Nagorno Karabakh: la guerra, eredità avvelenata dello stalinismo, trova nuova linfa nelle contese energetiche del multipolarismo

I meno giovani ricordano fra i feroci conflitti interetnici che insanguinarono il Caucaso, all’indomani dell’implosione dell’URSS, quello del Nagorno Karabakh (nota 1). Questa piccola enclave armena dentro l’Azerbaijan, oggi 140 mila abitanti circa, una superficie pari a metà della Sardegna, prevalentemente montuosa, fu uno stato indipendente, infeudato alla Persia, fino al 1813, quando fu assorbito dall’impero russo. Nel 1923 Stalin volle attribuirlo all’Azerbaijan, benché il 98% della popolazione fosse armena. In questo modo Mosca si garantiva una situazione di continue tensioni interetniche a tutto vantaggio di una politica di divide et impera. La decisione era particolarmente pesante perché appena sette-otto anni prima, fra il 1915 e ’16 in tutto l’impero ottomano si era perpetrato il genocidio degli armeni. I pochi sopravvissuti si erano rifugiati in Armenia e Nagorno Karabakh, dove la memoria del massacro e quindi il sentimento antiturco erano vivissimi (nota 2).

Sulla questione Stalin si comportò esattamente al contrario di come aveva indicato Lenin che, pur molto malato, nel dicembre 1922 aveva dettato “Sulla questione delle nazionalità o delle autonomizzazioni” definendo l’atteggiamento di Stalin (e di Ordžonikidze) “nefasto” per i suoi atteggiamenti “amministrativi”, che poi definirà “grande russi”. Nel ’22 l’oggetto di discussione era la Georgia (nota 2bis).

NB in verde il Karabakh di epoca sovietica; in giallo l’area occupata dall’esercito armeno e del Nagorno durante il conflitto 1991-94

Tra il ’23 e il 1991 il paese fu “russificato” e sottoposto a una politica di strisciante pulizia etnica dal governo di Baku che voleva capovolgere il rapporto demografico fra armeni e azeri. Venne così sostenuta l’economia delle zone abitate da azeri, fu incoraggiata la loro natalità e la loro immigrazione da regioni circostanti il Karabakh; mentre fu volutamente fatta languire l’economia dei villaggi armeni i cui abitanti furono stimolati ad emigrare fuori dalla regione. Nei confronti degli armeni furono inoltre attuati molti soprusi e violenze, furono impediti i contatti con l’Armenia e combattute tutte le espressioni di appartenenza etnica, bollandole e condannandole come nazionaliste. Agli inizi degli anni ’80 gli armeni erano ridotti al 75%. L’occasione di riscossa venne alla fine degli anni ’80 con la crisi della Russia. Il 20 febbraio 1988 il Soviet dei Deputati del Popolo del Karabakh decise di chiedere l’annessione all’Armenia. Nel territorio azero si rispose con pogrom contro i residenti armeni (a Sumgait, Kirovabad e la stessa Baku), con migliaia di morti. Nel Karabakh furono attuati arresti di massa, interi villaggi vennero rasi al suolo. La popolazione rispose con scioperi e boicottaggi. Dall’89 iniziò un movimento di resistenza armata. Nell’agosto del 1991, quando l’Urss implose e l’Azerbaijan proclamò la sua indipendenza, il soviet del Karabakh proclamò l’indipendenza, poi legittimata da un referendum. L’Azerbaijan non accettò la decisione e attaccò militarmente e isolò il paese per prenderlo per fame. I reparti di guerriglia del Karabakh conquistarono la striscia di terra che li separava. Il conflitto, punteggiato da episodi di feroce pulizia etnica (come il massacro di Khojaly, a opera di armeni e russi) produsse 30 mila morti, un milione di profughi (600 mila azeri fuggirono dall’Armenia e dal Nagorno Karabakh, 400 mila gli armeni che fuggirono dall’Azerbaijan) – nota 3).

Il 12 maggio 1994, su mediazione russa, si negoziò un cessate il fuoco: il controllo del territorio rimase all’Armenia (che occupò anche aree azere attorno al Nagorno Karabakh, creando una perfetta continuità territoriale fra i due paesi). L’Azerbaijan sconfitto continuò tuttavia a rivendicarne il possesso in nome dell’intangibilità dei confini. Un trattato di pace non fu mai firmato, nonostante i numerosi negoziati condotti sotto l’egida del gruppo di Minsk (nota 4).

Da allora vige una situazione di stallo, interrotta ogni tanto da scaramucce o periodi di scontri armati, come è accaduto nel 2016 (200 morti).

Il conflitto attuale, partito il 27 settembre per iniziativa dell’Azerbaijan, è figlio di questa non soluzione, ma anche della situazione contingente.

