ANALISI
di Ugo Tramballi
Il Libano era bombardato da più di tre settimane; la
fanteria israeliana era ormai entrata in profondità verso il Litani. Eppure i
katyusha continuavano a essere lanciati senza diminuire significativamente di
numero. Stupiti, gli israeliani constatavano che a dispetto delle previsioni
degli strateghi e dei loro servizi segreti, la catena di comando Hezbollah
continuava a funzionare.
Nessun
esercito di pace o di guerra si schiera in un territorio insidioso senza una
buona intelligence: senza avere il polso della gente tra la quale dovrà
accamparsi, dell’umore nei villaggi che le sue pattuglie dovranno attraversare,
senza conoscere alleanze e rivalità fra i loro capi. Hanno scoperto di avere pessime informazioni gli
israeliani, difficile che gli ufficiali del nostro contingente ne riceveranno
di migliori in una regione che Hezbollah aveva sigillato anche dal resto
del Libano.
Un problema in più senza il quale la missione già sarebbe
stata la più difficile di quelle fatte finora dagli italiani in nome della
pace. E nell’eventualità di un comando, anche condiviso, non ci saranno più le
mortali incomprensioni con il comando americano come in Somalia nel 1992.Ma non ci saranno reti di
sicurezza: qualcuno di più importante che si assuma responsabilità
politiche o quelle militari di rispondere al fuoco.
Da che esiste l’Onu, i successi e i fallimenti delle sue
missioni di pace sono 50 a 50. Il rischio merita dunque di essere corso? O, per dirla
all’italiana, chi ce lo fa fare? Se nel
Libano Sud non ci schieriamo in fretta, israeliani ed Hezbollah ricominceranno
la loro guerra: «Do ai due nemici 9-10 giorni prima che riprendano a sparare »,
dice Timur Goksel, l’ex portavoce dei 2mila caschi blu dell’Unifil, inutilmente
schierati dal 1969.Ma se
la missione parte, non è certo che potremo scongiurare la ripresa del conflitto.
Le dichiarazioni di Bashar Assad contro un eventuale schieramento anche fra
Libano e Siria, rendono tutto ancora più difficile: se è «ostile» un
dispiegamento lungo quella frontiera, aumenta il rischio che implicitamente lo
sia anche quello fra Libano e Israele. Senza dichiararlo apertamente, è come se
la Siria arruolasse il contingente Onu dalla parte dei nemici di Hezbollah e
suoi.
Che si parta o no, l’Italia deve continuare a ribadire in
modo forte e chiaro la sua disponibilità a esserci, ed eventualmente a
comandare. Per la
comunità internazionale da tempo i nostri militari sono un corpo altamente
specializzato e professionale nel mantenimento della pace in
situazioni complesse: è un
asset nazionale quanto la moda, le macchine utensili e poche altre
eccellenze italiane nel mondo globalizzato.
Ma è
anche una questione politica di dignità e di profilo internazionale in una
regione che ci riguarda direttamente: qualcosa che ha a che vedere
con l’«interesse nazionale ». Per molti anni la nostra politica mediterranea è stata pesantemente
squilibrata verso gli arabi; nei cinque del Governo Berlusconi è stata dichiaratamente
filoisraeliana. Essere protagonisti nella crisilibanese ci offre la
possibilità di definire finalmente una politica più chiara ed equilibrata che
ci renda soggetti credibili per gli uni e per gli altri.
Ma quando partiremo, è consigliabile che la missione di pace abbia un forte
sostegno popolare: basterebbe qualcosa di simile all’affetto per la nazionale in Germania,
ma più duraturo. Anche maggioranza e opposizione, fazioni dell’una e
dell’altra, hanno l’obbligo di trovare una posizione comune e solidale.
Consistente nel tempo, anche quando dovessero sorgere difficoltà o esserci
incidenti: più profonda dei calcoli di fazione, degli assunti ideologici,
perfino del politicamente corretto. Ed è anche consigliabile che il ministro degli Esteri
D’Alema faccia un viaggio a Damasco per incontrare Bashar Assad,
indipendentemente da come la pensino gli americani: potrebbe essere di qualche
utilità per rafforzare
la sicurezza dei nostri soldati. Ma soprattutto, un ruolo militare
così impegnativo obbliga il Paese che guida la missione ad avere anche un
profilo politico forte.