
Nel caos crescente dei rapporti inter-imperialistici, è sempre più evidente che la tendenza alla
guerra è ormai dominante e guida le mosse di tutti gli Stati, a partire dalle grandi potenze.
Il declino dell’egemonia degli USA e l’emergere della Cina, potenzialmente in grado di insidiarne
la leadership mondiale, ha assestato un colpo mortale alla vecchia divisione del mondo, avviando
la fase della sua ridefinizione globale e lasciando intravvedere la prospettiva di un conflitto
mondiale dalle conseguenze apocalittiche.
La guerra in Ucraina fra NATO e Russia, che nonostante il cambio di rotta impresso da Trump
continua a seminare lutti e devastazioni, ha segnato il punto di non ritorno nel crollo dei vecchi equilibri. La svolta della nuova amministrazione USA sulla guerra in Ucraina, l’imposizione di dazi
contro la Cina, l’UE (in parte sospesi) e gli altri paesi, le contromisure di Pechino e l’atteggiamento
della Commissione Europea, stretta fra la necessità di reagire e la spinta a negoziare, si inscrivono
in questo quadro.
Il processo di riarmo investe tutti gli Stati. In Europa, i piani di potenziamento dell’industria bellica e
di conversione al militare di importanti settori manifatturieri guidano il varo dell’economia di guerra.
Il progetto “Rearm Europe” di 800 miliardi si affianca, in una prospettiva tuttora confusa, ai
propositi di incremento della quota del PIL destinata alla spesa militare e ai piani di riarmo decisi
dai singoli paesi. Nel rimescolamento degli equilibri in atto, l’unica certezza che guida le classi
dominanti è che la difesa dei rispettivi interessi di sfruttamento e del proprio status internazionale
potrà essere assicurata solo da una forza militare in espansione.
L’aggressività dell’amministrazione Trump verso gli stessi alleati, tuttavia, non prefigura un
disimpegno americano dallo scacchiere europeo, quanto piuttosto una stretta verso un’alleanza
capace di mettere fine ad ogni velleità del Vecchio Continente di costituire un polo imperialistico
concorrente. Un disegno, quest’ultimo, già largamente compromesso da due fattori: il brusco
troncamento delle relazioni economiche fra Europa e Russia, che la Germania per prima ha
accettato senza reagire; i contrastanti interessi imperialistici che la BCE e le istituzioni della UE
non hanno permesso di superare.
Il processo di riarmo e la disposizione ad uno scontro crescente sui mercati e nelle relazioni
interstatali implicano il rafforzamento della repressione sul fronte interno, anche in funzione
preventiva, come ha dimostrato la conversione del DDL 1236 in decreto-legge e la sua immediata
approvazione, resa possibile dal lavoro coordinato del tandem Meloni-Mattarella.
Contemporaneamente, prendono corpo i tentativi di tutto l’arco parlamentare di riposizionarsi
politicamente nel nuovo scenario. Dentro la maggioranza, Lega e FdI si presentano su posizioni
apparentemente divaricate:
- il partito di Salvini è totalmente appiattito sul nuovo corso trumpiano, dipinto come pacifista;
- Meloni, a capo del governo e garante dei suoi equilibri, è costretta a barcamenarsi fra riconferma del sostegno all’Ucraina e adesione “senza panico… per i dazi” alla linea USA, esibendo piglio da statista quando millanta la possibilità di agire da pontiere fra le due sponde dell’Atlantico. Al di là dei calcoli elettoralistici fra i due partiti di governo, resta innanzitutto l’interesse a privilegiare le rispettive cordate capitalistiche: Crosetto, ministro della guerra e terminale delle industrie di morte, ha appena dichiarato, fregandosi le mani, che raggiungere il 2% del PIL “è solo l’inizio”; Salvini, invece, dopo aver dichiarato che carri armati, droni e missili devono essere “italiani d.o.c.”, si appresta a riattivare i contatti con il mondo degli affari in Russia.
Si tratta, in ogni caso, di operazioni utili per tener i piedi in quante più scarpe è possibile, arte nella
quale la borghesia italiana è da sempre maestra indiscussa.
