $ l’anno, che comprende produzione e raffinazione di eroina, di metamfetamine, bustine di “ice”, fentanil ecc. Anche alcune delle milizie etniche entrano nell’affare (cfr. report di Federico Varese, criminologo, Università di Oxford).

Come ogni regime fascisteggiante che si rispetti l’esercito ha il suo specifico razzismo, utile a dividere il fronte degli oppressi: la presunta superiorità della etnia maggioritaria (68%) dei Bamar rispetto alle altre minoranze etniche e religiose (riquadro 2).

Per anni HRW e altre associazioni umanitarie hanno denunciato le brutture del regime birmano: i 70 mila bambini soldati, schiavizzati e mandati a morire sulle mine, la prostituzione, di bambini e bambine, oltre che di giovani donne, avviati dall’esercito ai bordelli di mezza Asia e scelti preferibilmente all’interno delle etnie “inferiori”. Lo stupro utilizzato indiscriminatamente dai militari come arma in caso di rivolte. Il traffico di esseri umani per utilizzare i loro organi. Il lavoro forzato sistematico, sia per i carcerati che per la popolazione civile, utilizzato per le infrastrutture (ferrovie, come quella fra Ye e Tavov, strade, porti, aeroporti, come Bassein, ecc.), anche per costruire villaggi turistici o palazzi governativi. Il lavoro forzato può sembrare un’usanza medievale inutile, ma non lo è in un paese dove il 70% della popolazione vive in campagna, dove i redditi, per quanto sorprendente, sono migliori dei salari da fame delle città. Per convincere i contadini a lavorare per il governo si deve usare la forza. Intere popolazioni vengono deportate, ovviamente senza compensazione, quando il loro territorio è coinvolto nei progetti del governo.

Le aperture del 2011

Dal 1988 Aung San Suu Kyi e la sua Lega sono all’opposizione; lei agli arresti domiciliari. Ma nel 2011 la giunta militare procede a una serie di aperture. Il boss Than Shwe si ritira dalla politica, nel 2013 sarà sostituito da Thein Sein che ottiene il supporto di Obama, nonostante le proteste degli attivisti per i diritti civili. Hillary Clinton visita il paese nel dicembre 2011. I generali liberano 200 prigionieri politici, ridanno la libertà a San Suu Kyi (e al suo partito è concesso di partecipare alle elezioni del 2012), consentono la formazione di sindacati e concedono il diritto di sciopero. La censura sulla stampa è attenuata.

A posteriori è possibile ricostruire le ragioni di questa mossa: per evitare la stagnazione il regime deve attirare più investimenti, ridurre la quota di economia nazionalizzata e liberalizzare in senso occidentale. La svolta garantisce anche il seggio nell’Asean, messo in discussione da alcuni paesi; permette l’accesso a tecnologie, informatiche e no, indispensabili per aumentare il controllo poliziesco sul paese. Nel 2014 è possibile aprire a Yangon una Borsa azionaria. Infine inizia un vero e proprio boom turistico (funzionale anche al riciclaggio del denaro sporco).

Aumenta la vendita di oppio ed eroina all’Occidente (che negli anni precedenti aveva preferito l’acquisto in Afghanistan) che sono diretti non solo all’uso personale, ma al consumo dell’industria farmaceutica statunitense ed europea, che produce enormi quantità di “droghe legali” (sedativi, ansiolitici ecc.).

Una quota dei militari vuole anche sfuggire al troppo pesante condizionamento asiatico, in particolare cinese.

Le sanzioni imposte dopo i massacri del 1988 da Usa e paesi europei hanno inciso poco sull’economia della Birmania perché agli investitori e agli acquirenti occidentali sono subentrati quelli di Giappone, Singapore, Thailandia, Filippine, Sud Corea, Cina e India. Le corporations asiatiche (di Cina, Singapore, India e Thailandia) hanno continuato ad investire nel paese, sia nel settore petrolifero che nelle infrastrutture. Molto vivaci anche gli scambi commerciali. Myanmar in particolare è strategica per la Cina. Sul tavolo il progetto di costruire ferrovie, strade gasdotti che attraverso Myanmar consentano alla Cina di ridurre la dipendenza dallo Stretto di Malacca, sia per l’energia che per il commercio in generale. La Cina però per qualche generale è comunque un alleato ingombrante.

Dopo il 2011 il capitale occidentale rientra in forze in Myanmar. Del resto, nonostante il boicottaggio ufficiale, prima del 2011, l’americana Unocal e la francese Total (con l’assistenza dell’italiana Saipem), la thailandese Petroleum Authority hanno iniziato a sfruttare i giacimenti di gas costruendo un gasdotto che raggiungesse la Tailandia. Un gasdotto costruito con lavoro forzato, ma evidentemente i manager occidentali si sono girati dall’altra parte. E anche dopo il 2011 le favolose opportunità di profitto entusiasmano i top manager, convinti che a rinunciare “si fa il gioco della Cina”, ma a pronti a passar sopra ad ogni mancanza di democrazia.

