In questo 1° maggio grandeggia su tutto, anche sulle nuove turbolenze finanziarie, lo spettro di un altro orrido massacro mondiale in preparazione. Come avevamo detto da subito, infatti, la guerra tra NATO e Russia (e suoi alleati) in Ucraina è stata un punto di svolta irreversibile della politica internazionale in quanto ha segnato il passaggio della contesa inter-imperialista dal piano delle misure protezionistiche a quello militare.
L’oggetto di questa contesa “per la vita e per la morte” non è solo il ricchissimo territorio dell’Ucraina: è il dominio sull’intero mercato mondiale, sull’accesso alle risorse naturali e alla più ambita di esse, la forza-lavoro viva. Ed è escluso che una simile contesa si svolga in modo pacifico e consensuale: sono la storia e le leggi di funzionamento del capitalismo ad escluderlo. Una sola forza può mettersi di traverso ad un corso degli avvenimenti che – qualunque sia la sua tempistica – appare segnato: è la forza autonoma, organizzata, unita degli sfruttati di tutto il mondo. Mai come ora l’antico motto di battaglia dei comunisti “proletari di tutti i paesi unitevi, non avete nulla da perdere, solo un mondo [nuovo] da guadagnare”, è apparso altrettanto appropriato. Per contro, mai come ora ogni visione angustamente nazionale, ogni ideuzza da bottegai di poter salvare la propria pelle dagli uragani in arrivo “uscendo” – come Italia – dalle dinamiche di guerra globale, o “uscendo” dall’UE, “uscendo” dall’euro, e simili frottole “sovraniste”, sotto-nazionaliste, vanno messe al bando senza tentennamenti e nostalgie per una fase della storia del movimento operaio che ha portato solo ingloriose sconfitte.
A pochi anni dalla Brexit, uno dei capi della Banca d’Inghilterra l’ha detta finalmente chiara: “Cari britannici, rassegnatevi ad essere più poveri”. Si chiude così ingloriosamente, e in breve, il grande raggiro ai danni dei proletari britannici ordito da demagoghi reazionari e avallato da un certo numero di esponenti della sinistra, anche extra-parlamentare. Non si può uscire come singoli paesi attraverso escamotage giuridici o monetari, dal gorgo e dal caos di un sistema capitalistico definitivamente globalizzato in preda alle sue convulsioni – quelli che l’hanno sostenuto e lo sostengono tuttora andrebbero presi a pedate dai proletari più coscienti.
Si tratta, al contrario, di entrare con assai maggior determinazione nella dinamica di collegamento internazionale e internazionalista di unità e di fraternizzazione tra proletari/e, che con grande fatica sta cominciando a manifestarsi anche nella Russia e nell’Ucraina belligeranti, così come tra i lavoratori dei diversi paesi europei in stato di agitazione. Su questo piano, piaccia o non piaccia la realtà è questa, le iniziative più significative degli ultimi mesi sono state quelle volte a creare un’area coerentemente disfattista davanti alla guerra in Ucraina (con il convegno del 16 ottobre e lo “spezzone di classe” del 3 dicembre a Roma) e lo sciopero di solidarietà ai lavoratori francesi in lotta indetto dal SI Cobas il 28 marzo scorso nei magazzini della logistica. Su questa strada bisogna proseguire, e noi della TIR intendiamo proseguire.
Abbiamo già fissato, con altre organizzazioni, il prossimo passo: un’assemblea a Milano per l’11 giugno nella quale chiamiamo a raccolta “tutti gli organismi sociali, politici, sindacali, nonché i singoli e le singole militanti disposti a battersi insieme a noi per rilanciare l’iniziativa di classe, internazionalista” contro la guerra in Ucraina e contro la tendenza ad un nuovo apocalittico conflitto mondiale e “farla vivere consapevolmente nel contesto delle mobilitazioni dei prossimi mesi”. E a questo scopo abbiamo già redatto un documento-base comune, al quale rimandiamo senza riserve, e senza stare qui a ripeterne le analisi e le tesi.
