Riportiamo il commento sul vertice arabo-islamico pubblicato dal Pungolo Rosso
Si è concluso a Riyad il vertice congiunto fra Lega Araba e Organizzazione della Cooperazione Islamica: all’ordine del giorno era ovviamente il massacro dei Palestinesi di Gaza ad opera delle forze armate israeliane – con l’appoggio determinante di Stati Uniti, Unione europea, Italia. Una riunione “d’emergenza” che si è tenuta dopo ben 35 giorni di massicci bombardamenti sulla Striscia e che l’Arabia Saudita avrebbe voluto posporre di altre settimane, senza tuttavia riuscirvi. I servizi di sicurezza, infatti, avevano messo in guardia il regime sulla marea montante delle proteste e dell’indignazione popolare, circostanza che ha consigliato di non tirare troppo la corda e accelerare i tempi del summit.
A quanto si può comprendere dai resoconti dei media, la montagna ha partorito il topolino. Anzi, neanche quello, ma solo una carrellata di roboanti dichiarazioni contro Israele, seguite da un nulla di fatto concreto. La stampa main stream da un lato sottolinea il sostanziale fallimento del vertice, dall’altro enfatizza la costruzione dell’asse arabo-islamico come nemico mortale di Israele, nel tentativo di trovare una giustificazione in più all’azione criminale dello stato sionista. Del resto è quella stessa stampa il cui servilismo arriva fino al punto di presentare l’appoggio politico e militare degli USA al genocidio del popolo palestinese come un’iniziativa diplomatica volta ad assicurare “un’adeguata protezione” agli abitanti di Gaza, moderando la reazione di Tel Aviv.
Ad un’analisi più attenta, tuttavia, è facile constatare che la verità non sta “nel mezzo” delle menzogne giornalistiche, sta proprio da un’altra parte. I governi dei paesi arabi valgono zero quanto ad effettiva volontà e capacità di contrastare realmente Israele e il massacro che sta perpetrando. Tuttavia anche questa sceneggiata nello straripante lusso dei palazzi reali di Riyad crea qualche problema alle potenze imperialiste per la necessità che questi governi avvertono di assicurare la sottomissione delle masse sfruttate, a partire da quelle palestinesi.
L’intento dei partecipanti al vertice di Riyad è evidente: utilizzare la “questione palestinese” per i loro interessi politici, generali e particolari, che tuttavia sono divergenti e impediscono, per adesso, un’azione comune anche solo tattica che non sia di pura facciata. Senza dubbio, l’effetto scenografico del summit è stato notevole: vedere il presidente iraniano Raisi, con tanto di kefiah al collo, sbarcare a Riyad accolto da bin Salman con tutti gli onori, colpisce. Di certo è un successo della diplomazia cinese, che si è spesa non poco per il riavvicinamento dei due poli della politica mediorientale.
La vicenda conferma lo sgretolamento dell’egemonia USA nello scacchiere internazionale e si unisce ai molti segnali, non solo politici ma anche economici, che vanno in questa direzione. È di pochi mesi fa, ad esempio, il rifiuto opposto dal fondo sovrano saudita alla ricapitalizzazione di Credit Suisse, che ne ha determinato l’assorbimento in UBS nell’ambito di un accordo pagato pesantemente da BlackRock, il più grande fondo d’investimento del mondo targato USA.
Il vertice dei paesi arabi e islamici fotografa le profonde contraddizioni dell’ordine imperialistico “occidentale” a guida statunitense; basti pensare ad una paese come la Turchia, membro della NATO e da lungo tempo in relazioni strette con Israele, soprattutto nel settore bellico e del commercio d’armi, che condanna – a parole… – Tel Aviv e cerca, al suo solito, di accrescere la propria influenza nell’area, approfittando degli spazi lasciati liberi dalla declinante egemonia yankee.