Quanto ai partiti di “opposizione”, il tratto comune è che non si oppongono al riarmo, ma cavillano
sulle caratteristiche che esso dovrà avere. Il PD è attestato sulla linea del sostegno a Zelensky
“fino all’ultimo ucraino” e sulla necessità che il riarmo sia condotto in chiave europea: esercito
europeo, carri armati europei, caccia europei, come se un esercito europeo non fosse altrettanto
imperialistico e reazionario dei singoli eserciti nazionali. Oltretutto queste dichiarazioni servono a
“nascondere” il sostegno al riarmo con una patina di retorica sulla pace, pronta a cadere, come è
già caduta, quando si porrà il problema di adeguare l’armamentario bellico dell’Italia nei soli modi
che i rapporti interni alla UE permetteranno.
Il movimento 5 Stelle, a sua volta, ha promosso la manifestazione di Roma, una mossa politica
certamente abile – e indubbiamente riuscita, visti i numeri della piazza – per accreditarsi come
sostenitore del “pacifismo”. L’abilità sta nell’aver saputo intercettare un settore di quell’ampia fascia
della popolazione che – come dimostrano molti sondaggi – non è favorevole alla guerra, che non è
disposta ad arruolarsi. Senza cadere in ingannevoli contrapposizioni tra capi e masse, non c’è
dubbio che nella piazza del 5 aprile ci fossero migliaia di nostri potenziali interlocutori, ai quali
rivolgerci mostrando, come facciamo qui, che non è sotto la guida di Conte che potranno dare
una coerente espressione pratica al loro essere contro la corsa alla guerra.
Perché? Ma perché Conte e i 5 Stelle hanno votato l’invio di armi in Ucraina e l’innalzamento al 2%
del PIL delle spese militari. Non si tratta solo di colpe del passato, dal momento che lo stesso
Conte ha recentemente dichiarato di essere a favore della “razionalizzazione” della spesa militare,
così come ha sostenuto che la piazza del 5 aprile è la nuova base di partenza dell’opposizione al
governo delle destre, alludendo, evidentemente, all’alleanza con il PD. Ma il PD non è forse un
partito guerrafondaio dalla testa ai piedi? E la Schlein non ha forse raccomandato alla Meloni in
partenza per Washington: non essere remissiva, difendi “i nostri interessi”?
Ed è proprio qui, secondo noi, il punto: ciò che unisce Cinquestelle e PD, al di là delle sfumature o diversità di opinioni su questo e su quello, è lo sforzo di cavalcare l’ostilità popolare alla guerra in chiave apertamente nazionalistica. Ma essere per la difesa attiva, come vogliono entrambi, degli
interessi del capitalismo italiano, delle imprese e degli interessi italiani, è comunque gettare altra
benzina sul fuoco della corsa alla guerra, non mettersi di traverso a questa tendenza. Per averne
la controprova, i manifestanti più genuini del 5 aprile dovrebbero sfidare l’accoppiata Conte-Schlein
a sconfessare tutto ciò che hanno fatto finora, e ne resterebbero amaramente delusi.
Del resto, guardiamo cosa è successo sul caso di Gaza. Dopo aver garantito un sostanziale, e
anche formale, sostegno all’azione di Israele, al genocidio che il regime sionista sta perpetrando
da un anno e mezzo a Gaza e alla pulizia etnica in Cisgiordania, le forze di “opposizione” si
riuniscono per sostenere, sommessamente, che bisognerebbe finirla (il defunto papa, a riguardo, è
stato sicuramente più esplicito di loro). Senonché sostenere che la soluzione della questione
palestinese passa per la linea “due popoli, due stati”, che tutti sanno essere materialmente
impossibile, tanto più se accompagnata dal solenne riconoscimento delle “esigenze di sicurezza di
Israele” (!), fa parte delle stucchevoli, ipocrite recite a bassi scopi elettorali per pescare qualche
voto tra la gente inorridita dai crimini sionisti.
È nostro dovere, allora, lavorare per costruire uno schieramento che si opponga realmente, in
modo coerente e militante, alla tendenza verso la guerra, al riarmo, all’economia di guerra, alla
“soluzione finale” che Israele sta costruendo giorno dopo giorno con l’appoggio totale e costante
degli USA, dell’UE e di tutte le potenze imperialiste, e con la complicità dei regimi arabi che, dietro
le dichiarazioni di facciata, lavorano alla normalizzazione dei rapporti coi sionisti.
