Il Marocco, a uno sguardo superficiale, appare come un paese stabile, risparmiato dalle turbolenze sociali dell’Egitto o della Tunisia. Si dimentica che anch’esso è stato investito dall’ondata di proteste universalmente nota come “primavera araba”. Nel 2011 centinaia di migliaia di marocchini erano scesi in strada per reclamare diritti. Tale straordinaria mobilitazione, certo meno radicale ed efficace di quella tunisina ed egiziana, è stata recuperata dal potere che ha fatto passare una Costituzione che con concessioni di facciata alla piazza ha lasciato ben saldo il controllo del re su tutte le leve del potere, in alleanza con le forze islamiche e con grande sollievo degli stati imperialisti occidentali (in primo luogo la Francia, primo partner commerciale del Marocco) per i quali la monarchia di Mohamed VI è una garanzia di allineamento alle posizioni occidentali. Pertanto nonostante il lifting del regime, ancora oggi più di duecento prigionieri politici marciscono nelle galere, tra questi numerosi leaders dei movimenti operai e studenteschi. La stabilità politica ritrovata poggia certamente sulla relativa tenuta dell’economia marocchina che non ha subito gli effetti devastanti che la crisi economica internazionale ha determinato nei paesi vicini: nel 2013 il PIL è aumentato del 4,4%, con crescita doppia rispetto all’anno precedente. La stabilità politica si è però anche basata sul fatto che le opposizioni politiche e sindacali hanno continuato a giocare un ruolo di “opposizione di sua maestà” e, non a caso il potere politico, ha trattato a pesci in faccia i sindacati, dai quali, con tutta evidenza poco aveva da temere.
Tuttavia questo quadretto, meraviglioso per i profitti della borghesia marocchina e internazionale che fa affari con essa, potrebbe cambiare. La conflittualità sociale sta aumentando in maniera notevole e con essa il potere politico e la borghesia dovranno fare i conti. In un rapporto governativo si riconosce apertamente questa impennata di conflittualità. I dati del rapporto, riportati dal sito La vie eco dal quale li riprendiamo, sono molto interessanti. Rispetto al 2013, le giornate di lavoro perse per conflitti sono diminuite del 37% ma il numero di scioperi proclamati è aumentato del 19,5%. Gli scioperi del 2014 hanno avuto luogo in 160 stabilimenti rispetto ai 140 dell’anno precedente, vale a dire un aumento del 13% degli stabilimenti coinvolti. Il settore che ha registrato il numero più grande di scioperi è quello industriale (77 contro i 58 dell’anno precedente) mentre in seconda posizione è il settore dei servizi (63 scioperi contro 47 nel 2013). Il tasso di partecipazione globale agli scioperi è del 46% contro il 38,7% dell’anno precedente, in pratica la metà dei salariati degli stabilimenti in sciopero ha partecipato ai movimenti di protesta. Ovviamente sono gli stabilimenti di una certa dimensione che hanno registrato il maggior numero di conflitti ma, inaspettatamente, le imprese che occupano tra 100 e 251 addetti sono al secondo posto e al terzo posto quelle tra 51 e 100 addetti. Al primo posto sono invece quelle tra i 26 e i 50 salariati. La regione di Casablanca è quella che ha conosciuto il più grande numero di scioperi: il 29,1% ossia 57 su 196. Secondo il documento governativo in un quarto dei casi (24,81%), alla base degli scioperi c’è il ritardo nel versamento dei salari e al secondo posto (17,04%) la causa sono i licenziamenti.
Sicuramente l’azione di lotta che ha avuto maggiore risalto, anche fuori dal Marocco, è lo sciopero generale del 29 ottobre, indetto dalle più importanti organizzazioni sindacali del paese, UMT, CDT, FDT. Lo sciopero è riuscito molto bene sia nel settore privato che in quello pubblico. I sindacati vantano adesioni che vanno tra ottanta e novanta per cento sia nel settore pubblico che in quello privato. Anche se non è possibile verificare l’esattezza di questi dati, quello che è certo è che stavolta si è avuta una mobilitazione veramente significativa. La pesantissima riforma delle pensioni preparata dal governo che prevede l’innalzamento dell’età per il pensionamento da 60 a 65 anni, l’aumento dei contributi e un ricalcolo della pensione sugli ultimi 8 anni anziché sull’ultimo salario percepito era già stata alla base dello sciopero del pubblico impiego del 23 settembre. A questo va aggiunto che il regime pratica il congelamento dei salari dei dipendenti pubblici e si può comprendere l’esasperazione che sta spingendo molti impiegati pubblici a scendere in lotta. A peggiorare le condizioni di vita dei proletari marocchini contribuiscono gli aumenti continui delle tariffe dell’acqua, dell’elettricità e sui carburanti (nel mese di agosto l’elettricità è aumentata del 6% e l’acqua del 12%). Tutto ciò mentre si cercano di limitare pesantemente i diritti sindacali e, soprattutto, il diritto di sciopero. Proprio contro l’aumento, ormai insostenibile, del costo della vita c’erano state manifestazioni in numerose città nei giorni precedenti lo sciopero generale.
Chi pensava che le primavere arabe fossero abortite senza lasciare traccia dovrà cominciare a riflettere sul fatto che quel movimento storico ha aperto la via a importanti mobilitazioni della classe lavoratrice in tutta l’area: in Marocco, in Tunisia, in Algeria, in Egitto i proletari non ci stanno più a essere trattati come straccioni senza diritti e senza tutele ma rivendicano miglioramenti economici e libertà di organizzazione sindacale e politica e sempre di più i governi sono costretti a fare i conti con loro. La repressione non riesce a costringere i proletari a tornare a piegare la testa. Anzi sempre nuovi paesi dell’Africa sono toccati da scioperi e rivendicazioni con carattere apertamente classista. Non vogliamo certo dire che in questi paesi la rivoluzione proletaria e la liberazione dallo sfruttamento siano dietro l’angolo. Certamente però la nascita e lo sviluppo di un movimento proletario che cerca di strappare con la lotta condizioni di vita migliori è un presupposto indispensabile perché possa crescere e affermarsi l’organizzazione politica internazionale dei proletari capace di indirizzare le masse proletarie all’assalto e alla distruzione del potere delle classi dominanti.
Da parte nostra salutiamo con gioia questo nuovo protagonismo della classe operaia e confidiamo che la discesa in campo delle giovani classi lavoratrici dei paesi che il linguaggio borghese definisce “in via di sviluppo” possa contribuire al ritrovamento della combattività, oggi purtroppo ancora assopita, del proletariato dei paesi di più antico sviluppo capitalistico.