Perché il condono dei debiti non raggiunge lo scopo prefissato

<109790743">G-8, Africa           Die Welt                              05-07-03

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Sonja Banze, Antonia Beckermann, Ulrich Machold

<109808155">Sono soprattutto Banca Mondiale e Fmi ad approfittare del tanto declamato condono del debito; il vero aiuto per l’Africa sarebbe la libertà di commercio e l’abolizione delle sovvenzioni agricole del ricco Occidente

Lo “storico passo”, l’“Aiuto ai poveri”, l’iniziativa tanto declamata del condono del debito riguarda solo il debito verso le tre maggiori istituzioni tramite cui i paesi ricchi distribuiscono i loro aiuti allo sviluppo, l’International Development Agency (Ida), filiale della Bm, il Fmi e la Banca Africana per lo Sviluppo. Sono esse le uniche a trarne vantaggio, mentre i paesi poveri gravati dai debiti ne pagano il prezzo, dichiara Jonas Bunte, coordinatore politico di “Erlassjahr.de”, una Associazione di Ong [tedesche].

Inoltre, i fondi per gli aiuti allo sviluppo saranno compensati con il condono, cosicché alla fine saranno soprattutto le istituzioni donatrici dei paesi ricchi a stare meglio di prima dato che quasi tutto il credito perso verso i Pvs sarà loro pagato dai membri G-8.

Nel condono non sono comprese 16 altre istituzioni, e neppure i debiti e crediti bilaterali dell’economia privata, per cui il condono riguarda in realtà solo una piccola quota del totale del debito, e non si può parlare come si fa di un condono totale. Ad esempio per la Bolivia viene condonato solo il 24% del debito; per l’Etiopia il 29%.

Inoltre: se un paese africano avrà in futuro $1mn. di debiti in meno, riceverà in cambio $1mn. di aiuti allo sviluppo in meno. La banca invece riceve indietro il milione di dollari dai paesi G-8, per sanare il proprio deficit di bilancio.

L’idea del condono ai Pvs non è né nuova nè particolarmente riuscita: nel 1999 i paesi industrializzati hanno cancellato €70md., parte del debito di 42 dei paesi allora più indebitati, che avessero messo in atto il programma di risanamento imposto dal Fmi. La maggior parte però richiese nuovi crediti e ora solo indebitati come prima; la povertà non è stata ridotta, e in alcuni casi come la Bolivia è anzi aumentata.

Anche in Africa la proposta di Blair non riscuota ovunque consenso, come il Kenia, il cui ministro allo sviluppo si lamenta che vengano ignorati gli sforzi compiuti dal paese di ammortizzazione del debito.

Non sono finora state fatte concessioni di politica commerciale ai Pvs. Dati i loro bassi costi di produzione, la maggior parte dei Pvs sarebbe in grado di fare concorrenza ai paesi industrializzati con i prodotti agricoli, e costruirsi lentamente con ciò una base economica.

Esempi:

  • I soli Usa sovvenzionano 2000 produttori di cotone con $3-4md l’anno perché siano in grado di contrastare la concorrenza estera, producono troppo e fanno abbassare il prezzo del mercato mondiale  con le loro eccedenza.
Benché i costi di produzione americani siano superiori del 50% a quelli di paesi come Burkina Faso, Mali o Benin, gli agricoltori americani son in grado di offrire il cotone a prezzi inferiori, e sono i maggiori esportatori del mondo. Si calcola che i Pvs perdano annualmente $250mn. in mancate esportazioni.

