Prato: una tragedia del Made in Italy

prato

Sette morti carbonizzati e due feriti molto gravi nell’incendio di una fabbrica tessile.
Un bilancio pesante, che fa pensare a una strage del lavoro nel sud-est asiatico. Ma che invece è avvenuta a Prato, nel cuore della metropoli italiana, dove gli imprenditori di nazionalità cinese alimentano un’ampia produzione tessile che fa la fortuna della zona. Imprenditori-schavisti che spesso sono elogiati per la loro operosità. Un’operosità che si basa sullo sfruttamento senza scrupoli dei propri connazionali riducendoli di fatto in schiavitù, ricattati con la minaccia della clandestinità, fatti vivere e lavorare in queste fabbriche-dormitorio senza le minime condizioni di sicurezza.

Le ispezioni del ministero del lavoro e delle forze dell’ordine, quando ci intervengono, trovano posti letto abusivi dentro i laboratori, dove i lavoratori dormono fra i turni di lavoro massacranti in spazi di tre metri quadri e in condizioni igeniche disastrose.
Alla Camera di Commercio di Prato sono iscritte circa 5 mila aziende orientali, di cui quasi 4 mila operano nel tessile. E’ il panorama di una produzione frammentata in una miriade di laboratori di piccole dimensioni, frammentazione che produce inevitabilmente una bassa produttività per ora di lavoro a cui le imprese pongono rimedio scaricandola sulle maestranze, aumentando gli orari e riducendo i salari fino allo schiavismo. Un sistema che può contare sulla ricattabilità della manodopera, composta in gran parte di immigrati irregolari, che grazie alle leggi dello stato italiano non possono esigere neppure i diritti più elementari perché ridotti a fantasmi nella società umana.

Mentre scriviamo nella rete si scatenano i commenti intrisi di xenofobia con cui si mettono sotto accusa le aziende cinesi, come se lavoro nero, violazione delle norme ed ipersfruttamento fossero confinati in quelle realtà. Ma pur nella sua tragicità, quella di Prato non è un’eccezione alla regola importata da imprenditori stranieri: in Italia gli incidenti sul lavoro, la violazione delle norme di sicurezza sono all’ordine del giorno, mentre il lavoro nero non è mai stato marginale, ma anzi è stato usato come fattore di competitività.
Una competitività da realizzare ad ogni costo, ineludibile nell’andamento naturale del capitalismo, necessaria per sopravvivere e prosperare di fronte alla concorrenza degli altri sfruttatori.

Una logica che molti credevano riguardasse solo i paesi in via di sviluppo, ma che dal rogo della Thissen-Krupp a quello di ieri sempre più spesso emerge anche in Italia e in altre metropoli. Una logica che si adatta perfettamente a un imperialismo straccione come quello italiano, che per debolezze economica e soprattutto per mancanza di capacità di difesa dei lavoratori investite sui bassi salari più che sull’alta produttività, che per debolezza delle istituzioni statali fa prosperare lavoro nero, evasione fiscale ed economia sommersa.
Secondo una ricerca dell’Eurispes nel 2011 l’economia sommersa ha raggiunto 540 miliardi di euro, pari al 35% del PIL italiano, mentre il lavoro nero muove circa 280 miliardi di euro.
Il 2013 il Sole 24 Ore (7/11/2013: L’economia sommersa vale 333 miliardi. Italia seconda «potenza» europea dopo la Germania) dà altre cifre per l’economia sommersa del 2013: 333 miliardi di euro, pari al 17-21% del PIL. In questo però l’Italia sarebbe in buona compagnia: a livello europeo il sommerso sarebbe il 16,5%, e la stessa Germania ne avrebbe un 13% pari a 351 miliardi di euro, la cifra più elevata nel continente con buona pace di tanti luoghi comuni sull’efficenza e la legalità teutoniche.
Nulla di strano che questo andazzo produttivo si ripercuota sui lavoratori come mancanza di tutele, di misure di sicurezza e quindi non solo lavoro nero, ma anche morti bianche.
Secondo l’Osservatorio Indipendente di Bologna Morti sul Lavoro con la strage di Prato nel 2013 vi sono stati 546 morti sul posto di lavoro e 625 nel 2012, pur in uno scenario che ha visto precipitare l’occupazione e con essa le cause degli incidenti. A questi vanno aggiunti i numerosissimi incidenti stradali in cui muore chi si reca sul posto di lavoro, facendo lievitare le vittime a oltre 1150 per il 2013 e almeno 1180 per il 2012.
La realtà di Prato si iscrive a pieno titolo nel panorama produttivo italiano e nel suo mercato del lavoro.

L’assessore comunale alla sicurezza Aldo Milone lamenta che sia stata una tragedia annunciata, che il comune aveva già denunciato il pericolo. Il sindaco ha proclamato il lutto cittadino. Ma sappiamo che gli interventi dello stato e le tardive lacrime non risolvono il problema, forse lo attenuano temporaneamente.
Il vero antidoto contro queste tragedie è l’autorganizzazione dei lavoratori stessi che devono fare causa comune per difendersi. Le barriere linguistiche e le rivalità nazionali sono spesso coltivate dalla borghesia per separare settori di proletariato e metterli in lotta fra loro, giocando anche sui diversi livelli retributivi e sulle diverse condizioni di vita: per un operaio italiano è difficile identificarsi con uno straniero, magari un clandestino che lavora circa il doppio per guadagnare molto meno della metà; è invece più facile accusarlo di portargli via il lavoro e di aumentare la sua insicurezza sociale.
Ma è solo nel lottare uniti che si possono difendere o riconquistare i propri diritti e una condizione di vita dignitosa. Una lotta che non può essere limitata all’interno del proprio paese, ma che deve diventare fattore di unione a livello internazionale: la tragedia di Prato è lì a ricordarci che le condizioni drammatiche dei lavoratori dei paesi in via di sviluppo impiegano poco ad estendersi alle metropoli, soprattutto in Italia dove la borghesia autoctona è maestra di precarietà, sfruttamento e compressione salariale.
E’ soprattutto in questi casi che la lotta di classe per obbiettivi immediati quali l’aumento di salario, la riduzione dell’orario e maggiori misure di sicurezza deve diventare coscienza internazionalista e lotta rivoluzionaria per una nuova società senza nazioni né classi sociali.


Combat – Comunisti per l’Organizzazione di Classe

 

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