Da diversi giorni molti mass-media, ma soprattutto il governo, ci danno buone notizie sull’andamento dell’economia, ma soprattutto dell’occupazione: la ripresa sarebbe dietro l’angolo, aumenta la fiducia, Jobs Act e Quantitave Easing farebbero già sentire i loro effetti. Allo scopo, il premier si è vantato di aver creato ben 79mila nuovi contratti a tempo indeterminato nei soli primi due mesi dell’anno, mentre il ministro del lavoro Giuliano Poletti il 30 marzo al convegno milanese di Confapi Industria si è sbilanciato a ipotizzare 1 milione di nuove assunzioni a tempo indeterminato (numero che comunque comprenderebbe le conversioni dei contratti precari).
Salta subito agli occhi come queste cifre, basate su solo due mesi dell’anno, possano servire per una battuta in conferenza stampa o per un’uscita ad effetto sui social network, non certo per un’analisi economica, soprattutto se vengono usate per suffragare la validità di una riforma – il Jobs Act – che è diventata legge ai primi di marzo, quindi dopo il periodo preso in esame.
Ma vedendo da vicino i dati sul mercato del lavoro, per parziali che siano, emerge una realtà ben diversa: confrontando i dati ISTAT dei primi due mesi di quest’anno con gli stessi del 2014, la disoccupazione risulta essere invariata, anzi impercettibilmente aumentata (su febbraio: dal 12,5% del 2014 al 12,7% del 2015), a valle di un 2014 con una media analoga (12,7%); i dati provvisori sulla disoccupazione specificano che nel febbraio 2015 ha raggiunto il 42,6% fra i giovani (15-24 anni), proprio il settore proletario più precario, che quindi – stando all’equazione renziana “più flessibilità = più occupazione” – dovrebbe essere più occupato.
Le “grandi” assunzioni di inizio 2015 non sarebbero che un effetto da un lato del turnover fisiologico, dall’altro della sospensione delle assunzioni da parte degli imprenditori che hanno preferito aspettare le nuove norme prima di assumere nuovo personale: “effetto rimbalzo” lo chiama il Sole 24 Ore del 31 marzo.
E’ sempre il quotidiano di Confindustria – organizzazione tutt’altro che ostile al Jobs Act – a fare un’analisi impietosa confrontando nei primi bimestri del 2014 e 2015: a crescere non sono soltanto le assunzioni, ma anche le cessazioni dei contratti “stabili” (vedi tabella sottostante). Il saldo è positivo, e la percentuale delle nuove assunzioni a tempo indeterminato in lieve crescita (dal 18,3% di gennaio-febbraio 2014 al 21,96% del 2015), ma semplicemente perché la nuova normativa garantisce non solo una minore spesa contributiva, ma anche un drastico aumento di flessibilità tale da rendere questi contratti molto simili a quelli precari già vigenti. Riassumendo: più che aumentare gli impieghi “stabili”, aumentano – e di poco – i contratti “meno precari”.
Il sole 24 ore, martedì 31 marzo 2015
Se esaminiamo poi le cifre del PIL, secondo la nota di marzo dell’ISTAT “Il continuo miglioramento delle opinioni di consumatori e imprese non trova un pieno riscontro nelle informazioni sui volumi produttivi”, anche se “Il processo di deflazione si è stabilizzato.”; nella nota di febbraio l’istituto di statistica prevedeva invece una variazione del PIL compresa fra -0,1% e +0,3%. Insomma, stando alle previsioni – se una volta tanto ci azzeccano – e alle limitatissime misurazioni effettuate, per ora la crisi si starebbe trasformando in stagnazione, non certo in ripresa.
Non vogliamo qui a fare previsioni economiche alternative a quelle governative, ma semplicemente evidenziare l’inaffidabilità dei proclami ottimistici su ripresa economica e diminuzione della precarietà. Come abbiamo già detto, la maggiore flessibilità non aumenta i clienti di un’azienda e non le garantisce l’accesso al credito, ma casomai le permette di scaricare le proprie difficoltà economiche sui dipendenti resi più ricattabili e licenziabili.
Per i lavoratori che passano da un contratto a progetto a uno a tempo indeterminato – dove “indeterminato” diventa sempre più sinonimo di “incerto” – le nuove norme possono inizialmente sembrare un salto di qualità, ma presto anche loro faranno i conti con la maggiore precarietà che queste norme comportano, soprattutto confrontando la loro situazione con quella dei dipendenti più anziani che – almeno per il momento, nel prossimo futuro è da verificare – ancora godono delle vecchie garanzie, seppure sempre meno applicate. E’ compito dei comunisti impedire che queste nuove ingiustizie diventino l’occasione di un ennesimo scontro fra giovani precari – ora “indeterminatamente” precari – e anziani “garantiti”, ma siano invece la leva per unire i diversi comparti del proletariato non solo contro le nuove norme che aumentano lo sfruttamento, ma anche contro tutto il sistema sociale fondato su tale sfruttamento.