Mosul: dalle “missioni di pace” alle “missioni d’appalto”

Ita Mosul

Con la chiusura della trattativa, il Gruppo Trevi di Cesena si è aggiudicato l’appalto per la riparazione della diga di Mosul, una delle più grandi del Medio Oriente, costruita nel 1984 su un letto di roccia instabile da un consorzio italo-tedesco.

Proprio in relazione a questo appalto, che ammonterebbe a 230 milioni di dollari, il governo italiano è da tempo in trattativa con quello iracheno per inviare in loco altri 450 soldati, soldati che andrebbero ad aggiungersi ai circa 750 che l’Italia impiega fra Iraq e Kuwait nell’ambito dell’operazione Prima parthica e che avrebbero il compito esclusivo di proteggere i lavori di riparazione da eventuali attacchi dell’ISIS. Infatti se la zona della diga è stata riconquistata dai Peshmerga curdi dopo una breve occupazione dell’ISIS nell’agosto del 2014, Mosul – distante 35 chilometri – è ancora nelle mani del Califfato.

Sarebbero quindi 450 “vigilantes” gentilmente offerti dallo stato italiano alla ditta di Cesena. Ma sarebbero anche uno strumento per aumentare il proprio ruolo in Iraq e nel Medio Oriente in generale venendo incontro alle richieste statunitensi di un maggiore impegno militare nel paese e per guadagnare un credito da spendere nella definizione della prossima missione in Libia, dove l’Italia dovrebbe avere il ruolo di guida di un contingente internazionale.

L’invio non è ancora ufficiale: il governo italiano sta trattando per ottenere da Baghdad il nulla osta. All’annuncio dell’operazione, fatto dal premier Matteo Renzi il 16 dicembre scorso, il governo iracheno ha inizialmente reagito negativamente: il ministro iracheno delle risorse idriche Mushsin Al Shammary aveva affermato che l’Iraq “non ha bisogno di alcuna forza straniera per proteggere il suo territorio, i suoi impianti e la gente che ci lavora”; anche il leader religioso sciita Moqtada Al Sadr si era detto contrario, mentre Jaafar al Husseini, portavoce delle Brigate sciite irachene Hezbollah, aveva annunciato che le avrebbero considerate “truppe d’occupazione”.

Non sappiamo come finirà la trattativa (secondo il sito agenzianova.com stanno procedendo positivamente); è difficile che, una volta vinto l’appalto, il governo italiano faccia marcia indietro, a meno che il prossimo intervento militare in Libia non facciano scarseggiare il numero di soldati disponibili (secondo Il Sole 24 Ore oltre ai 750 soldati in Iraq l’Italia ne impegna già altri 600 nei Balcani, 1.100 in Libano e 800 in Afghanistan, più altri in missioni minori). Intanto ha appena deciso di inviare altri 130 soldati ad Erbil incaricati di recuperare feriti in aree di combattimento, che secondo Il Fatto Quotidiano verrebbero accompagnati da elicotteri da combattimento Mangusta, una missione di guerra a tutti gli effetti. Se – come è probabile – si aggiungeranno anche 450 uomini alla diga di Mosul, l’Italia avrebbe nella regione circa 1.300 soldati, il secondo contingente per effettivi dopo quello statunitense.

Quello che salta agli occhi è come ormai nella promozione manu militari del business e nell’occupazione di posizioni strategiche vengano tralasciate anche le apparenze: mentre fino a poco tempo fa per mantenere il diritto allo sfruttamento del giacimento petrolifero di Nassiriya o la presenza in una posizione strategica come l’Afghanistan o sul mercato dei Balcani o del Libano si invocavano la difesa della pace, dei diritti umani, della legalità internazionale, oggi si dice senza tante formule di rito la reale finalità delle missioni militari, tanto che la ministra della difesa Roberta Pinotti aveva dichiarato apertamente che l’invio dei soldati sarebbe stato deciso solo dopo la firma del contratto. Un comportamento più spregiudicato frutto della convinzione – ahimè non infondata – che le reazioni di indignazione che si sarebbero scatenate fino a poco tempo fa in circostanze analoghe oggi non si facciano più sentire.

Per ora c’è stata la meschina reazione di Forza Italia, che tramite Renato Brunetta aveva protestato perché il premier ha fatto l’annuncio non al Parlamento, ma alla trasmissione televisiva “Porta a porta”. Sicuramente le modalità di comunicazione sono state l’ennesima conferma di quanto il Parlamento sia marginale nel prendere le decisioni che contano, ma in questo destra e sinistra non si distinguono, visto che la stessa trasmissione è stata usata tanto dal premier Mario Monti quanto dal suo predecessore Silvio Berlusconi come tribuna per gli annunci ufficiali. Le rimostranze di Brunetta sono state il piagnisteo ridicolo di un’opposizione allo sbando che viene marginalizzata da un governo nei fatti ancora più anti-operaio e a destra dei berlusconiani.

Noi non siamo stupiti né per l’insignificanza delle istituzioni parlamentari né per il carattere mercenario delle missioni militari: lo stato e il governo sono usate dalla borghesia anche come agenzie per la promozione del profitto, con tutti gli strumenti utili, pacifici se possibile ma violenti se necessario. E in questa attività di promozione i dibattiti del Parlamento sono sempre più una decorazione inutile per decisioni prese altrove.