  • Chi volesse esportare riso in Giappone dovrebbe pagare dazi del 1291% del prezzo di importazione; il 547% per i grano;
  • Il Canada rovina con le sue società di commercio di Stato il prezzo del grano sul mercato mondiale; il regime per lo zucchero della Ue poteva andare bene  anche per l’Urss; per ogni euro guadagnato da un agricoltore europeo, 34 centesimi vengono da sovvenzioni. Ugualmente, gli agricoltori giapponesi, coreani e svizzeri ne ricevono 70, negli Usa 18 centesimi.
  • Secondo i calcoli Wto, se il commercio agricolo fosse completamente liberalizzato, il prodotto sociale lordo dei Pvs crescerebbe di $240md.
  • La Ue, con un sistema bizantino di quote di produzione, di prezzi minimi e di blocco di fatto del commercio tra i suoi paesi riesce a soddisfare il loro fabbisogno, ai paesi esteri non rimane nessuna quota di mercato.
  • Il prodotto in eccedenza della Ue viene buttato sul mercato mondiale a prezzi di dumping, nel solo 2004 pari a 6mn. di tonnellate. Ci sono anche per questo sovvenzioni, perché lo zucchero europeo non potrebbe altrimenti essere venduto.
Per i Pvs continuano a esservi alte barriere commerciali; i ministri dei 50 paesi più poveri del mondo hanno chiesto, nell’incontro in Zambia, il libero accesso a tutti i mercati del mondo, una richiesta che avanzeranno a metà dicembre all’incontro del Wto a Hongkong.

