L’ACCIAIO DELLA LOTTA DI CLASSE

Mentre in Italia è in corso un’altra tappa della lotta dei lavoratori del siderurgico,[1] circa 400 operai dell’Ilva di Cornigliano – sostenuti dai lavoratori di altre industrie metalmeccaniche genovesi – per la difesa dei posti di lavoro a rischio dopo la decisione del Governo Renzi di privatizzare il gruppo, il consiglio di Stato cinese (22 gennaio 2016) ha deciso che la capacità di produzione di acciaio, carbone, cemento, alluminio, vetro deve essere ridotta del 30% per rispondere al rallentamento della crescita globale e cinese. Questo significa che nei prossimi anni circa 3 milioni di salariati perderanno il lavoro.

Molti di essi fanno parte dei 260 milioni di lavoratori migranti che dalle campagne si sono trasferiti nei centri urbani alla ricerca di migliori condizioni di vita, per sé e per le proprie famiglie rimaste nelle campagne. Per questo hanno accettato permessi di residenza temporanei che li privano di diversi diritti riconosciuti ai residenti stabili, dall’accesso ai servizi pubblici come abitazione, sanità, scuola. Ora dovranno decidere se tornarsene ai loro villaggi[2] o rimanere nelle città, e magari organizzarsi per difendersi.

La Cina, che produce circa la metà dell’acciaio globale,[3] aveva già in precedenza ridotto la capacità di produzione di 90 milioni di tonnellate. A seguito della recente decisione del governo cinese essa verrà ulteriormente ridotta di 100-150 milioni di tonnellate, pari al 20% della capacità complessiva. Per la siderurgia questo si tradurrà nel taglio di 400mila posti di lavoro. A questi si aggiungeranno quelli dei settori direttamente collegati – 3 posti di lavoro ogni posto perso nella siderurgia. Dunque 400mila + 1200mila =1600mila.

Anche nel minerario è in corso un processo di riduzione analogo. Ad esempio, lo scorso settembre, il gruppo del carbone metallurgico Heilongjiang Longmay Mining Holding ha comunicato il licenziamento di 100mila salariati, pari al 40% dei suoi 240mila addetti.

Gli investitori internazionali hanno acclamato al piano di tagli occupazionali di Pechino; le azioni del maggior produttore cinese, Hebei Iron & Steel, sono aumentate del 4,3%, del 5,3% quelle del secondo maggior produttore, Baoshan Iron & Steel; similmente aumentate anche le azioni dei produttori di carbone.

Però, non è detto che i piani del Consiglio di Stato cinese possano essere attuati come vorrebbe il padronato, statale o privato che sia. Potrebbero, come ci auguriamo, dover fare i conti con la volontà della classe antagonista, i proletari cinesi. Lo ha paventato anche un rappresentante dello Stato, Li Xinchuang, capo dell’Istituto per la Pianificazione e la Ricerca dell’industria metallurgica della Cina, dichiarando che licenziamenti su larga scala come questi potrebbero minacciare la sicurezza sociale.

Fonte China Labour Bulletin

E non senza fondamento. La determinazione dei proletari cinesi a difendersi e lottare è dimostrata dal raddoppio degli scioperi nel 2015 rispetto al 2014, in totale 2700. Un esempio delle lotte nel settore siderurgico è lo sciopero per aumenti salariali del 7 febbraio 2015 di 10 000 lavoratori del gruppo siderurgico statale Wuyang Iron & Steel, nella provincia dello Henan, filiale di Hebei Iron and Steel Group Co, il maggior gruppo siderurgico cinese. I loro salari sono talmente bassi (sui $290 al mese) che non bastano al mantenimento della famiglia e a mandare i figli a scuola. Gli scioperanti hanno sfidato i 300-400 poliziotti che per fermare lo sciopero hanno picchiato ed arrestato alcuni lavoratori.

Secondo la World Steel Association (WSA) a livello internazionale c’è una sovraccapacità di produzione di acciaio pari a 300 milioni di tonnellate, un quantitativo maggiore della produzione combinata di Giappone, USA e India (2°, 3° e 4°maggior produttore mondiale).

La crisi del settore colpisce perciò i lavoratori di diversi paesi, Italia compresa. Negli Usa, US Steel nel 2015 ha licenziato migliaia di salariati e chiuso diverse produzioni.

Ma, anziché attaccare il nemico di classe, il padronato statunitense, il sindacato United Steelworker ha lanciato una campagna contro i salariati della siderurgia cinese “colpevoli” del declino della produzione di acciaio americana e dei conseguenti licenziamenti.

I lavoratori siderurgici di Cina, Usa, Giappone, India, Italia etc., si trovano di fronte agli stessi problemi, prodotti dalle contraddizioni fondamentali del mercato capitalistico, che non risponde ai bisogni umani ma alla necessità di accrescere il profitto delle borghesie nazionali, la classe che detiene i capitali. Perciò l’unica difesa è quella di classe, lottare uniti respingendo qualsiasi rivendicazione nazionalista.

Le strade sono due: la difesa corporativa del proprio stabilimento (Genova contro Taranto, ecc.) o protezionistica del proprio mercato nazionale contro i concorrenti stranieri; oppure il collegamento internazionale tra lavoratori per una piattaforma comune che preveda la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, e la garanzia del salario per i lavoratori resi esuberanti dalle ristrutturazioni del capitale.

[1] Cfr. http://www.combat-coc.org/ilva-contro-i-licenziamenti-e-la-cassa-integrazione/

[2] Ad inizio 2009 20 milioni di migranti rimasti disoccupati scelsero di tornare, e ci fu un’ondata di forti proteste sociali. L’Ufficio Nazionale di Statistica cinese ha comunicato che nel 2015 i lavoratori migranti sono diminuiti di 5,68 milioni, il primo calo in tre decenni, solo in parte dovuto a cause demografiche, in maniera preponderante causato dal crollo del manifatturiero, settore ad alta intensità di mano d’opera.

[3] Secondo i dati della World Steel Association, nel 2014 la Cina ha prodotto circa 822,7milioni di tonnellate di acciaio, pari al 49,4% della produzione globale; il Giappone, secondo produttore mondiale, 110,7 milioni di tonnellate; terzi gli Usa con 88,2 milioni di tonnellate, e quarta l’India con 86,5 milioni di tonnellate. Nel 2015 la produzione mondiale è diminuita del 2,8%, -2,3% quella cinese, la maggiore riduzione in 25 anni; -11% quella Usa, -3,2% quella europea.