Lorenzo
Cremonesi
Lo scrittore Oudat: «Il solo
reato di opinione può costare 15 anni»
Il regista Amiralay: «Punito per un film sul regime, non viaggio più»
In SIRIA sono migliaia i
prigionieri politici; i dissidenti sono isolati o incarcerati; il presidente
BASHAR EL ASSAD non avrebbe più il controllo del governo, diviso in molti
centri di potere e in mano ai duri del regime.
In SIRIA l’unica opinione pubblica ammessa è la propaganda
governativa; voci critiche non trovano spazio sui media o vengono represse col
carcere e l’assassinio.
Negli anni ’80 e ’90 quasi 20mila “desaparecidos”; ancora
oggi circa 3mila prigionieri politici.
Anche dopo la designazione di BASHAR EL ASSAD la
repressione continua. Mentre il padre controllava il governo, ora vi sono molti
centri di potere; la guida sarebbe in mano ai “duri” legati al vicepresidente
FARUQ AL HASHARA. L’assassinio di RAFIQ HARIRI deriverebbe dal mancato
controllo dei “duri” da parte del presidente.
La corruzione dilaga in tutti i
settori.
DAMASCO — Ci sono due modi per vivere in Siria. Credere
ciecamente al regime. Oppure non crederci, ma tacere e obbedire. «Perché chi
sceglie la terza via, quella della protesta e della denuncia, è perduto. Nella
migliore delle ipotesi, resta disoccupato e deve convivere con le minacce dalla
polizia segreta. Nella peggiore, finisce in cella. Il solo reato di opinione
può costare 15 anni di carcere duro», spiega Hussein Oudat, un
intellettuale che le regole non scritte imposte dal partito Baath le conosce
dall’interno.
Oudat negli anni ’50 e ’60 è stato tra i massimi dirigenti del partito e
compagno dell’ex presidente Hafez al Assad. Nel 1967 fu il direttore-fondatore
dell’agenzia di stampa ufficiale Sana. Ma già nel ’70 fu licenziato in tronco
per ordine dell’allora neopresidente. «Ero caduto in disgrazia. Da allora ho
dovuto convivere con gli alti e bassi dei miei protettori nei ministeri. Ho
fondato una casa editrice. Ma larga parte dei miei libri sono stati censurati.
Scrivevo sui giornali locali. Ma poi ho potuto farlo, con grande difficoltà,
solo su quelli libanesi o su pubblicazioni in lingua araba all’ estero. E a me
è andata bene. Solo qualche settimana di carcere. Tanti altri sono spariti nel
nulla», racconta. Una situazione poco conosciuta quella dei diritti civili e
della libertà di stampa in Siria. «Per i giornalisti locali il tema è tabù. E
voi occidentali siete troppo preoccupati di ottenere il visto di ingresso e
qualche intervista con gli alti dirigenti della dittatura per investigare la
repressione interna», accusa dura Razan Zaitouneh, avvocatessa di 29 anni
che dirige il semiclandestino «Centro studi per i diritti umani» di Damasco. Un
esempio tipico della mancanza di libero dibattito interno è il modo in cui il
Paese segue l’evoluzione dell’inchiesta Onu sull’assassinio di Rafiq Hariri a
Beirut il 14 febbraio 2005. I media pubblicano senza una parola di commento le
dichiarazioni del governo.
«Siamo felici che il capo della commissione d’inchiesta Onu, Serge Brammertz,
abbia espresso soddisfazione per la cooperazione siriana. Tanto è ovvio che la
Siria non ha avuto alcun ruolo nella morte di Hariri», replica secco il
ministro dell’Informazione Mohsen Bilal. Gli unici a metterlo in dubbio sono i
dissidenti perseguitati. Ma su di loro non esce neppure una riga sui giornali.
«Ci sono ancora da capire tante cose. Il suicidio o forse omicidio dell’ex
ministro degli Interni, Ghazi Kanan. Le accuse al regime di aver commissionato
la morte di Hariri da parte dell’ex vicepresidente Abdel Halim Kaddam e di
alcuni ex agenti dei servizi segreti siriani all’estero. Se censurano i miei
film è ovvio che sono pronti a fare molto di peggio perché non si discuta della
morte di Hariri», commenta Omar Amiralay, regista 62enne che produce
lungometraggi per il programma francese Arte. Ha il divieto di viaggiare
all’estero da quando il suo ultimo filmato Il diluvio sul Paese del Baath (una
parodia del sistema educativo dittatoriale) è andato in onda in Francia.