Specifichiamo semplicemente che, per noi, in questo contesto di progressiva precipitazione delle contraddizioni inter-capitalistiche non c’è alcuna pace da difendere. Ad esempio la “pace” esistente in Ucraina prima dell’invasione russa del febbraio scorso è stata, oltre che il contesto di una guerra di Kiev alle popolazioni del Donbass con migliaia di morti, il terreno di penetrazione delle imprese transnazionali di ogni tipo (americane, europee, cinesi, russe, etc.) che hanno condotto una vera e propria guerra alle condizioni di lavoro e di esistenza di milioni di proletari/e ucraini facendole regredire di decenni, e obbligandoli/e ad emigrare in massa ai quattro angoli dell’Europa (a cominciare dall’Italia e dalla Polonia) e del mondo per essere trattati da forza-lavoro di riserva, di serie B. E se da un anno una guerra devastante nell’intera Ucraina (anziché nel solo Donbass) ha aggiunto allo sfruttamento selvaggio dei proletari lutti e distruzioni, questi sono la conseguenza inevitabile dello scontro furioso di interessi imperialistici contrapposti che quella “pace” ha generato. La sola causa di cui essere “partigiani” oggi senza disonorarsi come compagni è quella della guerra alla guerra imperialista, è quella della rottura della pace sociale che ci appesta, specie in Italia.
Nella preservazione della pace sociale, ancora una volta la classe borghese italiana si è rivelata molto esperta anche in questo 25 aprile, mettendo in scena la grottesca pantomima di dichiararsi tutti “anti-fascisti” (o quasi) e consentendo al guerrafondaio Pd della Schlein di risciacquarsi un po’ le mani sporche di sangue con una insopportabile, vuota retorica “resistenzialista”. Una retorica che serve all’Italia democratica, quella che immediatamente salvò e riciclò i caporioni fascisti con la vergognosa amnistia di Togliatti; quella che ha oggi un governo imperniato su filibustieri/e di lungo corso provenienti da un percorso strettamente affine al vecchio fascismo; le serve per “rafforzare il ruolo dell’Italia nel mondo come imprescindibile baluardo di democrazia” (parole della Meloni).
Se non rompe la pace sociale, il proletariato italiano ed europeo resta, nei fatti, arruolato nel fronte nemico con il compito di “motore nazionale” dell’economia di guerra e per l’economia di guerra. E neppure le ondate di sciopero e le dimostrazioni di piazza, rilevanti o imponenti negli ultimi mesi, soprattutto in Francia, Gran Bretagna e Grecia, riescono a mettere in discussione fino in fondo, a negare e rovesciare questo ruolo oggettivo. Perché può accadere, come sta accadendo in Francia, che la quasi totalità degli organismi sindacali e politici che appoggia la lotta contro la riforma delle pensioni voluta da Macron e Medef (la Confindustria francese) al tempo stesso fiancheggi la scelta dell’Eliseo di essere in guerra a sostegno dell’Ucraina, cioè della NATO. Sicché da un lato lotta contro Macron e lo delegittima, ma dall’altro lato – non meno importante – lo sostiene e lo legittima (a danno proprio, e a danno dei proletari ucraini e russi che muoiono nella guerra che continua e si incancrenisce). Una tale stridente contraddizione è ancor più marcata, se possibile, nelle vicende sindacali britanniche, là dove non è stata portata a termine neppure l’unificazione delle vertenze sindacali in corso, per un enorme deficit di coscienza politica di classe, ed è praticamente assente la messa a fuoco della questione centrale del “momento”: la tendenza alla guerra. Parzialmente diverso è il caso della Grecia, dove invece risuona con maggior forza nelle piazze la denuncia della guerra imperialista in Ucraina.
La stessa rampante inflazione che sta tagliando brutalmente i salari della grandissima parte dei lavoratori sarebbe inspiegabile, in presenza di un’enorme sovrapproduzione non smaltita, se non fosse in corso una guerra che ha fatto esplodere i prezzi dell’energia (con le relative manovre speculative), e se non fosse in atto una guerra dei tassi di interesse volta a richiamare negli Stati Uniti e in Europa capitali che altrimenti rischierebbero di fuggire altrove – capitali indispensabili per sostenere l’enorme incremento delle spese militari; e se non fosse in atto una guerra di classe delle banche centrali degli Stati Uniti e dell’UE volta a produrre altra disoccupazione e abbassare così ulteriormente il livello generale dei salari. Ciò mostra quanto siano strettamente legati il piano sindacale e quello politico, con quest’ultimo che “comanda”, inquadra e orienta l’altro. Lo vediamo anche in questo 1° Maggio in Italia.
