L’Afghanistan che ha paura della sconfitta

AFGANISTAN, USA, EUROPA

REPUBBLICA Sab.
10/6/2006   Guido Rampoldi

Troppi errori Usa, gli integralisti riprendono coraggio

Nascosti nelle maglie dello
stato, gli jihadi hanno ripreso forza: sono ovunque
Cinque anni fa tutti speravano in grandi cambiamenti: oggi l´esperimento è
fallito. La paura è il ritorno di uno stato teocratico
I Taliban sono di nuovo forti: bloccano vie di comunicazione, uccidono maestri.
Dietro di loro c´è ancora il Pakistan
I terroristi sono stati rivitalizzati dall´Isi, i servizi segreti pachistani,
con denaro e assistenza tecnica

In AFGANISTAN gli integralisti islamici sono parte delle
stesse istituzioni che dovrebbero combattere l’integralismo, trafficanti di
droga e polizia antidroga, stato e anti-stato.

I Taliban hanno ripreso forza grazie al rinnovato appoggio
dei servizi segreti pakistani, mentre IRAN e RUSSIA rafforzano i propri legami
locali in vista di azioni future.

Le repressioni degli USA colpiscono indiscriminatamente
civili e Taliban aumentando l’impopolarità delle truppe straniere.

Gli aiuti internazionali sono
gestiti male: gli USA sono i primi donatori e ma anche i primi dissipatori, gli
europei sono andati avanti in ordine sparso invece di collaborare fra loro e
imparare gli uni dagli altri.

Abbandonare l’AFGANISTAN
vorrebbe dire assumersi la responsabilità di lasciarlo ai signori della guerra
che lo hanno già insanguinato per anni.