Dunque, le proposte uscite dal vertice o si cancellano a vicenda, o non vanno oltre gli ipocriti appelli alle istituzioni della cosiddetta “comunità internazionale” a cominciare dall’ONU, da sempre garante degli equilibri inter-imperialistici o spettatore inerte quando per tali equilibri non si trovi una linea di ricomposizione. Della prima categoria (le proposte che si cancellano a vicenda) fanno parte le due opposte ricette del generico mantenimento di Gaza come territorio palestinese insieme alla Cisgiordania (la prospettiva “due popoli, due Stati” – già cancellata definitivamente dall’espansionismo sionista) e l’affermazione di Raisi di uno Stato palestinese “dal fiume al mare”, la cui vaghezza è funzionale alle esercitazione retoriche del regime iraniano. Teheran ha parlato anche di armamento dei Palestinesi, di boicottaggio energetico e così via, tutte punture di spillo che coprono con difficoltà la riluttanza del regime iraniano e di tutti gli altri governi presenti a Riyad di ingaggiare uno scontro reale con i sionisti.
Nella seconda categoria (gli appelli ipocriti alle istituzioni internazionali) rientrano tutte le altre “proposte” avanzate nel summit, dalle sanzioni a Israele alla sua messa in stato d’accusa dinanzi alla corte dell’Aja, dall’invio di ispettori internazionali negli impianti nucleari di Tel Aviv alla presentazione di una risoluzione ONU che abbia carattere vincolante e “obblighi” (???) Israele a porre fine all’aggressione. Verrebbe da ridere, se la situazione non fosse così terribilmente tragica: ma se è dal 1947 che Israele se la ride di tutte le risoluzioni ONU, dalla risoluzione 181 alla 242 ecc. spalleggiata dagli USA e da tutti i principali Stati imperialisti, Italia compresa, senza pagare mai alcuna conseguenza, di quale obbligo parlate?
La situazione, comunque, è ancora troppo in movimento per dire che nessuno Stato arabo muoverà un dito contro il genocidio di Gaza. Ognuno di questi stati, infatti, deve fare i conti – nonostante tutto – con la propria popolazione. Il protrarsi dei massacri mette i governi reazionari dei paesi arabi e di tradizione islamica sempre più in difficoltà. Il mondo degli sfruttati e degli oppressi in Medioriente ribolle di rabbia e volontà di lotta, e ovunque nel mondo si susseguono quasi quotidianamente enormi manifestazioni contro Israele e la sua opera di sterminio, come avvenuto due giorni fa a Londra. Per questo alcuni paesi come Libano e Algeria hanno ventilato l’interruzione delle forniture petrolifere a Tel Aviv nel quadro di una “sospensione” dei legami economici e delle relazioni diplomatiche, incontrando però subito l’opposizione del Bahrein e degli Emirati Arabi, i cui rapporti con Israele sono stati normalizzati già nel 2020. Non aveva certamente torto (in questo) Nasrallah a dire che “un minimo di onore” dei paesi arabi dovrebbe obbligarli a interrompere le forniture di gas e di petrolio a Israele, da cui Israele – e la sua macchina militare – dipendono. Ma, a stare al consesso di Riyad, questo minimo di onore i governanti dei paesi arabi non ce l’hanno.
E’ troppo presto anche per affermare che l’indignazione delle masse mediorientali metterà capo ad una nuova grande Intifadah di area, più potente e carica di effetti destabilizzanti dell’ordine mondiale di quelle del 2011-2012 e del 2018-2020. Di certo, però, la pulizia etnica in corso a Gaza, l’evidente volontà di Israele di arrivare ad una “soluzione finale” del problema palestinese, con una seconda Nakba dopo quella del 1948, hanno avviato un nuovo processo di radicalizzazione degli sfruttati arabi, un processo che allarga ancora di più il fossato fra i milioni di diseredati che riempiono le piazze e i regimi reazionari del Medio Oriente (non solo arabo) che hanno margini molto ristretti per mostrare una qualche reazione ai crimini israeliani.