La pandemia di COVID-19 ha messo crudamente in evidenza le carenze dell’assistenza sanitaria, il carattere semimafioso e corrotto dei due governi. Quindi per entrambi i governi la guerra, il richiamo ai valori patriottici e la riesumazione degli antiche odi sono stati un modo di distrarre l’attenzione dei cittadini e convogliare l’esasperazione lontano da sé.

Sull’aggressività dell’Azerbaijan ha influito anche la consapevolezza da un lato di poter contare sul fatto che l’Europa è alle prese con la pandemia e che negli Usa l’attenzione è tutta concentrata sulle elezioni presidenziali. La stessa Russia, da sempre considerata una solida sponda per l’ortodossa Armenia, ha, in realtà in anni recenti, armato fino ai denti l’Azerbaijan con armi di ultima generazione. Oggi l’Azerbaijan è molto meglio armato che in passato, anche perché grazie al petrolio l’oligarchia al potere ha potuto acquistare armi di ultima generazione. Nei primi giorni di guerra sta rapidamente demolendo le fortificazioni di difesa che l’Armenia aveva disseminato nelle aree azere occupate da 30 anni, e lo fa grazie ai droni e ai raid mirati, possibili grazie alle armi russe. Il presidente Aliyev vede anche nella guerra un utile mezzo per garantire la successione al potere al proprio figlio (dal ’93 la presidenza è appannaggio quasi ereditario della famiglia, da Heyder Aliyev all’attuale Ilham Aliyev, la cui moglie è anche vicepresidente del paese).

Ma soprattutto l’Azerbaijan può contare, ancor più che nel passato, sull’appoggio incondizionato della Turchia, primo acquirente del petrolio azero, primo investitore nelle sue infrastrutture, consulente militare e alleato. Fonti francesi e americane accusano la Turchia di aver inviato in Nagorno migliaia di guerriglieri siriani ex Isis e anche propri ufficiali a sostegno del suo protetto. Erdogan ha fatto dichiarazioni bellicose sulla volontà di rigettare l’esercito dell’Armenia oltre confine e riportare il Nagorno Karabakh agli azeri.

Il governo armeno, in teoria, può contare sull’appoggio russo e certamente di quello francese, ma ad ogni buon conto ha chiesto un intervento della cancelliera Merkel, ma senza esiti significativi. Per ora l’assertivismo turco sembra trovare ostacolo solo nella Francia di Macron.

L’Italia ad esempio, che pure fa parte del gruppo di Minsk, ha tenuto un profilo basso, anzi Di Maio il 2 ottobre ha ricevuto il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu alla Farnesina, in piena crisi. Cavusoglu ha dichiarato che la Turchia non esiterà a sostenere l’Azerbaijan, che “è stato fin troppo paziente”. Di Maio ha definito la Turchia un interlocutore chiave ed esprime “preoccupazione”. Il perché di tanta circospezione è presto detto: da sette anni l’Azerbaijan è il primo fornitore di petrolio dell’Italia (l’ultimo dato disponibile è del 2018: 17,7% del totale import) e l’Italia è anche il primo partner commerciale del piccolo paese del Caucaso. E da anni si discute un progetto di gasdotto, il TAP, Trans Adriatic Papeline, che esiste già nel tratto fino alla Turchia mentre manca il tratto che attraversa, la Grecia, l’Albania, il Mar Adriatico e arrivare sulle coste pugliesi. La Saipem si è aggiudicata una parte del gasdotto, che “salterebbe” la Russia. Emiliano, dopo aver appoggiato i No Tap, nell’ultima campagna elettorale si è detto possibilista.

Il Nagorno Karabakh è in posizione geografica strategica per collegare il Caspio all’Europa attraverso la Turchia e questo è l’interesse che salda l’alleanza dell’Azerbaijan alla Turchia, ma anche l’Italia. A essere danneggiati sarebbero Russia e Iran, paese che ha già altre ragioni di tensione con l’Azerbaijan (che pure è sciita), non ultima il fatto che un quarto degli iraniani sono di etnia azera e un richiamo alla riunificazione degli azeri è sempre possibile.

Insomma la solita guerra sporca di petrolio, ma anche la solita guerra in cui muoiono i poveri e gli sfruttati nell’interesse dei potenti, che siano essi le oligarchie corrotte del Caucaso, lo “zar” di Istanbul o i grandi businessman occidentali.

