Tre uomini stilizzati, uno bianco, uno nero, e l’altro giallo. Stanno in fila, con le braccia protese. Sopra di loro, c’è un’unica bandiera. La scritta, in rosso, recita: «Olimpiada popular». I poster sono grandi e colorati. Sono stati affissi ovunque: le strade di Barcellona ne sono piene. E’ l’estate del 1936. Fa molto caldo, e in tutta Europa la gente boccheggia: colpa della temperatura, ma non solo. A Berlino, i lavori fervono instancabili. Hitler sta preparandosi ad uno degli appuntamenti più esaltanti della sua carriera: l’undicesima edizione dei giochi olimpici. Per la prima volta nella storia, la fiaccola farà tappa in Germania. Il copione è maestoso: Goebbels, ministro per la propaganda del Reich, se ne occupa personalmente. Svastiche, passi dell’oca, braccia tese, sfacciate dimostrazioni di forza. Pur di accattivarsi la benevolenza delle democrazie occidentali, i nazisti hanno accettato di inserire nella propria rappresentativa alcuni atleti di origine ebraica. In molti si fanno convincere: persino Roosevelt, che pure sulle prime aveva avanzato qualche timida perplessità. Sono «i giochi di Hitler», e così giustamente li ribattezzerà qualcuno.
Ma a Barcellona tira un’aria ben diversa. La Spagna repubblicana è l’unico paese occidentale ad aver boicottato l’invito tedesco. In Catalogna, cresce il fermento operaio: scioperi, cortei, occupazioni. Il sindacato anarchico, la Cnt, conta quasi un milione e mezzo di iscritti: lo guidano uomini come Buenaventura Durruti, Francisco Ascaso e Garcìa Oliver. E’ in questo tumultuoso contesto, che viene organizzata la più imponente contromanifestazione sportiva di tutta la storia del ventesimo secolo. L’obiettivo è rivoluzionario: «Dimostreremo al Mondo intero – proclamano i giornali cittadini – che oggi il vero spirito olimpico non sta a Berlino, ma qui». L’appello ha il profumo dell’utopia, ma non resterà inascoltato. Così nasce l’Olimpiade popolare: un nome che si tramuterà ben presto nella nuova parola d’ordine dell’antifascismo internazionale. Vi si iscrivono oltre seimila atleti, provenienti da 23 diverse nazioni. La compagine più numerosa, quella francese, conta 1.500 uomini. E poi, ci sono i belgi, gli statunitensi, gli olandesi, i cecoslovacchi, i danesi. Italia e Germania saranno rappresentate da un nutrito drappello di esiliati politici. Stesso discorso per le colonie africane, che sempre, in passato, sono state costrette a gareggiare sotto le insegne delle potenze occupanti: a Barcellona, per la prima volta, potranno farlo autonomamente.
Nel Coop, il Comitato organizzatore, siedono sindacalisti e leader operai. Il Fronte popolare, la coalizione delle sinistre che governa il paese, fornisce mezzi e strutture. Insieme ai manifesti murali, viene redatto un primo programma delle iniziative. Si comincerà il 19 luglio, con la cerimonia di inaugurazione allo stadio di Montjuich, poco lontano dalla Rambla: le gare dureranno una settimana, fino al 26. Oltre alle classiche competizioni olimpiche, verranno organizzati tornei di scacchi, spettacoli di musica, danza e teatro popolare. Così il libertario Eduardo Vivancos, all’epoca giovanissimo membro della compagine iberica, ricorda oggi quei giorni: «Vivevamo in un’atmosfera incredibile. La maggior parte degli stranieri non parlava una sola parola di spagnolo. Ma ci si intendeva lo stesso: bastava un sorriso, o una semplice stretta di mano. Per la prima volta nella mia vita, ebbi l’opportunità di conoscere gli abitanti dei paesi più lontani. Fu un’esperienza molto intensa, che rafforzò il mio senso di fratellanza verso tutti gli uomini: ogni differenza etnica o nazionale sembrava essere improvvisamente svanita».
