E’ alla fine iniziata la consegna alla Turchia dei missili russi S-400, come previsto dall’accordo siglato fra Russia e Turchia a dicembre 2017 (costo 2,5 miliardi di dollari); questo accordo da mesi tiene impegnate triangolarmente le cancellerie di Usa, Turchia, Russia.
In ballo c’è qualcosa di molto più ampio di una controversia su forniture militari.
La strategia di Trump in Medio Oriente fin dall’inizio ha previsto come alleato un fronte sunnita da contrapporre al fronte sciita guidato dall’Iran. Particolare non secondario il fronte sunnita doveva essere a leadership saudita, relegando quindi in posizione subordinata gli altri due grandi paesi sunniti in Medio Oriente: l’Egitto e la Turchia.
Se l’Egitto di Al Sissi ha dovuto in più occasioni ingoiare il rospo, visto che i Sauditi sono i loro garanti finanziari, la Turchia di Erdogan ha fatto scelte sempre più divergenti da quelle Usa, anche nel loro cortile di casa…
Mentre gli Stati Uniti appoggiano apertamente il leader dell’opposizione venezuelana Juan Guaidó, la Turchia ha preso in custodia quasi un miliardo di dollari in oro da Caracas, consentendo così al governo venezuelano di allentare il cappio delle sanzioni che gli Stati Uniti hanno imposto al Paese.
In Medio Oriende il nodo più spinoso è la Siria. La Turchia non digerisce l’alleanza degli Usa con le milizie SDF (Syrian Democratic Forces), composte da gruppi militari arabi ma soprattutto dalle milizie curde YPG (Unità di protezione popolare), oggi forti di 17 mila combattenti. Da mesi il governo turco dopo aver preso il controllo di Al-Bab e Afrin, ha manifestato l’intenzione di attaccare Manbij e chiesto con forza agli Stati Uniti di interrompere la loro collaborazione con i Curdi siriani. Nel dicembre 2018 e poi ancora a febbraio 2019 Trump ha parlato di ritiro delle truppe Usa (tanto che il suo segretario alla difesa Mattis si è dimesso per protesta). In vista di questa eventualità Erdogan ha tentato di impostare un tavolo di negoziati con Damasco e con i Peshmerga curdo iracheni.
Durante la crisi del Golfo Ankara è corsa in soccorso del Qatar sottoposto a sanzioni (dai Sauditi ma col beneplacito Usa), anzi ha rafforzato la propria partnership con Doha (che ospita una base militare turca) e intensificato la collaborazione militare con il Kuwait. Non ha mancato di sottolineare pesantemente le responsabilità saudite nel caso Khashoggi, un altro modo di contestare una leadership saudita.
La Turchia inoltre non si è allineata con Trump nei confronti dell’Iran, anzi in giugno di quest’anno il ministro degli esteri turco ha incontrato a Isfahan, in Iran, l’omologo iraniano per una pianificazione strategica bilaterale di aggiramento delle sanzioni Usa. Del resto la Turchia è co-garante con Iran e Russia del format di Astana (sulla base del quale, le forze armate turche sono autorizzate a mantenere non più di dodici postazioni di osservazione in territorio siriano).
Questo le consente di continuare a giocare un ruolo anche nell’attuale fase della crisi siriana. La Turchia ha partecipato da protagonista al vertice di Sochi del settembre 2018 (con tema la demilitarizzazione di Idlib cioè l’ultima grande roccaforte controllata dagli jihadisti di Hayat Tahrir al-Sham, organizzazione riconducibile ad al Nusra) e nel vertice di Istanbul di fine ottobre 2018 con Russia, Francia e Germania,
Erdoğan negli ultimi anni ha impresso alla politica estera turca una decisa svolta a est, sia verso l’area turcofona, che verso il Medio Oriente e l’Africa del Nord, alla ricerca di una sfera di influenza in chiara concorrenza con l’Arabia Saudita e quindi in evidente disaccordo con gli intenti statunitensi. Il rapporto con Mosca e con il Presidente Putin è, quindi, per Ankara, di primaria importanza anche per controbilanciare i rapporti di forza con gli USA ed i Paesi dell’Unione Europea… Non c’è traccia ormai, nella politica turca, di un interesse a entrare nella UE, probabilmente una realistica presa di coscienza che con l’Europa sono possibili accordi come quelli sull’immigrazione, accordi economici e commerciali, ma niente di più (nota 1). Anche la Nato comincia ad andare stretta alla Turchia.
E’ in questo quadro che va visto l’acquisto degli S-400 russi.
