On
line « Il Punto » di Stefano Folli
La
discontinuità rispetto al centro destra è nel ritiro dall’Iraq, estenderla è un
errore
Stupiscono le reazioni meravigliate alle parole di Massimo D’Alema. Lasciando
intravedere le sue dimissioni se la politica sull’Afghanistan non fosse
accettata dalla maggioranza, il ministro degli Esteri non ha fatto che ribadire
una linea già annunciata nelle scorse settimane. La si può riassumere così:
sulle scelte di fondo la coalizione deve dimostrarsi autosufficiente. Non può
dipendere dalla convergenza anticipata da Casini e ora annunciata da Berlusconi
a nome dell’intera Casa delle Libertà. I voti del centro destra possono essere
aggiuntivi ed è certo positivo che lo siano, almeno in politica estera. Ma se
fossero invece determinanti, in quanto sostitutivi di un pezzo di maggioranza
riottosa, allora nascerebbe un problema politico molto serio, tale da innescare
conseguenze incontrollabili.
In parole più chiare: l’equilibrio di governo non reggerebbe più. E non tanto
per le dimissioni del ministro degli Esteri, o di quello della Difesa, quanto
per l’impossibilità, all’interno del centrosinistra, di condividere una
politica estera euro atlantica. Il che esporrebbe l’Italia a una pessima figura
sul piano internazionale, presso alleati e amici.
Non si può infatti dimenticare che la missione in Afghanistan si svolge nel
quadro della Nato e dell’Onu, oltre a essere il primo vero test del rapporto
fra l’Italia di Prodi e l’America di Bush.
L’insistenza del ministro degli Esteri è dunque un modo, forse il solo
possibile, per fermare sull’uscio i dissidenti del centrosinistra. Ma in realtà
la vera questione, su cui può ancora inciampare la maggioranza, riguarda la
cosiddetta « exit strategy » . Si pretende, da parte della sinistra un tempo chiamata « antagonista »
, un riferimento esplicito alla necessità di predisporre il ritiro anche da
Kabul. Si chiede che tale riferimento sia contenuto nella « mozione di
indirizzo » , una sorta di cornice che dovrebbe accompagnare il provvedimento
destinato a finanziare di nuovo la missione.
E’ qui il nocciolo della
controversia, assai più che nei distinguo ideologici di un manipolo di
anti-americani. La « discontinuità » rispetto a Berlusconi, tanto
invocata a sinistra, è già nel ritiro dall’Iraq.
Questa è la tesi di D’Alema e Prodi.
Pretendere di applicare la ricetta Iraq al resto delle missioni all’estero è un
nonsenso, oltre che un pericoloso esercizio di masochismo.
Oltretutto nel famoso programma dell’Unione non si trova traccia di un simile
impegno.
L‘ « exit strategy » in
Afghanistan è inaccettabile per gli americani. E lo è anche per il governo ulivista,
a meno che non si tratti di un gioco di parole. Vorrebbe dire incamminarsi in
direzione opposta rispetto alle richieste che vengono dall’Alleanza Atlantica,
dall’Onu ( si veda Kofi Annan ieri a Roma), dagli Stati Uniti. Equivarrebbe a
consegnare all’estrema sinistra la guida politica della coalizione, in una
chiave destinata a isolare l’Italia nel mondo occidentale.
Ha ragione il radicale Capezzone quando afferma: « anziché parlare solo di exit strategy, sarebbe meglio
avere una strategy » . Una strategia per restare in Afghanistan facendo
fronte alle nostre responsabilità, in pieno accordo con gli alleati. Infondo è giusto evocare lo spagnolo
Zapatero. Zapatero è lo stesso statista che, rientrando da Baghdad, ha rafforzato l’impegno della
Spagna in Afghanistan. Tante volte ricordato dalla sinistra pacifista per il suo
ritiro repentino dall’Iraq. Ma Pagando un tributo di sangue non indifferente:
ancora pochi giorni fa un soldato è stato ucciso.
Il ministro degli Esteri è su questa posizione. Cita lo Zapatero afgano e non solo
quello iracheno. Vorrebbe che la sinistra pacifista facesse lo stesso, con maggiore
onestà intellettuale. Ed è convinto, D’Alema, che sulla missione a Kabul
l’Italia del centrosinistra si gioca gran parte della sua credibilità
internazionale. Prodi lascia fare. In questo caso al presidente del Consiglio non
conviene assecondare più di tanto la sinistra della sua coalizione. Sa che la
politica estera, accanto alla manovra economica, è il primo passaggio cruciale del
suo governo.