Le aspettative sono immense: eppure, non si tratta di novità. Già nel 1925, l’Internazionale socialista ha organizzato a Francoforte la prima edizione delle Olimpiadi operaie. Un esempio presto seguito dal Komintern: che tre anni dopo, a Mosca, dà vita alle Spartachiadi. In tutto, nel decennio precedente al 1936, si svolgono ben quattro manifestazioni di questo genere. Cambiano le città e i promotori, ma non la parola d’ordine: creare una nuova concezione di sport. Niente sciovinismo, ogni bandiera nazionale viene bandita. L’unica ammessa è quella rossa, simbolo della fratellanza tra i lavoratori. Fedeli a questo principio, tutti gli atleti in coro, prima di ogni gara, cantano l’Internazionale. Stesso discorso, per quanto riguarda l’agonismo: l’importante non è vincere, ma partecipare. Le gare devono essere accessibili a tutti, e non solo alla ristretta élite dei professionisti. E ancora, no all’individualismo, no al culto del singolo. Un giorno, lo stesso barone Pierre de Coubertin, l’ideatore dei Giochi moderni, ammetterà: «Lo sport operaio è quello che più si avvicina ai miei originari ideali competitivi». Ma nessuno, ovviamente, gli darà ascolto.
Il 19 luglio del 1936, quando ormai tutto è pronto per il via, arriva a Barcellona la notizia del sollevamento fascista di Francisco Franco. E’ l’alba e gli atleti ancora stanno dormendo nei propri alberghi.
La manifestazione è immediatamente annullata. In molti, però, rifiutano di tornarsene a casa. Avevano sognato di combattere Hitler a suon di medaglie e traguardi: lo faranno con il fucile in mano. Nelle strade della città, vengono innalzate le prime barricate. Saranno necessari tre giorni di battaglia, perché gli operai riescano a sconfiggere l’esercito ribelle: è l’inizio della guerra civile spagnola. Tra i tanti scesi in piazza, quel giorno, c’è anche Wilebaldo Solano: è dirigente della gioventù del Poum, il partito marxista al quale poi aderirà anche George Orwell. Oggi, ha 91 anni: «Ricordo benissimo gli uomini dell’Olimpiade – racconta – si unirono subito a noi. Furono i primi stranieri a farlo: la fondazione delle Brigate internazionali avvenne solo in seguito, circa tre mesi dopo. Scherzando, li prendevamo spesso in giro per l’incredibile casualità del loro provvidenziale intervento. Li soprannominammo i turisti rivoluzionari». John Cornford è uno di loro. Ventenne, è arrivato a Barcellona da giornalista: doveva scrivere corrispondenze sportive. Quando può, compone anche versi. Si arruola nelle milizie trotzkiste: morirà combattendo sul fronte di Cordòba, il 28 dicembre del 1936. Tanti seguono il suo esempio. Gli ebrei della società sportiva Hapoel, di Tel Aviv, aderiscono in massa alla milizia repubblicana. Molti italiani, invece, si uniscono agli anarchici. Il loro comandante si chiama Nicola Menna: assieme, formeranno un intero battaglione, il «Battallon de la Muèrte». Solo pochi riusciranno a salvarsi.
Oltre 70 anni sono passati da allora. Molto è stato dimenticato, ed anche gli ultimi testimoni, uno per uno, se ne stanno pian piano andando. Delle Olimpiadi popolari, non resta ormai quasi nulla: poche, rarissime fotografie ingiallite, qualche solitaria nota, in fondo ai libri di scuola, e nulla più. Vecchie storie, forse un poco assurde. Di quando veramente sport faceva rima con libertà, e sui muri, a tutti gli angoli di Barcellona, tre uomini si tendevano la mano, in piedi, all’ombra della stessa bandiera.
Andrea Sceresini
[dal ‘Manifesto’ maggio ’08]