Più di 260 morti e 1440 feriti bastano a dare la misura della ferocia dello scontro in atto in Turchia.
Ed è lo stesso Erdogan a definire i protagonisti della resa dei conti: lui e il suo governo, l’esercito, il movimento di Gulen. Cioè tre frazioni della borghesia turca che in vario modo si sono alleate o contrapposte negli ultimi quattordici anni di storia turca.
Non c’è nessun fronte “democratico” o “progressista” in questa lotta senza esclusione di colpi per definire chi sarà il padrone della Turchia. E se qualche nostalgico vetero stalinista si attarda a ribadire che l’esercito turco è “laico” e suggerisce quindi che è più progressista dell’islamico Erdogan, noi ribadiamo con forza: “Né con Erdogan, né coi militari” e tanto meno con Gulen, l’amico degli Usa.
Difficile stabilire con certezza la natura del tentato golpe, più semplice individuare la natura del contro-golpe del presidente: mentre elimina con estrema durezza i suoi avversari (dai militari ai seguaci di Gulen) Erdogan certamente ne approfitterà per decapitare non solo l’opposizione curda, ma anche l’opposizione dei lavoratori e degli sfruttati e le loro organizzazioni.
Le forze in campo
Erdogan è diventato premier della Turchia nel 2002 alla guida del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP), versione più moderata del Refah di Necmettin Erbakan, primo ministro fra il 1996-97 e “dimissionato” dai militari. Nell’agosto 2014 Erdogan viene eletto nelle prime elezioni presidenziali dirette con il 52% dei consensi.
Erdogan ha rappresentato fin dall’inizio la piccola e grande borghesia dell’Anatolia, in parziale contrapposizione alla borghesia commercial-finanziaria di Istanbul e del blocco industrial-militare in parte controllato dall’esercito. Si è fatto vanto di avere in questi anni aumentato il tenore di vita dei turchi e sviluppato l’economia del paese. Più propenso a stringere legami con l’Unione Europea, rispetto al programma più asiatista di Erbakan, soprattutto nei primi anni di governo, Erdogan ha comunque adottato una propaganda improntata ai valori dell’Islam e della tradizione, sposandola a principi economici liberisti. Erdogan favorisce gli imprenditori della sua base elettorale con incentivi all’edilizia, ma anche all’elettronica e alla meccanica, che diventano voci importanti dell’export a fianco dei tradizionali prodotti tessili. La Turchia diventa il principale partner commerciale di Iran, Siria, Afghanistan, sviluppa una rete dio gasdotti e oleodotti che le garantiscono una forte rendita di posizione… Significativo anche lo sviluppo dell’industria bellica. Il taglio liberista porta a frequenti tensioni con i vertici militari.
L’esercito, 500 mila effettivi di cui 80 mila di carriera, in Turchia ha infatti, come in Egitto e in altre economie emergenti, un ruolo importante anche come imprenditore e amico di imprenditori, la famosa élite kemalista di Istanbul. Per anni ha gestito in prima persona le fabbriche di armi, il turismo, i trasporti urbani e gli aeroporti, giornali e televisioni. L’esercito è responsabile di tre golpe (1960, 1971 e 1980). In tutti questi golpe l’intervento militare ha stroncato proteste sociali e imposto la più netta repressione a sindacati e lavoratori. Nell’80 furono sospesi, grazie alle leggi di emergenza, tutti i diritti politici, migliaia di militanti di sinistra, sindacalisti, lavoratori, furono incarcerati (in tutto 650 mila), molti torturati (300 morti accertati sotto tortura) e giustiziati. Centinaia sparirono senza che si sapesse più nulla di loro. Nel 1997 è sempre l’esercito a costringere alle dimissioni il premier Erbakan. Nel periodo in cui Erdogan è stato al potere l’esercito come istituzione è stato lentamente indebolito; i tribunali di Erdogan hanno comminato pesanti condanne a centinaia di militari accusati a più riprese di complotti o tentati golpe ai danni del presidente. Il più famoso nel 2008, lo scandalo Ergenekon: giornalisti politici e militari sono accusati di complottare contro il governo, seguito nel 2010 dall’inchiesta giudiziaria Balyoz (2010).
