La manchette on line della rivista messicana «Proceso» spiega meglio di un trattato la situazione e l’aria che tira in Messico dopo l’umiliante accordo imposto da Trump al proprio patio trasero, che si potrebbe tradurre in “cortile” o “giardino dietro casa”: “Ora sì, come molti temevano e alcuni presagivano, il Messico diventa il cortile degli Stati Uniti. Il luogo in cui lavare gli abiti sporchi, gettare gli stracci, buttare la spazzatura, costruire un filo spinato per difendere il quartiere nordamericano dalla minaccia centroamericana. Donald Trump non dovrà più preoccuparsi di costruire e finanziare il suo muro; Il Messico si è fondato su di esso. Saremo la barriera tra gli immigrati e un presidente che li presenta come una minaccia alla sicurezza nazionale. Ci occuperemo della caccia, fermando, deportando e trattenendo tutti coloro che passano di qui, alla ricerca di sicurezza e opportunità che non si trovano nel loro stesso paese. Faremo con gli honduregni, i salvadoregni e i guatemaltechi quello che gli Stati Uniti fanno con i nostri migranti: criminalizzarli e perseguitarli. E accettando questo nuovo accordo, potremmo salvare la libertà di commercio, ma a spese della coerenza e della dignità”.
L’accordo siglato il 7 giugno tra i due paesi ha posto condizioni umilianti al Messico: in cambio della non imposizione di “aranceles”, ovvero dazi crescenti alle esportazioni Mex-USA a partire dal 10 giugno, il Messico ha dovuto irrigidire i controlli alla frontiera col Guatemala (invio di seimila militari della Guardia Nacional) per fermare gli ingressi e accettare un monitoraggio trimestrale (Trump lo esigeva dopo 45 giorni) al fine di verificare sul campo la diminuzione dei flussi migratori. Mike Pompeo ha detto senza mezzi termini che, qualora il monitoraggio dia un responso non soddisfacente, le aranceles partirebbero.
Trump ha poi iniziato un bombardamento di tweet rivendicando la vittoria politica per aver imposto le proprie condizioni al governo messicano, ed annunciato di voler procedere ad un non meglio precisato “accordo supplementare”. Da più parti in Messico si fanno notare le condizioni di totale subalternità alIe pressioni di Trump, nonostante i toni trionfalistici del capo delegazione Ebrard e dello stesso presidente AMLO (entrambi della coalizione Morena, socialdemocratica). Il governo messicano continua a dichiarare di non aver intenzione di reprimere
A pagare questa situazione sono le migliaia di migranti usati come moneta di scambio, come denuncia il Consejo dell’Instituto Nacional de Migración di Città del Messico. La militarizzazione della frontiera sud ha portato a fermi e reclusioni e alla saturazione dei centri di detenzione in Chiapas. Dall’inizio anno ad oggi sono più di 10mila i migranti già in territorio statunitense restituiti al Messico.
Anche lo stato italiano è in prima fila nella repressione contro i lavoratori migranti, sia facendo il lavoro sporco in prima persona criminalizzando, incarcerando e deportando gli immigrati irregolari e chi li aiuta o soltanto li salva dall’affogamento (operazione portata avanti in prima persona non solo dall’attuale ministro degli interni Salvini, ma anche dal suo predecessore Minniti), sia subappaltando la repressione ai paesi del Nord Africa, come facevano ieri i governi Prodi e Berlusconi col regime di Gheddafi e come hanno fatto poi i loro successori con le milizie libiche o come farà ora Trump col governo messicano.
Ma per forte che sia, la repressione non può fermare le migrazioni, che sono il risultato inevitabile dello sviluppo capitalista che acuisce le disegualianze – sociali e territoriali – e rende più facili gli spostamenti. Del resto il razzismo di stato italiano mira innanzitutto a rendere più ricattabili non solo i lavoratori stranieri, ma anche quelli autoctoni, oltre che a dividerli e metterli gli uni contro gli altri.
Per questo lottare contro le politiche che perseguitano i migranti – regolari o meno – è interesse di tutti i lavoratori.