La motivazione esibita era inizialmente che gli S-400 costavano molto meno dei Patriot; a gennaio la Casa Bianca ha, perciò, offerto ad Erdoğan i Patriot a prezzo concorrenziale per convincerlo ad abbandonare la l’acquisto degli S 400 russi. Washington ha ripetutamente espresso la preoccupazione che, acquisendo sia gli S-400 che gli F-35, la Turchia metterebbe a repentaglio la sicurezza della NATO, poiché fornirebbe agli esperti russi informazioni chiave su dati sensibili relativi alla tecnologia del jet da combattimento. I turchi non si sono lasciati convincere. Trump ha anche minacciato la Turchia di sanzioni economiche CAATSA (Countering America’s Adversaries Through Sanctions Act), e per ritorsione ha deciso di interrompere le consegne di parti di aerei da combattimento F-35 alla Turchia. Molti “falchi” Usa considerano la consegna dei missili russi come un mutamento epocale che porterà all’uscita della Turchia dalla Nato. Lo stesso Carlo Jean in un’intervista a ilsussidiario.net l’ha definita una provocazione contro gli Usa senza motivazioni militari. Quanto alla storica alleanza Israele Turchia Usa, che fra 1993 e 2005 si è contrapposta all’Iran, essa è definitivamente defunta.
Gli osservatori fanno notare che rescindere una lunghissima alleanza come quella Usa-Turchia non è cosa agevole né veloce: c’è un interscambio importante; l’americana Citigroup si occupa della ristrutturazione del fondo sovrano nazionale turco (Varlık Fonu), creato nel 2016 e quindi in un certo senso è garante per le due più grosse banche statali, Ziraat e Halkbank, nonché per la Borsa di Istanbul. Per la Banca centrale turca e per il sistema finanziario in generale il 2018 non è stato un buon anno, la lira turca si è svalutata notevolmente sul dollaro e il governo turco ha puntualmente accusato gli Usa di “averli pugnalati alle spalle”. Le cose non sono andate meglio nel 2019 e ancora una volta Erdogan accusa gli Stati Uniti di intraprendere una “guerra finanziaria” contro la Turchia.
Tenuto conto di questo, comunque, è indubbio che nell’industria militare, settore vitale per il business americano, la Turchia di Erdoğan vuole rompere il vincolo americano, diversificando i suoi fornitori (Russia ma anche Cina), in attesa che decolli l’industria nazionale, in particolare Aselsan (nota 2).
Lo scontro Usa Turchia si colloca in una momento burrascoso per l’amministrazione Trump sotto il profilo della Difesa: il 19 giugno le dimissioni del segretario Patrick Shanahan, titolare da circa un mese. Il segretario precedente Mattis, si era dimesso il 20 dicembre 2018. Per mesi il dipartimento della Difesa non ha avuto un titolare (Shanahan era stato indicato da Trump, ma la sua nomina non è mai stata ratificata dal Senato ed inoltre era estremamente mal visto al Pentagono). Questo ha lasciato grande spazio alle iniziative dell’ex direttore della Cia, Mike Pompeo, attuale Segretario di stato, e al consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, entrambi sostenitori della linea dura, se non dell’intervento militare contro l’Iran. La politica di Trump ha quindi oscillato tra la riluttanza dei militari a intervenire militarmente e la spinta dei due falchi, Pompeo e Bolton. Lo dimostra bene la recente vicenda del drone abbattuto dagli iraniani, per cui Trump ha minacciato di bombardare stazioni radar e batterie missilistiche di Teheran, poi è tornato sui suoi passi, limitando l’attacco all’offensiva digitale dello US Cuber Command contro l’intelligence iraniana. Shanahan pur non opponendosi ufficialmente a una eventuale guerra contro l’Iran, non aveva mancato di sottolinearne i costi e le conseguenze, dando voce agli analisti dei vari think tank, secondo i quali un conflitto armato tra Stati Uniti e Iran non potrebbe essere “circoscrivibile” né limitarsi ad azioni “esemplari”, limitate, ma darebbe fuoco alla polveriera mediorientale, coinvolgerebbe tutti gli altri paesi mediorientali, ma non resterebbe circoscritta al Medio Oriente.
Il nuovo segretario alla difesa è Mark Thomas Esper, che fra il 2015 e il 2016 era stato lobbista per la Raytheon (Shanahan del resto aveva lavorato per la Boeing). Esper, a differenza di Shanahan, ha una solida esperienza militare, ma è una figura di secondo piano; quindi non avrà una propria linea, come aveva Mattis, non avrà autorevolezza nei confronti di Bolton e Pompeo e neanche sarà in grado di “contenere” le iniziative di Trump.
Sempre in giugno (il 20) con una rarissima mossa bipartisan il Senato Usa ha votato il blocco della vendita di armi all’Arabia Saudita, sponsorizzata con forza da Trump (valore di otto miliardi di $). Voto cui Trump ha intenzione di contrapporre il veto presidenziale (ne va dei finanziamenti alla sua campagna elettorale da parte delle grandi aziende dell’industria militare).
L’Italia e la situazione Medio-Orientale
Quanto tutto questo coinvolge l’Italia?