È il fallimento delle speranze sollevate nel 2000 con la «primavera di
Damasco» seguita alla morte di Hafez e l’ascesa al potere di Bashar. Da allora
decine di intellettuali sono stati incarcerati, minacciati. È il caso dei
firmatari dei due manifesti più noti: la «Dichiarazione di Damasco» del 16
ottobre 2005, e quella «Beirut-Damasco» quattro mesi fa. Entrambi inneggiano
alla liberalizzazione interna e alla necessità che il governo baathista rinunci
una volta per sempre al sogno della «grande Siria». «Oggi non ci sono i quasi
20.000 desaparecidos che ci furono negli anni ’80 e ’90. I casi di prigionieri
politici spariti sono pochi. Ma ne registriamo oltre 3.000 in carcere. Dopo
l’attentato contro l’ambasciata Usa a Damasco il 12 settembre sono stati
arrestati decine di fondamentalisti islamici nel quartiere di Al Tell.
Forse tra due anni conosceremo le loro identità», accusa la Zaitouneh.
L’analisi che va per la maggiore negli ambienti della dissidenza è che
Bashar abbia rinunciato al controllo sul governo. «Ha perso il treno. Non è
fatto per questo lavoro. Più volte Bashar ha detto ai suoi collaboratori
che è stanco, vorrebbe lasciare. Il fratello più giovane, Maher, mira al suo
posto e sarebbe peggio per tutti. La guida del Paese resta invece in mano ai
duri della lobby alauita e ai politici legati al vicepresidente Faruq al
Hashara», rivelano fonti diplomatiche occidentali. Le conseguenze immediate
sono il fiorire della corruzione, l’omertà e lo stato penoso dei servizi
pubblici. Basta una visita all’Università di Damasco per rendersene conto.
«Le tasse universitarie sono praticamente nulle. Ma chi vuole essere certo
della promozione paga una tassa speciale chiamata "insegnamento
parallelo" di 2.000 dollari annuali e non deve più preoccuparsi degli
esami», rivelano gli studenti di economia e ingegneria. E per evitare i 21 mesi
di leva versi 10.000 dollari e sei a posto.
IL MILITANTE COMUNISTA
«Un topo cacciato in bocca. Per farci tacere»
DAMASCO — Un topo vivo cacciato in bocca con la
forza. «I miei compagni raccontavano che il malcapitato muore tra atroci
sofferenze per l’infezione allo stomaco causata dall’animale che rode i
tessuti». Riad al Turk ne parla come se la cosa quasi non lo
riguardasse. «E’ un altro pianeta. Pochi conoscono le durezze delle torture
in Siria. La gente ha paura di parlarne e l’Occidente guarda da un’altra
parte». Ma lui le ha sofferte sulla sua pelle per decenni. È considerato il
padre dei prigionieri politici in Siria. Nato 76 anni fa, militante comunista
sin da ragazzino, le sue prime detenzioni iniziano con l’ascesa al potere del
Baath nel 1958. La più lunga dura dal 1980 al ’97, compresi 10 anni di
totale isolamento in una cella sotterranea, al buio, dove non poteva neppure
stendersi per intero. Eppure la sua capacità di analisi resta lucida.
Il suo ultimo arresto?
«Tre anni fa per sei mesi, perché avevo accettato di essere intervistato da Al
Jazeera».
Che differenza vede tra il regime di Hafez al Assad e quello del figlio
Bashar?
«La repressione è relativamente diminuita, ma resta subdola, strisciante.
Ciò poiché Bashar è molto più debole di Hafez. Non ha alcuna cultura
politica. La sua debolezza crea una pluralità di centri di potere sotto il
monopolio del clan degli Assad. Il padre controllava la corruzione a suo
favore, adesso regna il caos. Per certi versi è peggio di prima. Si veda
l’errore dell’assassinio di Hariri: è conseguenza dell’incapacità di Bashar
nel controllare i duri nei servizi segreti e tra i politici che vorrebbero
riprendere il Libano. Il padre non avrebbe mai permesso un gesto tanto
estremo».