Come è noto nel capitalismo le grandi disgrazie aumentano il Pil e i profitti.
Dopo le guerre, i terremoti, le catastrofi naturali c’è l’affarone della ricostruzione, la corsa alle commesse e ai finanziamenti di stato. I morti entrano nelle statistiche, i profitti nelle casse di chi ricostruisce.
Nella caterva di polemiche che ha trasformato il crollo del ponte di Genova in una passerella mediatica per politici nel più smaccato stile berlusconian-renziano, è emersa, però, una proposta più generale, quella di nazionalizzare le autostrade.
Proposta apparentemente “nuova” perché veniamo da un periodo in cui hanno prevalso ideologie liberiste, figlie di periodi di crescita economica vivace. Proposta antica se si guarda alla storia italiana dal 1932 al 1980 almeno, in cui il capitalismo di stato ha giocato un ruolo non indifferente. E per questo arco di tempo considerevole, proposta trasversale, avanzata da Fratelli d’Italia come a Rifondazione, passando per Di Maio, una ricetta capace di piacere quindi, sia pure con diverso retroterra ideologico, ai nipotini del fascio come ai nipotini di Stalin.
Fincantieri entra in lizza
Non stupisce che Di Maio abbia cavalcato la disgrazia per permettere sotto accusa Autostrade, il gruppo Bennetton socio di maggioranza e il PD suo sponsor politico.
Candido ha dichiarato: “ noi da Bennetton soldi non ne abbiamo presi” (altrimenti sarebbe stato più morbido?). In effetti Salvini non può dire la stessa cosa, così come non può negare di aver firmato il rinnovo ad Autostrade. Di Maio scopre le virtù di Fincantieri, azienda indebitata e alla ribalta in questi giorni per la chiaccherata ipotesi di
collaborazione con la francese Naval Group e per i malumori con Finmeccanica. Suscitando subito le critiche pesanti di Giorgetti (Lega) e di Toti (Forza Italia ma vicino alla Lega, presidente della Liguria e Commissario straordinario) cui i pentastellati vogliono riservare solo la grana degli sfollati e della demolizione del ponte, riservandosi invece la concessione degli appalti. Di Maio propone anche di evitare la gara europea, per non farsi “colonizzare” e di assegnare l’incarico a Fincantieri per decreto legge. In passato Fincantieri si è servita di Belsito (quello del furto di 50 milioni allo Stato che inguaia Salvini) per mediare con la Libia; con la sua mossa Di Maio cerca di erodere il legame privilegiato fra Lega e mondo industriale, anche pubblico (sono noti i finanziamenti di Finmeccanica a Salvini). Insomma niente di nuovo sotto il sole.
Nazionalizzazioni e infrastrutture nella storia italiana
Il capitalismo di stato ha una lunga storia in Italia, è decollato nel periodo fascista come reazione alla crisi del ’29, tanto da trasformare l’Italia in un paese in cui lo stato controllava circa il 40% di banche e industrie, secondo nel mondo solo all’Urss. E’ proseguito nel secondo dopoguerra sotto i vari governi democristiani e di centro sinistra. Ancor oggi, nonostante le privatizzazioni, è ancora una componente importante dell’economia nazionale.
L’ideologia con cui questa ricetta viene cucinata è che queste aziende pubbliche sarebbero meno corrotte e più sociali perché sottratte agli speculatori privati
La storia anche solo italiana dimostra che non è vero, anzi nel secondo dopoguerra le banche e le imprese statali sono state la greppia cui si sono nutrite le clientele dei vari partiti, nessuno escluso, in proporzione al loro peso elettorale.
Nazionalizzare e privatizzare hanno avuto in comune una ricetta aurea: socializzare le perdite e privatizzare i profitti, ricetta che ha sempre avvantaggiato il capitale privato. Dal fascismo alla democrazia lo stesso principio guida, basato anche su una specifica carenza italiana nella disponibilità di capitali, per cui lo stato funge da capitalista collettivo preferibilmente nelle situazioni di crisi e sempre da finanziatore a basso costo e rastrellatore del piccolo risparmio (basta pensare alla funzione delle Poste, dell’Inps ecc.).
Tutto questo vale anche per le infrastrutture e quindi anche per le Autostrade.
Su cui in più pesa un’altra eredità storica del secondo dopoguerra: la scelta italiana per il trasporto su gomma e non su rotaia, imposta dalla Fiat grazie al peso del suo lobbismo politico. Terzo fattore storico lo sviluppo dei mezzi di comunicazione è molto legato ai potentati locali e non risponde a un piano nazionale.
Le nazionalizzazioni dallo stato liberale al fascismo
E’ quest’ultimo fattore a pesare di più al momento della unificazione politica (1861). Strade e ferrovie sono stati costruiti all’interno degli stati e staterelli in cui l’Italia era divisa, rispecchiandole l’estrema disomogeneità. Il nuovo stato privilegia la costruzione di alcuni tratti ferroviari che da nord a sud riuniscano fisicamente il paese, a danno delle comunicazioni ovest/est ostacolate anche dalla presenza degli Appennini.
Il boom ferroviario coincide con l’avvento al governo della Sinistra storica: 6500 nuovi km di rotaia fra il 1881 e il 1895 intorno ai quali si scatenano furibondi scontri politici per ottenere che il treno tocchi alcuni centri urbani piuttosto che altri.