In aprile 2019 il senatore americano Lindsey Graham, che consiglia il presidente Trump sulla politica estera, ha offerto all’Italia un aiuto rispetto alla crisi libica, in cambio di un impegno di Roma per la Siria. Roma avrebbe dovuto fornire truppe di terra di interposizione nel nord fra Turchi e Curdi.
Non se ne è fatto nulla, tanto che in giugno Shanahan ha fatto a tempo a inviare 1000 soldati in Medio Oriente, ma come deterrente antiiraniano.
La stampa ha dato ampio spazio, il 16 giugno, alla visita di Salvini negli Usa, dove ha cercato di accreditarsi come il “vero” ministro degli esteri (del resto Moavero Milanesi, come scrive la rivista online Ytali, è “un’ombra di ministro”), ma anche come il più trumpiano in Europa. Meno pubblicità è stata data alla visita in Russia, sempre il 16 giugno, di due parlamentari Cinque Stelle (Vito Petrocelli, notoriamente antiamericano, e Gianluca Ferrara) a capo di una delegazione, incaricata di “firmare un protocollo di cooperazione con la Russia su lotta al terrorismo e Medio Oriente”. Da qui i soliti dietrologi hanno dedotto che il siluro Savoini contro Salvini sia partito da qui, essendo i russi irritati per le esternazioni filo-americane di Salvini e i 5 Stelle irritati in generale.
Salvini ha dichiarato pubblicamente che “la Turchia non è mai stata e non sarà mai Europa” (Orban docet). Il che può anche essere vero, ma gli “interessi capitalistici” dell’Italia restano: UniCredit risulta particolarmente esposta nella crisi della lira turca, Finmeccanica ha firmato con Ankara contratti milionari, la Saipem ha un contenzioso aperto per lo sfruttamento dei giacimenti presso Cipro e quindi l’Eni chiede al governo italiano di trovare una mediazione con quello di Ankara. E quindi i giornali come il Sole scalpitano (ma anche quelli filo-PD) perché “l’Italia non ha una politica estera”.
Nel senso che ne ha due o tre, se si tiene conto anche del duo Conte e Tria che in meravigliosa solitudine hanno trattato con i vertici Europei la trattativa per evitare la procedura di infrazione. E la cosa si conferma al momento di votare la nuova Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, in cui i leghisti votano contro e i Cinque Stelle, determinanti coi loro 14 voti, votano a favore. E’ ormai da tutti dato per scontato che Conte sia riuscito ad evitare la procedura d’infrazione solo garantendo un voto “disciplinato”. I leghisti, inferociti per non aver avuto garanzie su un proprio uomo alla concorrenza, hanno votato contro mentre i loro amici sovranisti dell’est (Orban e i polacchi in particolare) hanno votato a favore.
Del resto i Salvini e i Di Maio sanno che la politica estera non ha mai fatto vincere le elezioni a nessuno, quindi i due continuano a battagliare su tematiche più “facili”, uniti peraltro in una cosa, nel fare la faccia dura contro i richiedenti asilo e gli immigrati e nel varare leggi contro le libertà politiche come il Decreto sicurezza uno e bis.
Nota 1: E si tratta di un “niente di più” di peso… La Turchia ha il 50% dei suoi scambi commerciali con l’Europa e il 70% dei debiti delle imprese turche sono stati contratti con le banche europee. Dal 2002, inizio dell’era Akp, quando andò al potere il partito islamico, il 75% degli investimenti esteri in Turchia è venuto dall’Europa, solo il 7% dalle monarchie del Golfo.
Nota 2: Da buona media potenza con vocazione imperialista la Turchia mira all’autosufficienza militare, anzi a trasformarsi in un esportatore di armi. Per rafforzare questa vocazione utilizza la propria committenza: le forniture made in Turkey per il proprio esercito sono passate dal 25% del fabbisogno nel 2003 al 68% di oggi. Nel 2016 l’industria turca ha venduto all’estero armi per un valore di 1,7 miliardi di dollari e il governo di Ankara ha l’ambizione di raggiungere entro il 2023 esportazioni per 25 miliardi (traguardo che esperti vari considerano irraggiungibile). Negli ultimi quindici anni (cioè, da quando Erdoğan è al potere), le spese per la difesa sono rimaste stabili, mai meno di 15 miliardi di dollari l’anno. In compenso, l’investimento in ricerca e sviluppo nel settore militare è passato da 1,8 miliardi a 20 miliardi l’anno. I risultati si vedono: Turkish Aerospace Industries e Aselsan, due aziende turche delle armi, sono ormai entrate stabilmente nell’elenco dei 100 big mondiali del settore. La Turchia, in linea col trend mediorientale negli ultimi anni è stato il 6° o 8° importatore mondiale di armi. L’Europa è un fornitore importante e anche l’Italia (362 milioni di € nel 2018).
E il consorzio italo-francese Eurosam hanno realizzato un sistema di difesa aerea a lungo raggio in joint venture con le industrie turche della difesa Roketsan e Aselsan.