Il prossimo 1° Maggio si terranno una serie di manifestazioni, promosse quasi ovunque dalle realtà del sindacalismo di base (la CGIL, oltre il concertone di Roma, si limiterà a dei presidi – non bisogna disturbare il manovratore). Anche stavolta, però, non si è riusciti a determinare quel minimo comune denominatore tale da giungere a delle piazze unitarie. Non si tratta, come vorrebbe far credere qualcuno, solo né principalmente di faide tra sigle e rispettive “burocrazie”: in realtà ci troviamo di fronte ad almeno due proposte programmatiche e di prospettiva politica, sempre più lontane tra loro, su che tipo di opposizione di classe costruire al governo Meloni e alla classe capitalistica: quella di Usb e quella del SI Cobas.
Infatti, sulla guerra, da un lato c’è l’anti-imperialismo a senso unico del gruppo dirigente di Usb, per il quale si tratterebbe unicamente di sottrarre “l’Italia” dalla sudditanza al giogo amerikano della Nato – per la Rete dei comunisti, che ispira i vertici dell’Usb, l’Italia è alla fin fine una colonia, o una semi-colonia, degli Usa e della Germania, una schiava altrui. E la colpa del governo Meloni è quella di non saper “disubbidire a una politica sanguinosa e fallimentare anche per lo stesso futuro della UE”. Un mix di nazionalismo sociale a base italiana-europea: sono queste le due opzioni presenti nel cartello elettorale di Unione popolare per cui ‘lavora’ Usb, che si riflette anche nella scelta dei compagni di viaggio su scala continentale, in primis quel Melenchon che in Francia ha fatto del sovranismo “di sinistra” un mezzo di abile concorrenza con il RN della Le Pen sul suo stesso terreno. Nel caso della Rete dei comunisti, poi, tutto ciò si sposa anche con evidenti simpatie per l’asse Russia-Cina non certo in quanto “proletario”, bensì in quanto anti-occidentale.
Dall’altro lato, in coerenza con un’impostazione internazionalista propria del gruppo dirigente del SI Cobas, è messa in primo piano la denuncia del “nemico in casa propria”, il capitalismo imperialista nazionale, visto come socio fondatore e attivo sia della NATO che dell’UE, e c’è il rifiuto di qualsiasi complicità con ambedue i campi capitalisti a scontro (USA-UE da un lato, Russia-Cina dall’altro) perché significherebbe il tradimento degli interessi e delle aspirazioni profonde dei lavoratori russi, cinesi, etc.
Sulle questioni “interne”, da un lato, c’è un approccio sindacale per molti versi simile a quello di Cgil-Cisl-Uil, che adotta crescentemente il metodo della delega e ha per obbiettivo quello di accedere alla rappresentanza e al riconoscimento istituzionale del sindacato tramite i tavoli col governo; dall’altro c’è la prospettiva e la prassi della lotta, del conflitto e dello sciopero quale motore insostituibile di qualsiasi battaglia che voglia avere una minima possibilità di successo per la difesa e il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei proletari – l’impressionante carico di misure repressive che hanno colpito in questi anni, e stanno continuando a colpire, il SI Cobas e il Movimento di lotta per il lavoro 7 novembre, si spiegano con la reazione dei governi e degli apparati statali a questa impostazione/prassi da loro percepita come pericolosa.
