ITALIA, IRAQ
CORRIERE Sab.
10/6/2006 Marzio Breda
Prodi
su Kabul: impegno pieno che non verrà meno
ROMA – Prima le polemiche sulla festa del 2 giugno,
accompagnate dalla pretesa di una parte della maggioranza di tingere con
l’arcobaleno pacifista una parata che non può essere altro se non «in divisa»
(come, non a caso, è in ogni Paese del mondo). Poi le tensioni sulla presidenza
della Commissione difesa del Senato, precedute da manovre e duelli politici tra
fronte militarista e antimilitarista, con la minaccia di sbaraccare persino le
gloriose Frecce Tricolori, definite «inquinanti e inutili». Infine il nuovo
attentato al nostro contingente in Iraq, non lontano da Nassiriya, con relativo
bilancio di sangue.
Due settimane vissute in questo modo sono pesanti, per le
forze armate italiane. Ma devono essere state piuttosto difficili anche per il
presidente della Repubblica, che ne è – a norma di Costituzione – il capo. Ieri,
in una giornata scandita da una sua visita ai quattro soldati feriti e dalla
presenza al tristissimo rito funebre nella Basilica di San Paolo per il
caporale ucciso, Alessandro Pibiri, riceve al Quirinale una delegazione della
Marina militare. E nel saluto che gli rivolge l’ammiraglio La Rosa a quanto
pare avverte la perplessità di chi teme di essere trascinato in un dibattito
improprio, per dirla con un eufemismo. Un disagio che, dopo la consegna di un
denso dossier sulle operazioni svolte fuori dai confini, sembra sia culminato
in una domanda rivelatrice: ci dica, presidente, stiamo seguendo «la causa
giusta» oppure no? Così, ecco che Giorgio Napolitano decide di aprire un
ombrello istituzionale in grado di offrire copertura ai militari e forse anche
un provvisorio risarcimento al loro orgoglio offeso. Cita l’articolo 11 della
Costituzione, e stavolta non soltanto nelle famose due righe di preambolo che
fissano il «ripudio della guerra», ma soprattutto nella parte finale, che
contempla i «doveri» di impegnarci ad «assicurare la pace e la giustizia fra le
Nazioni», nell’ambito di interventi coordinati dalle organizzazioni
internazionali. «Missioni militari ma non di guerra», chiarisce, mettendo un
punto fermo sulla questione.
Parla della Marina, il capo dello Stato. Per ricordare come sia «impegnata in
una molteplicità e varietà di missioni all’estero che richiedono in alto grado
di specializzazione e professionalità».
Napolitano allude, in questo specifico caso, alle attività «rivolte a tutelare
essenziali beni comuni», «dalla lotta contro il traffico di esseri umani alla
libertà di navigazione, dalla protezione civile alla salvaguardia
dell’ambiente». Insomma: nulla che abbia a che fare con la guerra. Anzi,
allargando il ragionamento alle altre Armi, aggiunge: «L’Italia ha bisogno
dell’insieme delle Forze armate al più alto livello di modernità ed efficienza
per adempiere ai propri doveri di partecipazione alle organizzazioni
internazionali che, come recita l’articolo 11 della Costituzione repubblicana,
sono impegnate ad assicurare la pace e la giustizia fra le Nazioni».
Un messaggio che sembra indirizzato a più destinatari. In primo luogo ai
militari, quasi a garantire che nessuno potrà delegittimarne il ruolo e ad
assicurare che «modernità ed efficienza» dei loro reparti non saranno
sacrificati. E in secondo luogo al mondo politico, in particolare ai settori
più ostili alle esigenze e alle ragioni delle forze armate, per segnalare che
il perimetro delimitato dal fatidico articolo 11 non è stato varcato. Né in
Iraq né altrove. Infatti, il cenno alle organizzazioni internazionali –
Onu, Nato, Ue – sotto la cui egida ci siamo mossi, gli serve per confermare la
legittimità dei nostri interventi di peacekeeping a conflitti finiti.
Interventi cui siamo in una certa misura vincolati da doveri costituzionalmente
riconosciuti (anche se nell’ex Paese di Saddam ci troviamo oggettivamente
coinvolti in quella che un polemologo come il generale Fabio Mini definirebbe
una situazione di «guerra dopo la guerra»).
Ora, se l’articolo 11 evocato dal presidente della Repubblica dev’essere di
orientamento per il presente come per il futuro, sembra sottinteso che il
ritiro da Nassiriya andrebbe svolto senza i caratteri di una fuga precipitosa
ma concertato con le autorità irachene e con i partner stranieri coinvolti
nella stessa missione. E va da sé – par di capire – che una simile mossa
non dovrebbe implicare un automatico rientro dei nostri soldati
dall’Afghanistan o da altri «teatri» caldi del mondo. Ieri Romano Prodi ha
confermato «il pieno impegno dell’Italia» in Afghanistan al segretario generale
della Nato, Jaap de Hoop Scheffer.