La “liberalizzazione”, d’altronde, non indebolisce la presa dei militari sul potere. La Costituzione del Myanmar, approvata nel 2008 e tuttora in vigore, lascia d’ufficio all’esercito tre ministeri (Difesa, Interni e Confini) e la nomina del 25% dei deputati in Parlamento. La Costituzione stabilisce inoltre per il presidente il potere di indire lo Stato d’emergenza dopo aver consultato il Consiglio di sicurezza e difesa nazionale (NDSC), controllato dai vertici militari.

Vittorie elettorali ma ben pochi miglioramenti sociali

L’NLD di San Suu Kyi inanella vittorie elettorali; vince 43 dei 45 seggi in palio nell’aprile 2012; alle elezioni del novembre 2015 conquista la maggioranza assoluta dei seggi. Viene eletto il primo presidente non militare Htin Kyaw, che dal 1975 aveva ricoperto diversi incarichi nei governi precedenti; San Suu Kyi ricopre il ruolo di “consigliere di stato”. Nel 2016 la NLD forma un esecutivo in coabitazione con l’esercito e nel novembre 2020 la NLD ottiene l’83% dei voti alle nuove elezioni. Troppo per i gusti dell’esercito, che forse comincia a rendersi conto che le attese di cambiamento della popolazione non possono più essere soddisfatta da maquillage governativi.

La condizione di vita dei birmani però non migliora gran che. Il salario medio mensile di un operaio era di 184$ al mese nel 2000 ed è di 175$ nel 2018. Il 20% dei bambini sotto i 5 anni è sottopeso. Nel paese c’è lo 0,68% di medici ogni 1000 ab. Il 70% della popolazione lavora ancora in agricoltura. Il PIL pro capite a parità si potere d’acquisto è di 278 $ (2019 World Factbook CIA). L’aids e il consumo di droga dilagano. Il clero buddista punta il dito su questa “corruzione” della gioventù che la giunta militare non combatte. Un milione e mezzo di rifugiati birmani vivono nei campi profughi thailandesi.

Per quanto inoffensiva considerino San Suu Kyi, che nel 2019 ha difeso la giunta dalle accuse di genocidio perdendo così la sua reputazione “democratica” in Occidente, che non ha mai chiesto di togliere il bavaglio alla stampa o protestato per torture e arresti dei giornalisti, i militari hanno evidentemente deciso di giocare d’anticipo. Il nuovo capo del governo Min Aung Hlaing è noto per la sua diffidenza nei confronti della Cina (che ritiene ispiratrice di certe rivolte etniche), perciò ha cercato di creare un equilibrio aprendo agli armamenti russi. D’altronde la Cina è il guardiano che blocca all’Onu qualsiasi risoluzione contro Myanmar per violazione dei diritti umani. Ecco allora il nuovo Ministro degli esteri Wunna Maung Lwin, distintosi nella repressione dei ribelli Karen, nel 1995, già agli Esteri fra 2011 e 2016 sotto il presidente Thein Sein. Ha visitato varie volte la Cina, con cui ha legami molto stretti, mentre è decisamente anti-occidentale, tanto da cercare di convincere Thein Sein a non incontrare Obama nel 2013. Date queste premesse Myanmar può diventare il primo terreno di scontro per interposto paese fra la Cina, considerata il burattinaio della nuova giunta (ne stanno facendo le spese le imprese cinesi in Myanmar) e gli Usa di Biden per ora propenso a condannare il golpe.

In un paese in cui solo il 30% della popolazione vive nelle città, la rivolta dei birmani è in un certo senso confinata nelle città. È la rivolta di una popolazione civile, operai e studenti, poco organizzata e a mani nude contro un esercito armato fino ai denti che difende i suoi profitti e le sue soperchierie.

Una lotta impari. Che necessita di tutto l’appoggio e la solidarietà internazionale e internazionalista.
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RIQUADRO 1 – 60 anni di colpi di stato

Nella Birmania ex colonia britannica, indipendente dal 1948, il primo colpo di stato (2 marzo 1962) porta al potere il generale Ne Win, che opera ampie nazionalizzazioni in stile capitalismo di stato sovietico, nel tentativo di estrarre forzosamente capitale da agricoltura e miniere, per alimentare l’industria pesante, che peraltro non decolla. Il paese diventa una delle più povere nazioni del mondo. Al ristagno economico corrisponde una repressione violenta degli scioperi dei lavoratori e delle rivolte delle minoranze etniche. Per 12 anni la popolazione subisce annichilita. Poi dal 1974 al ’77 ogni anno scoppiano rivolte studentesche, tutte schiacciate nel sangue.

