Mentre il presidente del Consiglio Renzi e il ministro degli Esteri Gentiloni continuano a invitare alla cautela, di fatto l’Italia sta lentamente “scivolando” verso un intervento militare diretto nel paese, come hanno già fatto altre nazioni imperialiste. Secondo il governo, tale intervento dovrebbe avvenire solo su richiesta di un governo libico che unifichi le fazioni di Tripoli e Tobruk, con una coalizione autorizzata dall’ONU di cui l’Italia avrebbe la guida. Ma il governo unitario deve ancora nascere e quello di Tripoli almeno per ora non vuole contingenti stranieri.
Sui giornali si parla di un invio imminente di 50 incursori del battaglione Col Moschin a supporto dei 40 agenti dei servizi segreti già in loco (sito web del Sole 24 Ore, 3 marzo).
Intanto, il governo ha acquisito i poteri per compiere di fatto operazioni militari lasciando all’oscuro il Parlamento: con un decreto del Consiglio dei Ministri – secretato, quindi non consultabile né dai semplici cittadini né dai parlamentari – il comando delle operazioni per le “gravi crisi all’estero” viene affidato al Dipartimento per la Sicurezza Dis che risponde direttamente al Presidente del Consiglio, non alle gerarchie militari. Non solo, ma l’agenzia di intelligence per l’estero Aise potrà ora contare sul sostegno di militari dei corpi speciali, slegati dalla catena di comando consueta. E’ sempre il Sole 24 Ore che ci riporta alcuni stralci del decreto: “il Presidente del Consiglio, in presenza di situazioni di gravi crisi all’estero che richiedano provvedimenti eccezionali, avvalendosi del Dis, possa autorizzare l’Aise ad adottare misure di contrasto e di intelligence anche con la collaborazione tecnica e operativa della forze speciali della Difesa”. Un decreto segreto su misura per una guerra nascosta, con buona pace di chi ancora crede alla sovranità del Parlamento.
Intanto, il governo statunitense preme perché l’Italia impieghi un contingente “corposo”, tanto che ad una intervista al Corriere della Sera del 3 marzo il suo ambasciatore a Roma John Phillips ha parlato di “cinquemila uomini”, un modo per spingere Roma a rompere gli indugi. Quanto al contributo americano, “Uno dei sostegni sarà l’intelligence, non abbiamo discusso di nostre truppe”. Della serie: armiamoci e partite.
Palazzo Chigi nicchia: i rischi sono alti non solo per un intervento “al buio”, dove i soldati sul terreno potrebbero essere attaccati – o per lo meno avversati – da tutte le forze in campo, ma anche per attentati di rappresaglia sul suolo italiano in occasione del giubileo.
Ma oltre alle pressioni statunitensi, a convincere definitivamente l’imperialismo italiano ad un massiccio intervento di terra potrebbe essere il movente economico: secondo il Sole 24 Ore del 6 marzo, il mercato libico varrebbe la bellezza di 130 miliardi di dollari, che potrebbero almeno triplicarsi se le esportazioni petrolifere tornassero quelle precedenti alla guerra. Con articolo di inusuale franchezza, Alberto Negri definisce la guerra all’ISIS una motivazione “di comodo”: “La guerra è in realtà un regolamento di conti e una spartizione della torta tra gli attori esterni e i due poli libici principali, Tripoli e Tobruk, che hanno due canali paralleli e concorrenti per l’export di petrolio.
Qui si possono liberare alcune delle più importanti risorse dell’Africa: il 38% del petrolio del continente, l’11% dei consumi europei. È un greggio di qualità, a basso costo, che fa gola alle compagnie in tempi di magra. In questo momento a estrarre barili e gas dalla Tripolitania è soltanto l’Eni: una posizione, conquistata manovrando tra fazioni e mercenari, che agli occhi dei nostri alleati deve finire e, se possibile, con il nostro contributo militare.
Il bottino libico, nell’unico piano esistente, deve tornare sui mercati, accompagnato da un sistema di sicurezza regionale che, ignorando Tunisia e Algeria, farà della Francia il guardiano del Sahel nel Fezzan, della Gran Bretagna quello della Cirenaica, tenendo a bada le ambizioni dell’Egitto, e dell’Italia quello della Tripolitania. Agli americani la supervisione strategica.”
Un’analisi in netto contrasto con la propaganda ufficiale, secondo la quale dovremmo intervenire per salvare i libici dalla guerra civile, i migranti dai naufragi e noi stessi dagli attacchi dell’ISIS. Un’analisi di cruda realpolitik, fatta per dare voce alle istanze di una borghesia italiana gravemente danneggiata dalla guerra iniziata da Francia e Gran Bretagna, “quando il presidente francese Nicolas Sarkozy attaccò Gheddafi senza neppure farci una telefonata.” Anche Renzi e Gentiloni non perdono occasione per rimproverare a Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti di aver trasformato la Libia in uno stato fallito fonte di rischi e disastri. Ora questa borghesia e il suo governo temono di doversi sobbarcare gran parte dei rischi e dei costi di un’operazione che potrebbe avvantaggiare di più i suoi “alleati” – in questo caso le virgolette sono d’obbligo.
Per noi il cinismo dei governi e il carattere pretestuoso della guerra al Califfato non sono una novità. E non ci rattristano certo le difficoltà dell’imperialismo di casa nostra, che nel 2011 ha seguito controvoglia gli altri predoni della NATO e oggi potrebbe addirittura doverli precedere.
Ma in circostanze come questa emerge in maniera sempre più evidente il carattere borghese delle istituzioni liberali e la subalternità delle istituzioni parlamentari rispetto ai governi.
Ciò detto, nessun Parlamento ha mai fermato una guerra, e per questo la nostra risposta non va certo cercata nella restituzione di una “sovranità” perduta al Parlamento, ma nella mobilitazione di lavoratori e giovani contro la guerra su posizioni internazionaliste. A partire dalla partecipazione allo sciopero e alle manifestazioni del 18 marzo.