Anche l’urgenza della raccolta delle forze disponibili ad un fronte di lotta anti-capitalista è avvertita in modo assai differente, perché Rete dei comunisti/gruppo dirigente di Usb, non da oggi, hanno legami di collateralismo con forze presenti nelle istituzioni dello stato, il che è conseguente alla ricerca di un diverso ruolo, maggiormente autonomo e protagonista, dell’Italia, del capitalismo italiano in Europa e nel Mediterraneo, da cui ci si aspetta una ricaduta positiva per i lavoratori; laddove il gruppo dirigente del SI Cobas punta realmente tutte le sue carte sull’effettiva auto-organizzazione della classe per sé stessa, ed essendo consapevole dell’attuale situazione di debolezza e frammentazione della classe, lavora da anni a momenti di dialogo, di cooperazione, di unità d’azione, tra proletari/e e organismi accomunati dalla volontà di mettere in campo iniziative di lotta efficaci contro i governi e la Confindustria. Lo stretto rapporto tra Tir e SI Cobas si è sviluppato negli anni esattamente su questo terreno, con l’impegno da parte nostra ad elevare il livello di coscienza politica dei proletari e delle proletarie immigrati più combattivi e valorizzare l’apporto dato da loro al risveglio dell’intero movimento di classe.
I fatti delle ultime settimane sono conseguenze di questa evidente differenza di prospettive – e aiutano non poco a chiarire, se si hanno gli occhi per vedere, la dinamica delle divisioni che si sono prodotte all’indomani della manifestazione nazionale del 3 dicembre a Roma.
Alla fine di marzo, il SI Cobas ha lanciato un appello a tutto il sindacalismo di base nel tentativo di dar vita a delle piazze unitarie in occasione del 1° Maggio e di aprire il confronto in vista di un possibile sciopero generale a giugno. Passati appena 3-4 giorni dall’appello, l’Usb, senza neanche aver preso parte alla riunione unitaria, ha lanciato in completa solitudine le proprie piazze per il 1° Maggio e un proprio sciopero generale per l’ultima settimana del mese.
Risultato: il 1° maggio a Milano e Napoli vi saranno manifestazioni del sindacalismo di base tendenzialmente unitarie, promosse oltre che dal SI Cobas, da una pluralità di forze sindacali (a Milano Sgb, Cub, Usi, Sial Cobas, Adl Cobas), nel mentre Usb va per conto proprio.
Lungi da noi, sia chiaro, contrapporre tra loro i lavoratori che parteciperanno alle piazze chiamate da SI Cobas e Usb – abbiamo sistematicamente agito in direzione contraria anche laddove, come a Piacenza, c’erano stati grossi attriti. Né ci accontentiamo di quei “piccoli numeri” di dimostranti seppur fortemente combattivi, come sono state le manifestazioni di Piacenza contro la repressione (dell’agosto scorso) e quella di Roma contro la guerra e il governo Meloni. E’ al grosso della classe lavoratrice che puntiamo, per quanto appaia, e sia oggi, atomizzata e passiva. Lo ripetiamo da anni, ed è così. Perché siamo radicalmente convinti che il sistema sociale capitalistico non ha più nulla di “progressivo” da dare alla specie umana, e si caratterizza in modo crescente per la sua distruttività, per la sua soffocante necessità di controllo e di manipolazione degli umani, per la sua illimitata rapacità nei confronti delle energie vitali di madre terra e della natura.
Questa tendenza obbligata del corso storico del capitale globale viene sperimentata quotidianamente da centinaia di milioni di sfruttati/e e di oppressi/e, e sebbene la cosa si presenti in modo differente ai proletarie/e dei paesi capitalisticamente ascendenti e ai proletari/e dei paesi declinanti, essa porrà a tutti/e – senza eccezione – un aut-aut: battersi contro il capitale con tutte le proprie forze internazionalmente organizzate “in partito” per aprire la strada, con la rivoluzione sociale, ad una società-mondo di liberi ed eguali, oppure soccombere, tra macerie di ogni tipo, alla più infame, regressiva, sanguinaria delle controrivoluzioni. Dobbiamo riconoscerlo senza edulcorare nulla: affermare nelle tempeste sociali e politiche in arrivo la prospettiva di classe, rivoluzionaria, internazionalista sarà impresa ardua. Ma anche l’unica a cui valga la pena dedicarsi. Il futuro è della rivoluzione sociale anti-capitalista, o non è.
1° Maggio 2023
Tendenza internazionalista rivoluzionaria