Il congresso Wto di Cancùn è fallito non ultimo per la disputa sul cotone e il veto dei Pvs, che non vollero più accettare una maggiore libertà di commercio senza la facilitazione per le proprie esportazioni agricole.Die Welt            05-07-03
Warum der Schuldenerlaß sein Ziel verfehlt
Auf dem G8-Gipfel wollen die großen Industriestaaten die Schulden der Dritten Welt streichen. Von dem gefeierten Erlaß profitieren aber vor allem Weltbank und IWF. Was Afrika wirklich helfen würde, wären Freihandel und ein Ende der Agrarsubventionen des reichen Westens
von Sonja Banze, Antonia Beckermann, Ulrich Machold
Dem britischen Premier Tony Blair ist seine Insel zu klein geworden. Nach acht Jahren Labour-Regierung läuft die Wirtschaft, die Arbeitslosigkeit ist niedrig, gerade wurde Blair ein zweites Mal wiedergewählt. Auch in Europa sieht sich Blair auf dem richtigen Weg. Zeit genug also, sich nun um den Rest der Welt zu kümmern.
Nichts anderes hat er vor. Während des britischen Vorsitzes der Gruppe der acht wichtigsten Industriestaaten (G8) will Blair vor allem der Dritten Welt helfen. Im Rahmen eines radikalen Schuldenerlasses soll der reiche Westen zugunsten der Ärmsten der Armen auf insgesamt 45 Milliarden Euro verzichten. Auf dem Gipfeltreffen der G8, das ab Mittwoch im schottischen Gleneagels stattfindet, wollen Blair und seine Kollegen den Schuldenerlaß beschließen.
Nun klingt "den Armen helfen" immer gut. In Wahrheit aber ist die gefeierte Initiative zumindest teilweise ein Etikettenschwindel. Der Erlaß bezieht sich nämlich nur auf Schulden bei drei ausgewählten Geberinstitutionen, während Verpflichtungen gegenüber mehr als einem Dutzend anderer bestehen bleiben. Dadurch schrumpft die Entlastung auf einen Bruchteil des großen Ganzen zusamm en. Darüber hinaus wird Geld aus der Entwicklungshilfe mit dem Erlaß verrechnet(compensati con il condono), wodurch am Ende vor allem die Geberinst
itutionen der Reichen besser dastehen könnten als bisher.
Gleichzeitig nimmt der Westen der Dritten Welt durch seine Handelspolitik weiter die beste Chance, sich selbst zu helfen.
Am besten kommen bei dem Schuldenerlaß noch die Weltbanktochter International Development Agency (IDA), der Internationale Währungsfonds (IWF) und die Afrikanische Entwicklungsbank weg, drei der größten Organisationen, über die der Westen seine Entwicklungshilfe verteilt. Denn ihre schon fast als verloren abgeschriebenen Kredite an die Dritte Welt werden nun von den G8-Mitgliedern abbezahlt. 16 andere Institutionen werden allerdings nicht erfaßt, auch bilaterale Schulden und Kredite der Privatwirtschaft gehören nicht zum Deal mit den Armen. Von einer totalen Schuldenstreichung kann damit nicht mehr die Rede sein. Aus einem "100prozentigen" Erlaß wird etwa für Bolivien so ein Abschlag von nur noch 24 Prozent, für Äthiopien sind es 29 Prozent.
Außerdem werden Zins und Tilgung der gestrichenen Schulden mit anderen Zahlungen verrechnet. Hat ein afrikanisches Land also in Zukunft eine Million Dollar weniger an die Weltbank zurückzuzahlen, bekommt es im Gegenzug auch eine Million weniger Entwicklungshilfe. Die Bank dagegen erhält die Million von den G8-Ländern zurück, um das Loch in ihrer Bilanz zu stopfen. "Die drei Institutionen sind die einzigen Gewinner des "historischen Schrittes"", sagt Jonas Bunte, politischer Koordinator von "Erlassjahr.de", einem Bündnis von Nichtregierungsorganisationen. "Sie können schwer einbringbare Forderungen aus ihren Büchern streichen und erhalten für ihr operatives Geschäft in voller Höhe Ausgleichszahlungen von den reichsten Ländern der Erde. Den eigentlichen Preis dafür zahlen die überschuldeten armen Länder."
Wobei schon die Grundidee einer Entschuldung der Entwicklungsländer weder besonders neu noch erfolgreich ist. Mit knapp 70 Milliarden Euro strichen die Industriestaaten bereits seit 1999 in einem ersten Schritt mehr Verbindlichkeiten aus ihren Büchern, als jetzt zur Debatte stehen. 42 der damals am stärksten verschuldeten Länder wurde ein Teil ihrer Schulden erlassen, wenn sie vorher ein vom IWF verordnetes Sanierungsprogramm absolvierten. Die meisten allerdings nahmen gleich neue Kredite auf – und stehen jetzt ebenso tief in der Kreide wie vorher. Die Armut wurde durch den Schuldenabbau kaum reduziert, in Einzelfällen, wie in Bolivien, nahm sie sogar weiter zu. Schuldenexperte Jonas Bunte sieht dafür vor allem einen Grund: "Diese Initiative war ein Fehlschlag, weil sie nicht weitreichend genug war. Deswegen müssen heute dieselben Länder entschuldet werden wie 1999."
