Mercoledì 12 marzo il neopresidente del Consiglio Renzi ha presentato l’elenco dei prossimi interventi legislativi: il pagamento dei restanti debiti della Pubblica Amministrazione, il taglio del 10% dell’IRAP e del 10% dei costi dell’energia per le aziende, il taglio dell’IRPEF per 1000 euro all’anno per chi guadagna meno di 25000 euro lordi all’anno (circa 1500 euro netti mensili). A breve dovrebbero arrivare la nuova legge elettorale, l’eliminazione delle provincie, la riforma del Titolo V della Costituzione (cioè, una riforma dell’autonomia delle regioni rispetto al potere centrale).
Tra una slide e l’altra è inizialmente passato in secondo piano il decreto legge che riforma il contratto di lavoro a termine e l’apprendistato, tanto che in prima battuta la segretaria CGIL Susanna Camusso aveva dato una valutazione molto positiva (vedi sito de L’Unità il 12 marzo). Solo più tardi persino lei ha compreso quanto questo decreto sia devastante.
Fino ad oggi per il contratto a termine – che non può durare più di un anno e ammette una sola proroga – deve essere specificata una causale che giustifichi un rapporto di lavoro temporaneo: un picco di produzione, lavori stagionali, una sostituzione per maternità… ecc.; tale clausola è stata pesantemente ridimensionata dalla riforma Fornero, ma se non veniva rispettata, dava la possibilità di impugnare il contratto in sede giudiziaria per esigere l’assunzione a tempo indeterminato. Col nuovo decreto non solo scompare completamente la causale, trasformando il contratto a termine da misura eccezionale in misura normale, ma viene data la possibilità di prorogarlo per ben 8 volte consecutive fino a una durata complessiva massima di 3 anni: questo permetterebbe il susseguirsi di 9 assunzioni precarie consecutive per una durata di 4 mesi ciascuna, al termine delle quali il lavoratore può essere lasciato a casa e sostituito con un altro precario, oppure riassunto – ovviamente, sempre a termine – presso un’azienda collegata che appartiene agli stessi proprietari per eseguire le stesse mansioni (chi scrive ha sperimentato di persona che già oggi il gioco è molto diffuso; questa riforma lo renderebbe la regola). Viene introdotto il limite del 20% di precari sul totale dei dipendenti, ma sulla base del Decreto Legislativo 368/2001 (art. 10, comma 7) rimane comunque possibile derogare stipulando appositi accordi coi sindacati o adducendo specifiche esigenze aziendali.
Per l’apprendistato, la riforma non è meno dannosa: vengono aboliti sia l’obbligo di dare una formazione ai lavoratori – obbligo che, per quanto ampiamente aggirato, era usato per giustificare la precarietà e il basso salario – sia quello di confermare a tempo indeterminato un’ampia percentuale di apprendisti prima di assumerne di nuovi. Le aziende potranno assumere tutti i giovani che vorranno, pagarli una miseria, non spendere un euro per dare loro una formazione e lasciarli a casa alla scadenza dell’apprendistato per sostituirli tutti con nuovi precari (apprendisti o a termine).
Renzi aveva annunciato una riforma generale del mercato del lavoro, che riducesse drasticamente le numerose tipologie contrattuali e che “spalmasse” la precarietà su tutti i nuovi assunti con l’introduzione di un contratto unico a tutele crescenti: 3 anni senza molte garanzie, poi a tempo indeterminato (o, più probabilmente, a casa, o da capo con una “nuova” assunzione!). Ora le nuove precarietà introdotte dal decreto vanno ad aggiungersi alle molte già esistenti, il tutto con la strada rapida del decreto legge.
Con questo provvedimento, si realizza di fatto la rottamazione del lavoro a tempo indeterminato, che verrà diluita nel tempo interessando le nuove assunzioni per ridurre sempre più lo spazio di applicazione del lavoro “stabile”. Secondo il Rapporto annuale 2013 sul Mercato del lavoro dell’ISTAT, oggi i precari sono ancora una minoranza (10,6% a cui si aggiunge un 5.1% di part-time), ma il loro peso è in crescita: già oggi il 53% dei nuovi contratti è “atipico” e presto diverrà motivo per eliminare definitivamente le residue garanzie di chi ha ancora un contratto a tempo indeterminato. Questa strada è già stata seguita ad esempio per l’eliminazione delle pensioni di anzianità: inizialmente ha riguardato solo le giovani generazioni, ma poi si è estesa a tutti mano a mano che chi ancora godeva del vecchi sistema diventava minoranza. E’ la vecchia tattica del “divide et impera” combinata con quella dello sfogliamento del carciofo: colpire i diritti acquisiti di tutti i lavoratori contemporaneamente può suscitare reazioni difficili da controllare, togliere i diritti a chi non li ha ancora acquisiti progressivamente man mano che entrano nel mercato del lavoro è più facile perché si tratta di giovani che non hanno consapevolezza di questi diritti, mentre chi li aveva conquistati (o ereditati) se ne sta zitto pensando che tanto non tocca a lui.
La riforma ha suscitato reazioni contrastanti: mentre la Camusso si è detta contraria, il segretario CISL Raffaele Bonanni – da sempre fautore di nuove precarietà e dello smantellamento del Contratto Collettivo Nazionale – l’ha accolta con favore, argomentando che è comunque meglio del lavoro a partita IVA (se è per questo, anche il lavoro nero è meglio della disoccupazione e la schiavitù preferibile alla morte per fame!). Nel PD si registra solo qualche mugugno ad uso dello scontro interno al partito. Nella trasmissione televisiva “Che tempo che fa?” di sabato 15 marzo il segretario FIOM Maurizio Landini non trova di meglio che… proporre l’introduzione da subito del “contratto unico a tutele crescenti”, proprio quel contratto che generalizza la precarietà per tutti i nuovi assunti!
Nell’attuale fase del ciclo capitalistico vengono dunque smantellate anche quelle “tutele” parziali e provvisorie che i padroni erano stati costretti ad inserire da un ciclo di lotte operaie ampio e duraturo, che si sposava con una realtà produttiva di allargamento della produzione manifatturiera nelle metropoli. Ora tutto questo viene spazzato via. Nessun rimpianto, dal momento che abbiamo sempre saputo che questo è il capitalismo. Nessun sogno di “ritorno” ad un passato che è morto e sepolto. Si tratta secondo noi di spostare l’asse di lotta da “tutele aziendali” ormai fuori del tempo ad un confronto diretto col capitale che attraversi tutta la condizione proletaria: dal salario all’orario di lavoro, dalla casa alle tariffe e bollette, dalla salute ed i servizi alle questioni ambientali… mettendo il capitale nel suo complesso sotto il tiro incrociato di una conflittualità vasta e generalizzata.
Il tutto per ricondurre al principio politico ed organizzativo che i proletari non possono fare conto sulle istituzioni borghesi – locali, nazionali od europee – ma solo impegnarsi in prima persona nella lotta di classe per spazzare via questi organismi che difendono una società basata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Combat – Comunisti per l’Organizzazione di Classe