Alcuni fra questi Stati (Iran in testa) tentano di utilizzare l’aggressione israeliana per allargare i propri spazi di manovra nell’area. Essi propugnano la tesi che il rafforzamento di uno schieramento imperialistico, rivale dell’Occidente e inevitabilmente egemonizzato da Cina e Russia, facendo da levatrice ad un “mondo multipolare”, rappresenterebbe il quadro in cui l’autodeterminazione palestinese potrebbe trovare soddisfazione. Tuttavia, questo è un gioco che ha, appunto, pochi margini di manovra. I regimi reazionari arabi e medio-orientali temono come la peste ogni mobilitazione di massa nei loro paesi e non hanno alcuna intenzione di mettere in pericolo i loro interessi e le loro relazioni di potere lasciando troppo spazio all’iniziativa popolare.
Se la resistenza palestinese ha oggettivamente imposto uno stop al nuovo round degli accordi di Abramo, la normalizzazione dei rapporti con Israele rimane la prospettiva verso la quale sono incamminati i regimi arabi e islamici. Questo non esclude il lavorìo per definire un nuovo quadro strategico in cui inserirla (del resto nel corso dei decenni anche lo stato di Israele ha espanso i suoi rapporti verso Est – la Cina è il terzo partner commerciale di Israele); ma i governi al potere nell’area hanno piena consapevolezza che il prendere forma di un nuovo assetto globale sarà il risultato dell’evoluzione dello scontro fra le potenze imperialistiche che la guerra fra NATO e Russia in Ucraina ha accelerato; se invece a questo scontro si intreccerà, e sovrapporrà, uno scontro mondiale tra capitale e classe lavoratrice, tutti i calcoli sui possibili benefici – per le classi borghesi dell’area – di un mondo multipolare restano senza base su cui poggiarsi.
Non saranno certo né la monarchia hascemita in Giordania, erede del massacro dei profughi palestinesi e degli sfruttati giordani compiuto nel settembre 1970, né il regime reazionario di Assad, a sua volta erede della carneficina compiuta dalla Siria nel campo profughi di Tall el Zaatar nel 1976, per non parlare della sorte che questo regime ha riservato alla sollevazione popolare del decennio scorso, ad incarnare la riscossa dei Palestinesi contro il colonialismo razzista di Israele.
Intanto, le masse arabe e mediorientali continuano a premere sui loro governi perché prendano misure drastiche contro Tel Aviv e non mostrano affatto quella sudditanza alle direttive di questo o quel governo arabo o “islamico” che molti “osservatori”, poco capaci di osservare e di capire, sembrano attribuire loro. Nello sviluppo di questo processo di radicalizzazione e di lotta potranno determinarsi anche le condizioni per una seconda fase della decolonizzazione incompiuta e della rivoluzione democratica nel Medioriente e nel mondo arabo, e per una direzione più conseguente, radicale, capace di “andare fino in fondo”, della stessa lotta per l’autodeterminazione palestinese. Quest’ultima, infatti, non potrà realizzarsi se non scardinando l’intero assetto statale del Medioriente costruito e difeso dalle potenze imperialistiche, che ha certamente nella distruzione delle basi sioniste dello Stato d’Israele un punto essenziale ma non certo l’unico.
Ai rivoluzionari che operano nelle metropoli spetta il compito non tanto di “solidarizzare” con la lotta palestinese, quanto di riconoscerla come parte di un piano unico di lotta contro l’assetto capitalistico internazionale, un piano che non ha schieramenti statali alternativi da sostenere e da cui sperare di trarre vantaggi, ma il compito di unire gli sfruttati di tutto il mondo.
I Palestinesi non hanno amici in nessuna potenza regionale, e men che meno in nessuna grande potenza, ma possono vincere contando solo sulle loro forze e su quelle dei proletari e dei diseredati di tutti i paesi. La resistenza palestinese ha mostrato di saperlo, e saprà ancora una volta affrancarsi da quanti parlano in suo nome per tradirla ancora una volta.