La rivolta del 1988, che coinvolge studenti e lavoratori, termina con il colpo di stato del gen. Saw Maung, che impone la legge marziale. I militari cambiano modello, guardano alla Cina, liberalizzano parzialmente l’agricoltura, ai contadini viene concesso di vendere i loro prodotti, salvo riso, cotone e zucchero che restano sotto il rigido controllo dello stato. L’export birmano si modifica: legumi, frutta e verdura sostituiscono il riso, meno redditizio. Anche il commercio viene parzialmente privatizzato e il paese viene aperto agli investimenti stranieri. Sentendosi sicuro, Saw Maung concede nel 1990 nuove elezioni, cui partecipa anche la neo fondata Lega nazionale per la democrazia (NLD) di Aung San Suu Kyi, che vince 392 seggi su 492. È una sorpresa per la giunta militare che procede immediatamente all’arresto dei nuovi eletti e di tutti gli attivisti politici e sindacali. Molti scompariranno per sempre. La cosiddetta “comunità internazionale” reagisce blandamente; come sempre le proteste dell’Onu restano lettera morta. Le sanzioni decise da Usa ed Europa lasciano dei vuoti velocemente riempiti da paesi asiatici.

Nel 1992 emerge la leadership di generale Than Shwe (classe 1933) che resta al potere fino al 2011. Riesce a far entrare Burma nell’ASEAN (giugno 1997) con “aperture” di facciata come permettere alla Croce Rossa e a Amnesty International di visitare il Paese. Il suo fedelissimo Thein Sein fonda lo Union Solidarity and Development Party (Usdp). Than Shwe cambiò il nome dello Stato da Birmania a Myanmar e nel 2005 la capitale fu spostata da Yangon (=Rangoon), metropoli riottosa, a Naypyidaw (“città dei re”), nel nord del paese.

Nel 2007 il regime birmano ha dovuto togliere gli aiuti di Stato che consentivano di vendere a prezzi sussidiati la benzina, il riso, l’olio, i biglietti degli autobus. L’occasione per nuove proteste è cavalcata dai monaci buddisti con modalità non violente (la Rivoluzione Zafferano), ma la protesta viene schiacciata con la violenza (26 settembre 2007).

Nel maggio 2008 il ciclone Nargis devasta il delta, un’area densamente popolata, provocando 200 mila morti e un milione di sfollati, ma il governo rifiuta l’arrivo di aiuti internazionali.

 Viene redatta una nuova Costituzione, che entra in vigore nel 2008.

Nell’agosto 2009 scoppia la rivolta degli Shan, un’etnia nel nord del paese; lo scontro militare dura settimane, vengono coinvolte anche l’etnia cinese Han, i Wa e i Kachin. Diecimila birmani si rifugiano nella vicina Cina. Nel 2010 si tengono altre elezioni, vinte dai militari e non riconosciute dall’ONU a causa delle numerose frodi.

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RIQUADRO 2 Etnie – il mosaico birmano

In Birmania si contano 135 gruppi etnici riconosciuti come tali dal governo, più altri non riconosciuti come i Rohingya.

Come già detto l’etnia principale è quella Bamar (35,2 milioni, pari al 69% della popolazione), seguita da alcune grandi etnie, come gli Shan (4,6 ml, 9%, buddisti, vivono al confine con Cina e Thailandia), i Karen (3,6 ml, pari al 7%, per buona parte cristiani, chiedono l’indipendenza dal 1949); i Rakhine o Rohingya (2 ml, pari al 4 %, mussulmani); i Cinesi (1,5 ml, pari al 3%); i KaChin (1,5 ml , cristiani) i Mon (1,4 ml) gli Indiani (1,2 ml); gli Arakanesi e poi tutti gli altri…

Le prime grandi repressioni sono del 1996, contro Karen, Shan, Rohingya e Chin, e costrinsero all’esilio 250 mila persone; la persecuzione servì a “coprire” una stretta feroce sulla libertà di stampa e l’arresto di numerosi giornalisti. Le minoranze furono accusate di essere immigrati illegali entrati nel paese durante l’occupazione inglese. Nel 2012 nonostante l’operazione “disgelo” dell’anno prima, ricominciano i conflitti coi Kachin, coi Rohingya, coi Lahu e i Karen. Anche la minoranza cinese entra in conflitto con l’esercito nel 2015 (gli sfollati in Cina sono 50 mila). La persecuzione dei Rohingya è l’episodio più recente e più noto in Occidente; Myanmar proibisce loro di possedere terra, di viaggiare senza salvacondotto, di mettere al mondo più di due figli, rifiuta loro la cittadinanza perché mussulmani e “bengali”. Nei loro confronti l’esercito ha operato una vera e propria pulizia etnica e uccisioni indiscriminate. Negli ultimi anni circa 750 mila hanno lasciato il paese emigrando in Malaysia, Thailandia e Australia o rifugiandosi nei campi profughi del Bangladesh.


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