Fetullah Gulen, di cui Erdogan ha chiesto l’estradizione agli Usa, ha poco a che spartire con i militari. Teologo carismatico, formatosi nell’area del lago Van in Anatolia, sostenitore della compatibilità fra islam e sviluppo della scienza e della tecnologia occidentali, ha fondato centri educativi privati in cui si coltivano le scienze e le lingue straniere (più di 300 in Turchia e numerose in altri 160 paesi per un totale di 2 milioni di studenti). Grazie a lasciti e finanziamenti si trova oggi a capo di un impero economico valutato intorno ai 20 miliardi di dollari, i cui fiori all’occhiello sono decine di testate giornalistiche e tv, ma anche holding nei settori energia, automobili, industria estrattiva, industria militare, edilizia, infrastrutture, banche. Autoesiliatosi nel 1999 in Pennsylvania, Gullen ha fondato il movimento Hizmet e nel 2002 garantisce a Erdogan il sostegno elettorale della sua rete organizzativa formata in Anatolia da magistrati, poliziotti, funzionari di stato, tutti formatisi nelle
sue scuole grazie a borse di studio, ma anche l’appoggio dei piccoli artigiani e commercianti anatolici e dei poveri cui la sua confraternita garantisce scuole e assistenza sanitaria. Questo permette a Erdogan di raddoppiare quasi i consensi. Gulen in cambio ha avuto la strada spianata in Parlamento per i suoi, ma anche affari lucrosi, vantaggi fiscali ecc.
Il sodalizio si incrina nel 2011, molti seguaci di Gulen sono stati rimossi dagli incarichi pubblici o ostacolati nella loro carriera politica e gli appalti più importanti, i contratti più remunerativi sono toccati a imprenditori vicini all’AKP. E infine Erdogan ha impedito a Gulen la scalata del gruppo editoriale Dogan. La risposta di Gulen è stata nel 2012 una indagine contro Hahan Fidan, capo del MIT (i servizi segreti turchi) accusato di massacri indiscriminati a danno di civili curdi. Nel dicembre 2013 una indagine per corruzione condotta da un giudice aderente a Hizmet, ha coinvolto politici vicinissimi a Erdogan e suo figlio Bilal. Erdogan ha risposto facendo arrestare il direttore di Cumhuriyet, Can Dundar, che aveva denunciato le collusioni del governo con l’Isis e il commissariamento e la chiusura del quotidiano Zaman, voce del Gulen pensiero. All’origine della rottura il fatto che da un lato Gulen avversa il progetto presidenziale di Erdogan che gli pare contrario alla pluralità degli interessi borghesi che si devono rappresentare, dall’altro è contrario alla politica pro Isis e di infiltrazione in Siria adottata da Erdogan e che ha rovinato settori economici turchi legati all’interscambio con la Siria. Gulen e i suoi hanno anche osteggiato l’apertura al Qatar e ai Fratelli Mussulmani. E soprattutto hanno deprecato i cattivi rapporti con l’amministrazione Usa.
Nei confronti dei lavoratori invece Gulen è favorevole come Erdogan alle maniere forti.
Il golpe
Il governo turco ha accusato del golpe un gruppo di militari (che sarebbero stati guidati da Muharrem Köse, un ex ufficiale, rimosso nel marzo 2016 dallo Stato Maggiore forse ucciso nella notte del 17); ma ha denunciato la regia di Gulen, con la complicità del governo USA. Gulen e parte della stampa internazionale (es. New York Times) accusano a loro volta Erdogan di aver orchestrato il golpe per aver l’occasione di passare a una repressione più dura. La stessa melmosa confusione regnò all’indomani del sanguinoso attentato di Ankara (dicembre 2015), di cui fu accusata l’Isis, ma che secondo molti era stato organizzato dallo stesso premier per vincere le elezioni.
Se applichiamo il detto antico “cui prodest” è evidente che sul breve periodo a giovarsene è Erdogan, ma potrebbe essere una conclusione troppo semplice.
Il contro colpo di stato
Nella sua durissima controffensiva Erdogan ha ordinato l’arresto di circa 2.839 mila militari, dai soldati semplici ai generali, ma anche il licenziamento di 2.745 fra procuratori e giudici, e l’arresto dei 140 giudici della Corte d’Appello e della Corte Suprema oltre che del vicepresidente della Corte Costituzionale Alparslan Altan.
Fra i militari sono stati silurati 29 colonnelli e 5 generali, fra cui il capo della Seconda Armata di stanza sui confini con la Siria, l’Iraq e l’Iran.
L’elevato numero di arresti ed epurazioni fa pensare che la lista di personaggi scomodi da eliminare fosse pronta da tempo e che il golpe offra il pretesto per attuare la purga.
