Medio Oriente, contro il terrore fallisce la scommessa delle urne

EGITTO, MEDIO ORIENTE, TERRORISMO

REPUBBLICA Mer. 26/4/2006 GUIDO RAMPOLDI

La democrazia importata non produce gli effetti sperati,
ma nelle aule di giustizia egiziane sorge una nuova speranza

Finora gli occidentali non sono apparsi consapevoli del
fatto che il diritto sia una risorsa e non un impaccio nella lotta ad Al Qaeda
Una pattuglia di giudici autorevoli sta sfidando Mubarak: la prova di forza è
decisiva per sperare nella nascita di uno Stato liberale


L’attentato di Dahab non ha indebolito o isolato il
regime, né hanno spaventato più di tanto i turisti occidentali. Hanno invece
spinto persino il governo palestinese di Hamas a condannare la strage. Forse Al
Qaeda non agisce con una vera strategia, ma segue solo un impulso distruttivo e
omicida.
Ma nemmeno l’occidente ha una strategia contro il
terrorismo: gli USA si sono illusi di impiantare la democrazia imponendo libere
elezioni (progetto del “Grande Medio Oriente”), ma tutte le elezioni
mediorientali anno rafforzato i partiti islamici anti-USA; ora né gli USA né la
UE hanno una strategia per promuovere lo stato di diritto, che considerano più
un ostacolo che una risorsa nella guerra al terrorismo.