Prima di quella mattina, il 29 maggio scorso,
Rahimullah Samander non aveva mai pensato di espatriare.
Neppure al tempo dei Taliban, quando rischiava la pelle per informare il mondo
sui modi spettacolari con cui l´emirato puniva le donne. Neppure le due volte
in cui la polizia coranica lo gettò in una prigione. Ma da quel lunedì un
sospetto tormenta il ventottenne presidente dell´associazione dei giornalisti:
gli occidentali perderanno la guerra dell´Afghanistan. La perderanno per la
cecità dei generali americani e perché continuano a spararsi sui piedi con le
loro armi modernissime.
E quando scapperanno da Kabul, insieme a loro spariranno dal panorama non
soltanto i volti delle ragazze (le ricacceranno sotto i burqa, di questo
Samander è sicuro), ma soprattutto anche l´unica possibilità per ridurre lo
strapotere degli jihadi, i "combattenti della guerra santa", insomma
le milizie fondamentaliste che da trent´anni dominano la scena afgana. Oggi
gli jihadi sono la guerriglia e l´anti-guerriglia, il narcotraffico e l´anti-narcotici,
le guardie e i ladri, lo Stato e l´anti-Stato, la maggioranza e l´opposizione,
il potere e il contro-potere, in una parola: tutto
. E ovviamente Samander
non vedrebbe la fine del mese se scrivesse del malaffare in cui sguazza questo
o quel comandante.
Eppure la presenza in Afghanistan di americani e Nato ha prodotto l´inizio
di cambiamenti insperabili ancora cinque anni fa. Basta vedere quel che accade
in Parlamento. E´ vero che i "combattenti della guerra santa" sono
almeno la metà dell´aula, ma alcuni cominciano ad adattarsi alle regole della
democrazia, e i ravveduti o gli onesti, perché ve ne sono, riescono perfino a
tollerare gli affronti di Malalay Joya
, la deputatessa che grida in faccia
agli jihadi quel che pensa di loro una parte rilevante della generazione
giovane. Grossomodo: siete un branco di criminali. Altro che patrioti:
assassini, stupratori, ladri. E Samander, che aveva presentato la ventisettenne
Joya alla stampa afgana, s´era convinto che malgrado tutto fosse ragionevole
scommettere sul futuro del Paese. Finchè, la mattina del 29 maggio, ha capito
che le sue speranze non sono più solide dello Stato afgano. «Chi fosse stato
pronto a sfruttare l´occasione – racconta – in due ore avrebbe preso la
capitale».
Questa storia ci interessa non solo perché dimostra quanto sia volatile il caos
afgano, ma anche perché ne chiama in scena i protagonisti: gli americani, gli
jihadi nel doppio ruolo di poliziotti e saccheggiatori, le organizzazioni
umanitarie. Accade che alle dieci di mattina i freni d´un blindato americano
cedano di colpo e alcune tonnellate di metallo s´abbattano sulle auto in coda.
Risultato: un morto, vari feriti, e un parapiglia tra automobilisti e marines
cui i secondi si sottraggono prima sparando e poi con la fuga. Il quartiere
insorge. E´ un quartiere tagico, devoto al capo dell´opposizione, l´ex
presidente Burhanuddin Rabbani
, un fondamentalista jihadi che di recente ha
espresso così la sua visione del mondo: «A causa della loro cultura corrotta
gli occidentali vogliono negare ai musulmani ciò che ad essi gioverebbe. Essi
non sono venuti qui per costruire l´Afganistan, ma per corromperci. C´è una
cospirazione contro la nostra fede, la nostra libertà e la nostra sicurezza».
La gente di Rabbani cavalca la rivolta. Appaiono ritratti di Masud,
leggendario guerriero tagico. Si bruciano ritratti del presidente Karzai.
Arrivano ragazzi dalle madrasse, le scuole coraniche. Alla fine della mattinata
una rivolta spontanea è divenuta per metà una dimostrazione politica cadenzata
dagli slogan del jihadismo tagico: «L´islam è la soluzione», «Abbiamo cacciato
i russi, abbiamo cacciato i Taliban, cacceremo anche gli americani». I
poliziotti stanno a guardare. Alcuni reparti in seguito spareranno sulla folla,
secondo Rahimullah quando prenderà forma un tentativo di assalto al Parlamento.
Ma il grosso sceglie la neutralità, e non pochi, tolta la camicia, si uniranno
ai saccheggiatori
. I saccheggi hanno un pretesto politico: prendono di
mira, così come le sassaiole, organizzazioni umanitarie internazionali, un
hotel di lusso frequentato da stranieri, le auto e le autoradio del personale
della tv Ariana (le due tv afgane paiono troppo sboccate ai fondamentalisti).
Gli stranieri si chiudono in casa, i soldati occidentali in caserma, i giornalisti
dell´Ariana si armano di bastoni per vendere cara la pelle. Occorreranno sei
ore perché la rivolta si plachi e Kabul torni alla normalità.
Se ripercorriamo la sequenza al rallentatore ci imbattiamo innanzitutto nei
marines e nel loro stile sbrigativo. Gli americani seguono codici di condotta
diversi dai codici Nato, e questo è curioso perché secondo logica gli uni e gli
altri avrebbero lo stesso obiettivo, vincere la guerra afgana. Invece gli
obiettivi non coincidono, e anzi cominciano a risultare in contraddizione. I
novemila soldati Nato (presto sedicimila) devono «sostenere e assistere» il
governo afgano
: il loro mandato Onu li qualifica non come truppe
"peace-keeping" ma "peace-enforcing", quella che si chiama
una «missione robusta». I ventimila americani della Enduring freedom sono
proiettati unicamente sulle tracce di Al Qaeda e dei capi Taliban nel
centro-sud dell´Afghanistan.
Il problema è che i loro interventi sono così muscolari da gettare interi
villaggi nelle braccia dei Taliban e destabilizzare la flebile autorità del
presidente di Hamid Karzai
. Mi dice suo nipote Jamil, membro del Consiglio
di sicurezza nazionale: «Gli americani bombardano senza chiederci
autorizzazioni e non di rado finiscono per combinare disastri, come in maggio a
Kandahar, quando hanno massacrato per sbaglio 23 innocenti. Spesso trattano la
gente – per esempio quando passano al setaccio un villaggio – in modo assai
rude. Insomma stanno provocando la popolazione: se non cambiano metodi avranno
molti problemi. L´ostilità verso i militari statunitensi sta crescendo, la
gente semplice comincia a detestarli. Questo l´avremmo detto un migliaio di
volte agli americani – generali, diplomatici, politici. Abbiamo ottenuto
qualche assicurazione vaga ma non è cambiato niente». Jamil Karzai non nasconde
però che esistono anche colpe afgane, in primo luogo l´inettitudine di
governatorati e comandi locali di polizia (spesso colonizzati da jihadi di
dubbia fama). Un alto funzionario della sicurezza afgana è più esplicito:
«Nello schema ideale le cose dovrebbero andare così. Gli americani colpiscono i
Taliban d´un villaggio, poi interviene la polizia afgana e bonifica la zona,
infine arriva l´amministrazione civile e pianifica interventi come scuole,
pozzi, quel che serve agli abitanti. Nella realtà va in tutt´altro modo. I
poliziotti afgani guadagnano 50 dollari al mese (75 dal prossimo anno) e quando
perquisiscono le case, talvolta le saccheggiano. Al loro seguito non arriva
alcuna amministrazione civile, perché i soldi non ci sono. Quando i poliziotti
se ne vanno nel villaggio tornano i Taliban, e si ricomincia».
I Taliban sono tornati ad essere quel che erano in origine: gli ascari
dell´ISI, i servizi segreti pachistani. Di questo a Kabul nessuno dubita.
Islamabad li avrebbe rivitalizzati con denaro e assistenza tecnica sia per
reazione all´alleanza strategica Usa-India cui è affiliato anche l´Afghanistan
di Karzai, sia perché il presidente Musharraf può vincere le elezioni del 2007
solo con i voti dei partiti fondamentalisti pachistani, alleati dei Taliban.
«Almeno fino a poco tempo fa l´intera shura di Kandahar (di fatto il governo
Taliban in esilio), incluso il mullah Omar, viveva a Karachi, in Pakistan,
protetta dall´ISI», sostiene l´alto funzionario della sicurezza afgana. Di
fatto i Taliban si sono moltiplicati in pochi mesi, come accade quando gli
jihadi disoccupati trovano un ingaggio
. Riescono a rendere insicure tutte
le via di comunicazioni. Restano fedeli alle loro vecchie ossessioni, come
dimostrano gli assassini di maestri colpevoli di insegnare anche alle bambine. Secondo
il Crisis group, un affidabile centro-studi americano «indagini recenti hanno
dimostrato che gli afgani in larga maggioranza si oppongono ai Taliban, ad Al
Qaeda, ai signori della guerra e ai trafficanti
. Quando parliamo con gli
afgani essi in maggioranza ci chiedono più truppe (straniere), non meno».
Questo giudizio probabilmente fotografa l´umore prevalente nella generazione
giovane e in quasi tutte le maggiori città del Paese, ma non vale tra gli
anziani e nelle terre storiche dello jihadismo, incluso il sud, dove gli
americani sono riusciti a farsi detestare non solo con la sbrigatività dei loro
metodi, ma con errori addirittura grotteschi, condivisi o non ostacolati dalla
Nato. Hanno regalato ai Taliban intere province del sud organizzando o
minacciando l´eradicazione dei papaveri da oppio
, da cui dipende il 40% del
Pil afgano. Nel 2005 le principali organizzazioni umanitarie presenti in
Afganistan, inclusa la Caritas italiana, hanno sottoscritto un appello pubblico
a Bush per indurlo a desistere. L´appello segnala che se non venisse offerta ai
contadini un´alternativa (complicatissima), un attacco massiccio alle
coltivazioni inciterebbe milioni di afgani alla ribellione, «destabilizzando
larghe aree del Paese». Ma l´eradicazione è proseguita, in genere per mano
della polizia afgana, che spesso la usa per punire chi non le paga il pizzo.
Errori non meno rovinosi hanno costellato l´erogazione degli aiuti
internazionali, che per un giudizio diffuso hanno raggiunto gli afgani in
piccola parte, deviati da frodi e sprechi o assorbiti da spese per il personale
e per la sicurezza delle organizzazioni umanitarie. Gli Stati Uniti sono stati
il maggior donatore (3.5 miliardi di dollari) ma anche il maggior dissipatore
.