La qualità scadente del servizio e prezzi troppo alti soprattutto nel trasporto merci portano alla decisione presa nel 1905 di nazionalizzare le ferrovie,che all’epoca raggiungeva i 10.528 km. Solo lo Stato era in grado di affrontare la spesa di sostituire il materiale rotabile obsoleto e di introdurre l’elettrificazione, cui la prima guerra mondiale diede ulteriore impulso (460 km elettrificati nel 1920).
Il primo governo Mussolini ridusse il personale (da 226 a 174 mila unità), accelerò l’elettrificazione (da 460 a 5160 km entro il 1939) e puntò decisamente sulle ferrovie come vetrina su cui esibire modernità ed efficienza dell’Italia fascista sia all’estero (con la realizzazione dell’elettromotrice ETR 200 ad es.) che verso l’interno (ad esempio. la creazione dei treni popolari destinati al turismo di massa)
Anche le autostrade vengono realizzate negli anni ’20 come elemento propagandistico che rafforzasse l’immagine popolare del regime. La Milano-Laghi è inaugurata nel 1925 quando in Italia circolano 84 mila vetture (una ogni 450 abitanti – oggi ne circolano 2 ogni 3 abitanti). Nel 1940 la rete autostradale raggiunse i 500 km., col plauso dei settori industriali, da Agnelli a Pirelli a Pesenti. Essendo la sua gestione largamente in perdita , se la accollò lo Stato. Anche le autostrade, come i tratti ferroviari, furono costruite subendo le pressioni dei potentati locali, senza un piano organico su scala nazionale.
Il secondo dopoguerra
I bombardamenti distrussero nel corso della seconda guerra mondiale il 25% dei binari, il 32,1% dei ponti (4750) e il 40% dei treni e delle locomotive, ma già nel 1948 si era ripristinato l’80% delle infrastrutture. Pur in modo non teorizzato, però, dagli anni’50 si comincia, con il piano Romita, a dare la preferenza ai trasporti su ruota, una scelta fortemente voluta da un blocco industriale che va dalla Fiat all’Italcementi, dalla Pirelli all’Italstrade, ma anche le imprese petrolifere e quelle assicurative, interessate direttamente allo sviluppo delle autostrade e riunite, a partire dal 1952, nella Federazione italiana della strada. Negli anni ’60 il trasporto su rotaia risulta ormai irreversibilmente obsoleto, salvo per alcuni esperimenti destinati all’elìte, che puntava alla velocità sulla tratta privilegiata Milano-Roma, ad es. il Settebello della Breda. Masi dovrà attendere il 1992 per la prima linea ad alta velocità su treno,fatta eccezione il Pendolino Roma Ancona del 1976.
Nel 1970 la motorizzazione di massa incrementò gli investimenti nel trasporto su gomma sulle lunghe distanze e quindi nelle autostrade che passano dai 479 Km del 1948 ai 5329 del 1975.
Il criterio dell’aggiudicazione mediante licitazione privata degli appalti per la costruzione dei vari tratti, privo di una precisa regolamentazione, fu caratterizzato da ampi fenomeni di corruzione. La spesa complessiva per le autostrade f u enorme, arricchì I privati gravando interamente sulla finanza pubblica, cioè sui lavoratori che pagavano le tasse; inoltre l’attenzione concentrata sulle autostrade portò alla scarsa manutenzione delle strade ordinarie. Nel 1973 l’Italia risultava terza dopo Usa e Germania per lunghezza della rete autostradale.
Nei primi anni ’90 inizia l’ondata di privatizzazioni che riguarda banche, imprese e anche infrastrutture; a vendere è il Tesoro, ma anche l’Iri e ai privati vengono vendute o meglio svendute a prezzi di favore attività, con l’intento di mettere una pezza alla voragine del debito pubblico e fare dell’Italia un paese adatto ai criteri di Mastricht. Dentro questo processo, di recente ricordato e fatto oggetto di anatema, si colloca la cessione alla famiglia Benetton di Autostrade che in circa anni porta a casa profitti per 10 miliardi, come è logico a vantaggio dei suoi azionisti e a danno della manutenzione e dei cittadini che pagano i pedaggi e qualche volta muoiono anche. Politici e faccendieri dell’intero arco costituzionale si sono arricchiti nel processo di passaggio.
Possiamo stare certi che nel processo inverso che oggi si invoca succederà la stessa cosa, con la differenza che si accolleranno direttamente allo Stato e quindi agli stessi cittadini (almeno a quelli che le tasse le pagano,cioè fondamentalmente i lavoratori) i costi della ricostruzione e delle bustarelle connesse.
Per questo aggiungersi a chi invoca le nazionalizzazioni oggi è ancora una volta portare acqua al mulino di questo sistema, anche se da parte di alcuni della sinistra è introdotto il correttivo del “nazionalizzare… senza indennizzo e sotto il controllo dei lavoratori, a garanzia della sicurezza pubblica”. Pletore di avvocati e di faccendieri impediranno, stando questo sistema che il correttivo si concretizzi.
Meglio allora combattere perché le tragedie come il ponte Morandi non siano pagate dal proletariato con doppi e tripli turni di lavoro come sta avvenendo ai portuali, con la cassa integrazione e i tagli sulla sicurezza e i posti di lavoro.