In questo pantano insanguinato spicca, come un fresco alito di speranza, il comunicato del movimento “Gioventù azera di sinistra. La dichiarazione è stata pubblicata mercoledì 30 settembre, in inglese, sul portale LeftEast, (nota 5). In essa si denuncia come “le autorità di entrambi i paesi in lotta”, “nostri governi predatori e nazionalisti” usino la tattica di disumanizzare il nemico per affermare il proprio diritto a sterminarlo. E quindi presentare la guerra come unica soluzione possibile. Il tutto “ci fa dimenticare le condizioni di sfruttamento in cui sopravviviamo nei nostri rispettivi paesi non appena la “nazione” ci chiama a proteggerla dal “nemico”. “Ma il nostro nemico non è l’armeno qualunque, che non abbiamo mai incontrato in vita nostra e probabilmente mai incontreremo. Il nostro nemico sono le persone al potere, che hanno nomi e ranghi specifici e un aspetto molto riconoscibile, che per oltre due decenni hanno impoverito e sfruttato la gente comune e le risorse del paese per il proprio tornaconto. Non hanno tollerato nessun dissenso politico, opprimendo i dissidenti con i loro imponenti apparati di sicurezza. Hanno occupato siti naturali, coste, risorse minerarie per il proprio piacere e utilizzo, limitandone l’accesso ai comuni cittadini. Hanno distrutto l’ambiente, abbattuto alberi, contaminato l’acqua, accumulando su vasta scala attraverso l’espropriazione. Sono complici della scomparsa di siti storici e archeologici e di reperti in tutto il paese. Hanno dirottato risorse dai settori essenziali come l’educazione, la sanità e il welfare verso l’esercito, arricchendo così i nostri vicini capitalisti e le loro aspirazioni imperialiste – la Russia e la Turchia. …” “…Mantenere il conflitto richiede una grande quantità di risorse economiche e umane, affinché le élites da entrambe le parti possano continuare ad approfittarne. Il budget militare dell’Azerbaigian per il 2020 è salito a 2,3 miliardi di dollari mentre per l’Armenia ammonta a 643 milioni, e costituisce essenzialmente il 5% del PIL in entrambi i paesi…”. “…E’ tempo che noi, la gioventù azera e armena, prendiamo nelle nostre mani la risoluzione di questo conflitto obsoleto. Questa non deve più essere la prerogativa di uomini in giacca e cravatta, il cui scopo è l’accumulazione di capitale economico e politico e non la risoluzione del conflitto. Dobbiamo sbarazzarci del brutto paravento dello stato-nazione, che appartiene al dimenticatoio della storia, immaginare e creare nuove modalità di coesistenza comune e pacifica. Per questo è essenziale ripristinare iniziative politiche, dal basso, fatte principalmente di comuni cittadini locali che ristabiliranno i colloqui di pace e la cooperazione. Noi attivisti di sinistra in Azerbaigian rifiutiamo che si mobiliti ulteriormente la gioventù del paese per questa guerra priva di senso, e consideriamo il ripristino del dialogo come nostro obiettivo principale”. L’appello finale è quindi alla pace. Tenuto conto della censura e della ferocia della repressione in Azerbaijan, non male.


Nota 1: Karabakh è una parola di origine turca e persiana che significa «giardino nero». «Nagorno» è una parola russa che significa «montagna; in lingua armena il paese è chiamato Artsakh.

Nota 2: Nel genocidio erano morti 1,5 milioni di armeni. Oggi per giustificare lo scontro fra Armenia e Azerbaijan si ricorre allo scontro di civiltà, una reciproca ricerca delle proprie identità etnico-religiose-linguistiche. Storicamente è certo un fattore oggettivo. Gli azeri sono di religione mussulmana e di etnia iranica, parlano un dialetto turco (e usano alcuni l’alfabeto cirillico, altri quello latino o quello arabo), ma si sentono turchi. Gli armeni sono cristiano-ortodossi, la loro lingua è un ramo autonomo della famiglia indoeuropea, usano un alfabeto proprio. Armeni e azeri erano comunque convissuti pacificamente nel Caucaso e in tutto l’impero mussulmano fino al 1915. E anche oggi il preteso “scontro di civiltà” copre ben altri interessi.

Nota 2bis: Lo scritto di Lenin ovviamente venne letto solo dai vertici del Partito Comunista russo (e pubblicato solo nel 1959). Per approfondire l’intera vicenda cfr. Moshe Lewin, L’ultima battaglia di Lenin, Laterza, Bari 1969,

Nota 3: la cifra è molto alta se si considera che all’epoca l’Armenia aveva 2,5 milioni di abitanti e l’Azerbaijan 9,2 milioni. Sul ruolo svolto dall’esercito di liberazione del Karabakh, nel corso del 1989-90, va ricordato che quella piccola regione ha dato nel corso dell’800-‘900 numerosi ufficiali e generali all’esercito, prima della Russia zarista e poi dell’Urss.

Nota 4: Il gruppo di Minsk, creato dall’Osce nel ’92, è capeggiato da Francia, Russia, Usa. Gli altri membri sono, Italia, Germania, Portogallo, Paesi Bassi, Cecoslovacchia, Finlandia e Svezia, Bielorussia oltre ovviamente Armenia e Azerbaijan.

Nota 5: per l’intero testo cfr. https://www.eastjournal.net/archives/110581