Gli europei sono andati avanti ciascuno per proprio conto. Incapaci di darsi
un coordinamento e una strategia comune, hanno sprecato denaro ed esperienze
che potevano essere messe in comune
. Così non ha fatto scuola la
Cooperazione italiana, che pure avrebbe potuto essere presa a modello per due
motivi: il rapporto ottimale tra spese di gestione e quanto effettivamente
viene speso per gli afgani (95% delle somme erogate); e il gradimento della
popolazione. Gli italiani operano soprattutto nella sanità, e hanno progetti-pilota
(paraplegici che aggiustano computer, cooperative femminili) che, se replicati,
potrebbero aiutare a cambiare i costumi tradizionali, per i quali donne e
handicappati sono comunque un´umanità minore.
A fronte di tutto questo è quasi miracoloso che l´Afghanistan non sia
diventato un Iraq, malgrado i soldati occidentali qui siano un quinto di quanti
sono in Mesopotamia (Iraq e Afganistan hanno all´incirca la stessa popolazione)
.
Per loro buona sorte hanno di fronte un nemico debolissimo, benchè fortemente
aiutato dai servizi segreti degli uni e dall´ottusità degli altri. Ma non va
dimenticato che due grandi attori restano ancora dietro le quinte. Karzai è
stato abile nell´ottenere la (temporanea) non- belligeranza di iraniani e
russi. Ma Teheran e Mosca, spiega un afgano che sa, sono comunque attivissime
in Afghanistan, dove stanno predisponendo gli strumenti per le mosse future.
Mosca ha costruito ponti con i suoi nemici di un tempo, i mujaeddhin tagichi
del fondamentalista Rabbani.