Selbst in Afrika wurde Blairs Vorschlag daher nicht überall mit Begeisterung aufgenommen. So kritisierte Peter Anyang Nyongo, Kenias Minister für nationale Entwicklung, daß seine erfolgreichen Anstrengungen zur Schuldentilgung konsequent ignoriert würden. Dafür gelte die Aufmerksamkeit des Westens jetzt wieder den Ländern, die dies nicht schafften oder gar nicht erst versucht hätten.
Dagegen wird ein für die Entwicklungsländer mindestens ebenso wichtiges Thema in Gleneagles wohl wenig diskutiert werden: der Welthandel. "Schulden streichen ist schön und gut", sagt Peter Nunnenkamp, Ökonom beim Münchener Ifo-Institut für Wirtschaftsforschung. "Andererseits werden bisher kaum handelspolitische Zugeständnisse gemacht. Es wäre immens wichtig, diesen Ländern die Chance zu geben, ihre Produkte richtig zu vermarkten."
Denn in Zeiten der Globalisierung hat Armut eben auch Vorteile. Aus niedrigen Lebensstandards ergeben sich niedrige Kosten, die wettbewerbsfähig machen. Besonders bei landwirtschaftlichen Produkten könnten die meisten Entwicklungsländer leicht mit den Industriestaaten konkurrieren und sich so langsam eine produktive Wirtschaftsbasis zulegen.
Wenn man sie denn ließe. Denn wo eigene Arbeitsplätze anfangen, hört das Mitleid mit der Dritten Welt schnell auf. Und so subventionieren allein die USA ihre nur 2000 Baumwollfarmer mit drei bis vier Milliarden Euro im Jahr, um die Konkurrenz von außen zu bekämpfen. Die bauen daher viel zu viel an und drücken mit dem Überschuß die Weltmarktpreise. Obwohl die amerikanischen Produktionskosten eigentlich um 50 Prozent über denen in Staaten wie Burkina Faso, Mali, oder Benin liegen, können sie billiger anbieten als die Afrikaner und sind so die größten Baumwollexporteure der Welt. Allein das kostet die Entwicklungsländer jährlich 250 Millionen Dollar an Exporterlösen.
Und die Liste solcher Absurditäten ist lang. Wer allen Ernstes Reis nach Japan liefern wollte, müßte Zölle in Höhe von 1291 Prozent des Importpreises zahlen, auf Weizen lasten 547 Prozent. Kanada verdirbt mit seinen Staatshandelsgesellschaften die Weizenpreise am Weltmarkt, das Zuckerregime der Europäischen Union (EU) hätte es so auch problemlos in der Sowjetunion geben können. Von jedem Euro, den ein europäischer Bauer verdient, kommen 34 Cent aus Subventionen. In Japan, der Schweiz und Korea sind es 70, in den USA 18 Cent. Nach Berechnungen der Welthandelsorganisation (WTO) würde das Bruttosozialprodukt der Entwicklungsländer bei vollständiger Liberalisierung des Agrarhandels um bis zu 240 Milliarden Dollar steigen.
Zwar dürfen einige Staaten der Karibik bereits jetzt Zucker in die EU exportieren. Den Garantiepreis der Europäer dürfen sie jedoch kaum unterbieten, was sie ihres wichtigsten Vorteils beraubt. Und da die EU mit einem byzantinischen System aus Produktionsquoten, Mindestpreisen und der faktischen Blockade des Handels zwischen den EU-Staaten ihren eigenen Bedarf straff geplant selbst abdeckt, bleiben den Ausländern auch kaum Marktanteile. Was die EU zuviel produziert, wirft sie übrigens zu Dumpingpreisen auf den Weltmarkt, allein 2004 rund sechs Millionen Tonnen. Auch dafür gibt es wieder Zuschüsse, weil der Europa-Zucker sonst gar nicht verkäuflich wäre. Dank des Überangebots sinkt dann auch noch der Weltmarktpreis, was die armen Agrarländer nochmals schädigt.
"Die Entwicklungsländer stehen unverändert vor hohen Handelsbarrieren", sagt OECD-Agrardirektor Stefan Tangermann . "Da gibt es noch großen Nachholbedarf." Bei ihrem Treffen in Sambia am vergangenen Sonntag hatten die Minister der 50 ärmsten Länder der Welt denn auch nur eine einzige Forderung: Freien Zugang zu allen Märkten der Welt.
Damit bringen sie sich in Stellung für das geplante WTO-Ministertreffen in Hongkong Mitte Dezember. 2001 hatten sich die Mitgliedstaaten der Welthandelsorganisation in Katar auf eine neue Handelsrunde geeinigt. Doch seitdem hat sich wenig getan. Die Gespräche 2003 im mexikanischen Cancún scheiterten – nicht zuletzt am Streitfall Baumwolle und dem Veto der Entwicklungsländer, die mehr Freihandel ohne echte Erleichterungen für ihre Agrarexporte nicht mehr hinnehmen wollten.
Durch Zugeständnisse vor allem der Europäer sind die Chancen für einen Kompromiß aber zuletzt wieder gestiegen. Künftig will die EU auf alle Exportsubventionen verzichten. Einzige Bedingung: Alle anderen müßten das auch tun. Vielleicht sollte Tony Blair das
am Mittwoch einmal ansprechen.
Artikel erschienen am 3. Juli 2005   © WAMS.de 1995 – 2005

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