Si tratta quindi di approfondire e generalizzare la battaglia che abbiamo condotto finora, sia come
Rete Libere/i di Lottare che come realtà politiche, sociali e sindacali. Una battaglia che, come abbiamo sempre sostenuto, sappia unire nella denuncia e nella lotta ciò che è effettivamente unito
nella realtà, e cioè la tendenza alla guerra, l’attacco alle lavoratrici e ai lavoratori con l’avanzare
dell’economia di guerra, il varo di misure da stato di polizia, come il decreto-“sicurezza” e quelli che
sono in cantiere, utili a colpire ogni mobilitazione che si opponga al governo e alla militarizzazione
e si muova per organizzare i proletari e tutti i settori sociali colpiti, dai disoccupati, agli studenti, a
quanti lottano contro gli sfratti, i disastri ambientali (dalle alluvioni al bradisismo), le grandi opere
inutili e dannose.
Non è possibile separare questi piani, pretendendo di lottare contro l’instaurazione dello stato di
polizia senza denunciare che esso si impone per la necessità di instaurare una disciplina bellica,
senza contrastare la tendenza alla guerra che vede l’Italia protagonista in prima persona, fuori e
dentro l’UE.
In questa direzione sono andate la manifestazione di Milano del 12 aprile e lo sciopero generale di
venerdì 11 proclamato dal SI Cobas, che ha bloccato i porti di Genova e Napoli, l’interporto di
Bologna, la Maersk a Rubiera e moltissimi magazzini di logistica sul territorio nazionale. Questa è
la strada da seguire, lavorando in modo maggiormente sinergico tra quanti condividono l’urgenza
di opporsi alle tendenze qui descritte, già a partire dagli appuntamenti di piazza del 25 aprile e del
Primo Maggio. Si tratta anche di prepararsi a nuove iniziative di mobilitazione affinché settori
crescenti di lavoratrici e lavoratori si mettano realmente di traverso ai piani di guerra dei governi,
unendo la lotta contro il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro, i licenziamenti, la
precarietà, l’inflazione, alla lotta contro il riarmo, l’economia di guerra, lo stato di polizia, il
genocidio del popolo palestinese, bloccando realmente l’economia e il traffico delle merci,
colpendo i padroni e la logistica di guerra.
In ultimo rivolgiamo un saluto solidale ad Anan, Alì e Mansour, partigiani della causa palestinese
che stanno affrontando un processo farsa qui in Italia; ad Enrico, storico militante ed esponente del
SI Cobas in Emilia-Romagna, che ha cominciato a scontare la pena di due anni di domiciliari per il
suo instancabile impegno al fianco dei lavoratori e dei movimenti di lotta anti-capitalisti; a Massimo,
storico militante dell’area anarchica del Trentino, condannato a due anni di carcere per avere, tra
l’altro, manifestato contro Salvini; ai 43 tra disoccupati organizzati, sindacalisti del SI Cobas,
solidali e militanti della TIR e di Iskra che il 2 maggio affronteranno una nuova udienza del
maxiprocesso a loro carico; a tutti i compagni e le compagne ristretti o denunciati o perseguiti per
le battaglie che consideriamo nostre, a cominciare da quelle in solidarietà con il popolo e la resistenza palestinese. Chi tocca uno, tocca tutti, per noi non è una bella frase: è un elementare dovere di classe.
È anche per loro che abbiamo attivamente partecipato alla promozione del Forum internazionale
contro la repressione e la persecuzione politica che si svolgerà sabato 26, e coinvolgerà organismi
di lotta e organizzazioni sindacali, politiche, per i diritti umani di oltre 25 paesi e quattro continenti.
Anche nella lotta all’instaurazione di regimi di polizia per le necessità della corsa alla guerra e
all’economia di guerra la dimensione internazionale dell’azione è un elemento imprescindibile ed
irrinunciabile.
24 aprile
Tendenza internazionalista rivoluzionaria
Laboratorio politico Iskra
Movimento di lotta “Disoccupati 7 novembre”