Teheran va ben oltre. Sembra ripetere in Afghanistan parte della strategia
con cui si sta impadronendo dell´Iraq meridionale. La carta vincente sono i
profughi. A partire dalla guerra santa contro i russi, l´Iran ha ospitato
stabilmente tre milioni di fuggiaschi afgani. E all´interno di questa comunità
ha costruito un´agguerrita struttura militare e spionistica che, rimpatriata
con la sconfitta dei Taliban, adesso è in Afghanistan
. Teheran la starebbe
finanziando generosamente, e comincerebbe ad armarla, probabilmente nella
previsione di scagliarla contro gli americani se fosse attaccata. Così non
sarebbe un caso se i rimpatriati in genere non tornano nelle zone d´origine ma si
stabiliscono nelle periferie di Kabul e di Herat
, le due maggiori città
afgane, nelle cui periferie gli agenti iraniani stanno facendo forti
investimenti immobiliari.
Questa manovra avrebbe due obiettivi: da una parte predisporre una massa
d´urto nei luoghi strategici, dall´altra cambiare gli equilibri demografici in
alcuni territori sul confine afgano-iraniano, a cominciare dalla provincia di
Herat, dove il governatorato sarebbe fin d´ora sotto il controllo dei servizi
segreti di Teheran
.
Questo lo stato delle cose, e non è una situazione rassicurante. Presto
forze poderose potrebbero mettersi in moto per dimostrare ad americani ed
europei che hanno commesso un errore fatale irrompendo in Afghanistan.
Che l´islam non li vuole nelle sue terre. E soprattutto che l´Asia centrale,
inclusi gasdotti e petrolio del Caspio, non è un affare per occidentali.
Ovviamente è possibile che la situazione al contrario migliori, soprattutto se
finalmente gli europei prendessero in mano il destino della missione Nato. Ma
al momento la tendenza è al peggioramento
. Se dunque decidiamo di restare
in Afghanistan dobbiamo sapere che i rischi potrebbero aumentare. Perciò
conviene guardare in faccia il pericolo sin da ora, piuttosto che ritrovarci
come in Iraq a recitare la commedia della "forza di pace" in un
teatro di guerra. Se invece decidiamo di scappare rompendo la solidarietà
occidentale, almeno ci si chiaro quel che sarebbe dell´Afghanistan senza i
soldati occidentali.
Quattordici anni fa, soltanto per decidere a chi appartenesse Kabul gli
jihadi fecero fuori, combattendosi, 65mila afgani. In seguito rasero al suolo quel
che restava del Paese, provocando ripetuti stermini per fame. Oggi non andrebbe
diversamente. Beninteso, scappare è una scelta. Si risparmiano denari e rischi.
Si fa bella figura con l´elettorato. Non ci si sporcano le mani e si sventola
la bella bandiera della pace. Però usciamo dalle ipocrisie: non si resta
innocenti.

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