La strage di Dahab ha
prodotto un unico effetto rilevante: uscita dalla sua accidia etica, per la
prima volta Hamas palestinese ha condannato senza le solite ambiguità un
massacro compiuto dal terrorismo islamico. Se questo è il risultato, allora c´è
da chiedersi se gli attentati di Al Qaeda obbediscano ancora ad una strategia
politica, o piuttosto ormai soltanto ad una coazione ad uccidere, al furore
distruttivo e auto-distruttivo che è stato fatale a tante organizzazioni
terroriste
. Se
l´attentato doveva indebolire Mubarak, pare riuscito piuttosto ad attirargli
una vasta solidarietà internazionale. Se era un´operazione di propaganda, ha
suscitato indignazione anche in Medio Oriente. E se infine voleva gettare nel
panico gli occidentali, l´esito non poteva essere più deludente. I terroristi
si sono accampati per ore nei notiziari europei e americani, ma già ieri
pomeriggio la Bbc anteponeva i servizi dal Nepal e da Ceylon. La tv egiziana ha
depurato d´ogni traccia d´orrore le immagini diffuse da Dahab subito dopo la
strage, e le tv occidentali giunte in seguito hanno confezionato filmati incruenti.
Rimossa la brutalità del massacro, ricomposte le salme, lavato il sangue, la
vita ricomincia
. La gran parte dei turisti sopravvissuti alle bombe non
rimpatria in anticipo, la gran parte dei turisti in arrivo non disdice le
prenotazioni negli alberghi: stamane i sub torneranno a immergersi, i surfisti
a cavalcare l´onda. Non è questione di coraggio né di insensibilità, ma d´una
certa consuetudine con la morte violenta, e di inevitabile fatalismo: ormai può
accadere ovunque d´essere dilaniati da una bomba. E finché nel Sinai le
probabilità resteranno molto più basse delle possibilità di morire in un
incidente d´auto in Europa, gli hotel sul Mar Rosso non resteranno mai vuoti.
A quasi cinque anni dall´11 settembre non possiamo dire d´esserci abituati al terrorismo
ma ormai conosciamo le tecniche per impedirgli di invadere il nostro
immaginario e di giganteggiarvi, come invece accadeva in passato. Forse è
l´unico autentico successo che l´Occidente possa dire d´aver colto. Ma a parte
questo risultato, neppure del tutto intenzionale, non v´è altro di cui
americani ed europei debbano andare fieri. La war on terror, la guerra al
terrorismo proclamata nel 2001 da Bush, è stata inconcludente. I piani
grandiosi prodotti da Washington si sono afflosciati l´uno dopo l´altro,
insieme alla nuova grande idea che li sorreggeva: la convinzione che bastasse
indire libere elezioni perché d´un tratto fiorisse la democrazia, considerata
la vocazione spontanea delle popolazioni e l´antidoto contro il terrorismo.
Questo ragionamento fondava in particolare il progetto americano denominato
"il Grande Medio Oriente"
. Il Dipartimento di Stato e i governi
amici ne discussero per due anni, tra loro e con i regimi arabi, recalcitranti.
Poi lo cancellarono dalle loro agende. Accadde in seguito ad un´ondata di
elezioni, relativamente libere per criteri mediorientali. Vinsero ovunque
partiti etnici e "religiosi" ostili agli Stati Uniti. Così nelle
prime comunali saudite
(buon successo dei candidati appoggiati dai mullah).
Nelle presidenziali iraniane (trionfo di Ahmadinejad). Nelle
politiche irachene
(tracollo dei partiti non etnici, grande affermazione
dei partiti sciiti, soprattutto dello Sciri, filo-iraniano). Nelle elezioni
palestinesi
(vittoria dei fondamentalisti di Hamas). Nelle politiche
egiziane
(ottima prova dei Fratelli musulmani). Alla fine di questa
sequenza fu chiaro l´effetto prodotto dall´invasione dell´Iraq: qualsiasi
regime, partito o candidato fosse stato percepito dall´elettorato come
filo-americano, o in qualche modo filo-occidentale, sarebbe uscito male dalle
urne. Allora il progetto del Grande Medio Oriente fu riconsegnato ai cassetti e
né Washington né gli europei tentarono di sostituirlo con una nuova idea.
L´Egitto racconta bene il tragitto della progettualità statunitense, dalle
ambizioni più smodate al nulla attuale. Tre anni fa, in un discorso altisonante
Bush aveva candidato il regime di Mubarak ad un ruolo-guida: sarebbe stato il
battistrada della democrazia in Medio Oriente. Quel che agli americani
sfuggiva sembrava però chiaro al raìs: in Medio Oriente un regime non può
diventare democratico senza essere spazzato via; e anche se avesse qualche
probabilità, mai sopravviverebbe a libere elezioni restando amico degli Stati
Uniti
. Incalzato rudemente da Washington, infine Mubarak modificò la
Costituzione, si affidò ad un governo di giovani tecnocrati e indisse una
tornata di elezioni con modalità più trasparenti, ma tali da garantire comunque
al regime la maggioranza assoluta. Il fatto che oggi un quinto dei parlamentari
appartengano ai Fratelli musulmani, integralisti, non impensierisce Mubarak e
anzi gli è utile per dimostrare a Washington l´insidia nascosta nelle urne
.
Quel che però cambia le cose è la sollevazione della magistratura. Una
pattuglia di giudici autorevoli e indipendenti dapprima ha contestato brogli
occorsi durante le elezioni, poi ha lanciato una campagna per una riforma del
sistema giudiziario
(nel modello vigente il governo può ottenere facilmente
la rimozione d´un magistrato sgradito). Lo scontro è tuttora in corso.
Il regime sta cercando di trasferire i due vice-presidenti della Cassazione,
capi della protesta, che però godono d´un appoggio vasto nella società
egiziana. Non risulta che Washington o l´Unione europea abbiano preso a
cuore l´esito di questa prova di forza
, per molti versi decisiva. In
gioco è la possibilità di trasformare uno Stato di polizia in un Stato di
diritto liberale
, cioè in un sistema dove anche il potere sia soggetto a
controlli e a regole: in Medio Oriente si tratterebbe d´una rivoluzione. Si
getterebbero le basi d´una democrazia autentica, cosa diversa dalla dittatura
d´una maggioranza. E si alleverebbe la società a diritti fondamentali in genere
ignorati dai più (altrimenti non sarebbe tanto venerata la memoria dello sceicco
Yassin, capo spirituale di Hamas quando l´organizzazione patrocinava massacri
di civili israeliani). In altre parole la war on terror non passa per le urne
ma innanzitutto per le aule di giustizia. Che gli occidentali ne siano così
poco consapevoli è preoccupante ma non può sorprendere: nella lotta al
terrorismo il diritto è parso finora più un impaccio che una risorsa a molti
governi occidentali
.

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