Come una grande calamita i ricchi paesi del Golfo attirano forza lavoro soprattutto dal Sud Est asiatico. Emigrano per sfuggire alla miseria del loro paese … e si ritrovano in condizioni ancora più inumane.
Sono circa 1,2 milioni i lavoratori emigrati in Qatar per lavorare in progetti del valore di circa €184,5 MD. Il 22% di loro sono indiani, altrettanti i pachistani. Circa il 16% nepalesi, 13% iraniani, 11% filippini, 8% egiziani e altrettanti da Sri Lanka.
Negli Emirati, ad Abu Dhabi sull’isola di Saadiyat, è in costruzione un campus della New York University; vari centri culturali, strutture sportive, enormi musei, “filiali” del Guggenhein e del Louvre; in Barhain tre nuove città, etc.
In Qatar fervono i lavori per le avveniristiche infrastrutture per la Coppa del Mondo 2022.
Molti arrivano a Doha pagando il viaggio con denaro prestato da avide agenzie di reclutamento,[1] per poi scoprire che salari e condizioni sono molto diversi dal pattuito, e che per rifondere i prestiti
devono sottomettersi a condizioni di lavoro e di vita schiavistiche.
Si contano a centinaia le vittime del lavoro tra i gli immigrati, provenienti da Nepal, India, Sri Lanka o Bangladesh, che stanno preparando i 5 nuovi stadi e relative strutture per la Coppa del mondo 2022 in Qatar.
Solo tra i nepalesi, da gennaio a metà novembre 2014, ne sono morti 157, e secondo le autorità del Nepal 188.[1] Uno ogni due giorni. 67 di loro per “improvviso arresto cardiaco”, 8 per “infarto”; 32 sono registrati come vittime di incidenti sul lavoro.
Un numero simile di vittime è il costo umano pagato dagli immigrati indiani in Qatar, 974 in quattro anni, dal 2010 al 2014. Oltre i 2/3 di essi sono morti per infarto cardiaco o incidenti sul lavoro.
La Confederazione sindacale internazionale, ITUC, avverte che prima che venga calciato il primo pallone potrebbero arrivare a 4000, i lavoratori uccisi dalla brama di profitti in Qatar.
Un lavoro pesante per 11-12 ore al giorno (HRW), sei o sette giorni la settimana, con temperature che raggiungono facilmente i 50°. A questo si aggiungono maltrattamenti, salari pagati in ritardo o non pagati; alloggi miseri, divieto di cambiare lavoro o di abbandonare il paese.
Nei paesi arabi del Golfo i lavoratori stranieri possono ottenere un permesso di lavoro e di residenza solo tramite un kafeel (garante), contattato da agenzie interinali nei loro paesi di origine. L’essenza del sistema del kafala (da kafeel) che è una tradizione e non una legge, è il vincolo che lega il dipendente al padrone, una specie di schiavitù. Un residuo di tipo feudale in economie per altro compiutamente capitalistiche, che consente di imporre in modo più dispotico la volontà prevaricatrice del capitale. In base ad esso il padrone può decidere le modalità di assunzione e le condizioni di lavoro. Secondo la legge il kafeel è tenuto a pagare l’assicurazione malattia e le imposte, i permessi di residenza, etc. Invece, spesso, kafeel e intermediari trattengono questi costi dai salari dei lavoratori immigrati, e a volte perfino le spese per le sanzioni pecuniarie da essi dovute per ritardi di registrazione. Per rifarsi dei costi del reclutamento alcuni kafeel non versano i salari degli ultimi mesi. È diffuso il sequestro dei passaporti, e persino delle carte di credito, per costringere i migranti a firmare contratti in bianco, ad accettare condizioni e durata del lavoro non consentite dalla legge, con innumerevoli straordinari non retribuiti. Spesso non vengono loro concessi il riposo settimanale, le ferie annuali, o il rientro a casa. Ci sono casi in cui i kafeel restituiscono il passaporto solo se a fine rapporto il lavoratore dichiara di aver ricevuto quanto dovuto.
Se poi, esasperati dalle loro condizioni i migranti pensano di denunciarle alle autorità, lo fanno sapendo che il padrone li punirà. Con riduzione del salario, non rinnovo del contratto, false imputazioni, e infine anche la deportazione.
Gli scioperi sono difficili e rari, perché considerati illegali per gli immigrati. Ci sono però anche migranti coraggiosi che hanno osato scioperare. Come il caso di 100 operai edili provenienti dal S-E Asia, assunti per ristrutturare il lussuoso hotel Sheraton di Doha. Chiedevano un aumento dei loro miseri salari. Li hanno arrestati e verranno facilmente deportati. E questo in Qatar, uno dei paesi più ricchi del mondo! Secondo il World Atlas Factbook, nel 2014 il Qatar vantava il PIL pro-capite più alto, il 14% delle famiglie è milionario.[2] La stessa cosa è accaduta nel 2010, a 90 operai che lavoravano per al-Badar Construction. Protestavano perché il padrone non riconosceva un aumento salariale del 10% come previsto dal contratto, ed anzi aveva diminuito del 35% la paga. Sono stati arrestati, incarcerati per diversi giorni e poi deportati.
Le condizioni di sfruttamento della mano d’opera immigrata sono conosciute e facilitate dalle autorità statali dei paesi del Golfo che, nonostante le numerose richieste di associazioni per i diritti umani e di sindacati internazionali di riformare il sistema del “kafala”, non hanno introdotto sostanziali miglioramenti alla situazione dei migranti. Sono paesi che, arricchitisi con la rendita petrolifera, la usano ora per investimenti ed acquisizioni esteri, ma anche per le opere faraoniche realizzate grazie al supersfruttamento dei migranti.
Conoscono e tollerano la brutalità delle condizioni dei lavoratori migranti anche le grandi società appaltatrici. Come ad es. la New York University per quanto riguarda i casi di pestaggi, arresti, deportazioni e altri abusi subiti dai circa 6000 operai edili migranti che stanno costruendo il suo campus ad Abu Dhabi.
Quando i salariati di BK Gulf Co., che partecipa alla costruzione di questo campus, scioperarono, essi vennero arrestati, picchiati dalla polizia per strappare loro il nome dei promotori dello sciopero, e deportati a centinaia nei paesi di origine. Secondo un rapporto del NYT, l’appaltatore del campus è gestito da un membro del C.d.A. della stessa Università,[3] che alla sua nomina nel Consiglio ha fatto una donazione di $50milioni da parte del governo di Abu Dhabi. Stessa cosa vale per i progetti per Saadiyat Island dei musei Guggenheim e Louvre …
Sono enormi gli ostacoli e i rischi che i migranti nei paesi del Golfo devono affrontare anche solo per affermare il fondamentale diritto ad organizzarsi, ma siamo fiduciosi che riescano a conquistarlo. Sappiamo che la loro lotta è importante per l’emancipazione di tutti gli sfruttati e gli oppressi dal sistema capitalistico e, in quanto internazionalisti, esprimiamo la nostra solidarietà di classe per le loro coraggiose battaglie, di cui purtroppo poco viene fatto trapelare.
[1] Nel 2014 si contano 549 i migranti nepalesi vittime del capitale dei paesi del Golfo (dati ambasciate nepalesi nel Golfo).
[2] Nella sola prima metà del 2014, il valore totale di contratti e investimenti di gruppi del Qatar all’estero hanno superato I $10MD, e riguardato 11 paesi del mondo.
[3] Khaldoon Khalifa Al Mubarak.
[1] I costi vanno da $700 a $3500, secondo il NYT i mediatori chiedono fino a un anno di salario.
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