Una prima analisi dimostrerebbe che i golpisti siano appartenuti principalmente alla Jandarma, cioè la Gendarmeria o polizia militare, un corpo separato che risponde al Ministero degli Interni. Le colpe dei militari sono “evidenti”. Ma perché i giudici?
I giudici sono accusati di essere la longa manus di Fethullah Gülen, sono rei di aver messo sotto accusa per corruzione i familiari di Erdogan (in particolare il figlio), di aver mandato assolti i 236 “complottisti” del presunto golpe del 2003 e di aver annullato le condanne del 2008 (Ergenekon) per insufficienza di prove.
E’ stato osservato che questo colpo di stato è stato particolarmente maldestro, approssimativo, un capolavoro di disorganizzazione, come se fosse stato orchestrato da incapaci, non consapevoli della complessità di uno stato moderno, oppure da militari cui è stato fatto credere che avrebbero goduto di ampi appoggi, che poi non ci sono stati. Inoltre questo colpo arriva in un certo senso annunciato. Un articolo del Wall Street Journal del 15 maggio (Turkish Military’s Influence Rises Again), faceva cenno alle voci di un colpo di stato circolate a marzo 2016 sui media turchi che individuavano in Obama il mandante di una azione per rovesciare Erdogan.
Nell’articolo l’esercito turco è presentato come l’unico correttivo, dopo le dimissioni forzate avvenute il 5 maggio 2016 di Ahmet Davutoglu da primo ministro, all’avventurismo di Erdogan. Un presidente che ha flirtato a lungo con l’Isis nella speranza di conquistarsi in Siria un’area cuscinetto sul confine sud. Fallita questa ipotesi, Erdogan avrebbe accarezzato l’idea di una spedizione militare in Siria senza un accordo con la Nato, trattenuto però dai militari, contrari a incrinare la storica alleanza della Turchia con gli Usa. Sempre i militari avrebbero suggerito la ripresa della repressione nei confronti del PKK. Il Wall Street Journal esprimeva l’opinione che il miglior alleato turco per gli Usa fosse l’esercito e il suo capo di Stato Maggiore, generale Hulusi Akar, lo stesso che, catturato dai golpisti di oggi, è stato destituito da Erdogan e sostituito con Umit Dundar.
Evidentemente Erdogan legge il Wall Street Journal, dal momento che ha deciso già nella notte del golpe di “consegnare” i 1500 militari americani presenti nella base di Incirlik, che secondo il ministro degli esteri Cavusoglu, “ i soldati di Incirlik sarebbero implicati del tentato golpe”.
L’episodio fa presagire tensioni interne alla Nato, di cui la Turchia è il secondo “pilastro” almeno come numero di militari, e tensioni con gli Usa. Se confermato indicherebbe che uno dei nodi forti dell’attuale contrasto risiede nelle scelte di politica estera di Erdogan in Medio Oriente e nel futuro dei rapporti con gli Usa e la Russia. Russia e Usa, come ai tempi della guerra fredda, sono stati l’ostacolo alle ambizioni “ottomane” di Erdogan in Siria e sono entrambi rei di aver appoggiato i curdi in funzione anti Isis..
Fonti militari Usa hanno diramato l’informazione che, nelle prime ore del golpe, Erdogan avrebbe tentato di rifugiarsi in Germania, ma il governo tedesco, conferma Der Spiegel, avrebbe rifiutato la richiesta di atterraggio del jet presidenziale.
La Turchia aveva firmato con Berlino l’accordo vergognoso sui migranti: sei miliardi di € in cambio dell’impegno di impedire ai profughi siriani di raggiungere i Balcani.
Ma da parte delle cancellerie occidentali, scrive il NYT, c’è stato un appoggio tardivo e a denti stretti “al presidente legittimo”.
La piazza
Se Erdogan ha inneggiato ai suoi sostenitori scesi nelle strade a sostenerlo, anche qui il quadro è più complesso. Come ha scritto il Guardian “la reazione dei cittadini turchi che sono scesi nelle strade ha più a che fare con il loro passato che non con la popolarità del Presidente” e “attivisti e i politicamente critici hanno velocemente dichiarato che essere uniti per resistere a un colpo militare non significa appoggio al partito di governo”. Quindi una “resistenza eterogenea”, afferma Reporters Senza Frontiere, che segue le vicende dei giornalisti arrestati per aver semplicemente espresso solidarietà ai curdi.
Erdogan ha ancora i suoi sostenitori fra chi lo considera artefice del loro benessere e di mantenere l’ordine, ma molti altri semplicemente non vogliono il ritorno dei militari.