Mentre forze politiche di destra e sinistra fanno a gara nel promettere un taglio delle spese e delle tasse o nel lamentare il grande debito pubblico, la spesa militare è cresciuta durante il pur breve governo “di sinistra”: già la Finanziaria 2007 ha stanziato un aumento delle spese belliche di circa il 5% rispetto a quella precedente varata dal centro-destra arrivando a 12 miliardi 437 milioni di euro più un altro miliardo per le missioni “di pace”. Con le ultime votazioni al Parlamento, sono recentemente stati approvati i nuovi finanziamenti: 279 milioni per la missione in Libano e 337 per l’Afghanistan.
Questa apparente contraddizione ha una motivazione molto materiale: l’economia italiana tende a ristagnare, lo stesso dibattito sui bassi salari è un tentativo di trovare un modo per rilanciare l’asfittico mercato interno. Ma mentre il valore aggiunto in Italia dei "gruppi maggiori" (indagine Mediobanca) è cresciuto meno di 10 punti in 10 anni, il "fatturato consolidato mondiale" è aumentato del 65%: il capitalismo italiano estende sempre più all’estero le sue basi di sfruttamento, e manda le truppe per garantire queste basi e questi interessi. Sono le truppe dell’imperialismo italiano.
Se oggi l’Italia, con 7.800 militari dislocati in 19 paesi esteri (di cui 2.450 in Libano, 2.300 in Afghanistan e altrettanti in Kosovo), è il quarto paese ONU per impegno nelle missioni di “peace-keeping”, è proprio per permettere ai suoi capitalisti di partecipare allo sfruttamento dei mercati esteri: si va dai giacimenti petroliferi di Nassiriya, promessi all’ENI dal governo di Saddam e poi confermati dal governatore USA Paul Bremer, al Libano, del quale il nostro paese è primo partner commerciale, agli investimenti nei Balcani, da oltre un secolo area di espansione italiana. Inoltre avere proprie truppe in diversi paesi permette di avere una maggiore voce in capitolo nelle questioni internazionali e un maggiore peso nelle alleanze. Guardando agli USA o all’Europa, ai Balcani o al Medio Oriente, l’imperialismo italiano, forte dello sfruttamento del proletariato italiano e immigrato all’interno, punta ad estendere lo sfruttamento del proletariato internazionale e la conquista di mercati esteri; le sue spese militari vengono pagate dai lavoratori coi tagli ai servizi sociali e con l’aumento delle tasse locali.
La cosiddetta “sinistra radicale”, che fino a quando il governo era in piedi aveva sempre dato il proprio voto ai finanziamenti alle missioni estere, per la prima volta ha votato contro il rifinanziamento delle missioni militari per rifarsi una verginità tra l’elettorato pacifista.
Del resto PRC, PdCI e Verdi non si sono mai schierati contro le missioni militari all’estero dell’imperialismo italiano in quanto tali, ma solo contro quelle fatte in collaborazione con gli USA: le loro proteste – beninteso, solo verbali e senza nessuna conseguenza reale per il governo – per la presenza di soldati italiani in Afghanistan sono state accompagnate da un entusiastico appoggio all’invio di truppe in Libano: una missione “autorizzata dall’ONU” (la foglia di fico per tutte le potenze), e soprattutto senza comando USA. Su questo il programma elettorale della “Cosa rossa” è esplicito: le missioni militari all’estero vanno bene, purché fuori dal quadro Nato.
Non si tratterebbe di ritirare le truppe all’estero né di ridurle, ma avere un impegno militare più indipendente dagli Stati Uniti una politica estera “alternativa”, ma non meno imperialista. La sinistra arcobaleno non si oppone all’imperialismo italiano, ma lo vuole collocato in un diverso schieramento imperialista. Se l’imperialismo europeo diventasse un polo politico e militare indipendente, ne sarebbero accesi paladini.
Noi siamo per la lotta contro lo sfruttamento e per il rovesciamento del dominio del capitale, sia all’interno che all’estero; la nostra opposizione alle missioni militari è parte della lotta per l’emancipazione dei lavoratori e per l’affermazione di una società senza sfruttamento né guerre.