I disordini scoppiati a Ouagadougou, in Burkina Faso, culminati nella cacciata del premier Blaise Compaore, al potere incontrastato da 27 anni, hanno colto tutti di sorpresa ma sono il risultato di contraddizioni che si andavano accumulando da tempo.
Il Burkina Faso è un paese senza sbocchi sul mare, incuneato fra Mali, Niger, Benin, Togo, Ghana e Costa d’Avorio, con una superficie di poco inferiore a quella italiana. Ha 19,5 milioni di abitanti, uno dei più bassi PIL procapite e una massa di giovani disoccupati e senza prospettive (nel 2011 il numero di figli per donna era di 5,8), Sono questi giovani, come già nelle primavere arabe, i protagonisti dei moti di piazza. Come in tutta l’Africa subsahariana i giovani sotto i 25 anni sono il 65% della popolazione, ma il loro tasso di disoccupazione è tre volte più alto di quello medio. Trovare lavoro in patria è spesso una opportunità connessa a legami mafiosi, clientelari o clanici.
La guerra in Libia e la guerra in Mali e Centrafrica hanno chiuso i tradizionali sbocchi per le migliaia di burkinabè che in passato si trasferivano stagionalmente a lavorare nelle campagne e nell’edilizia, nei paesi vicini.
Metà della popolazione vive con meno di 1 dollaro al giorno (il PIL pro capite è di 790$); nelle statistiche ISU (indice di sviluppo umano il Burkina è al 181° posto su 187 paesi. L’aspettativa di vita è inferiore ai 50 anni, in media con gli altri paesi dell’Africa nera. Solo il 28,5% della popolazione adulta è alfabetizzata. La mortalità infantile è del 7,7%.
Questa povertà coesiste con lo sviluppo economico, il PIL negli ultimi tre anni è aumentato del 7% all’anno. In particolare il tasso di sviluppo è legato alla vivace attività di estrazione mineraria: rame, ferro, manganese, ma soprattutto oro (di cui il Burkina è quarto produttore africano).
Ma a far precipitare la situazione sono stati a partire dalla fine del 2013 il calo del prezzo dell’oro, la crisi dell’industria tessile legata alla produzione di articoli di cotone di lusso (tutti destinati all’export e rovinati dalla concorrenza dei prodotti cinesi in fibra artificiale molto meno costosi). Infine ha pesato anche la siccità che ha prodotto un aumento dei prezzi degli alimentari.
Benché la violenta protesta di piazza fosse in gran parte spontanea, i militari hanno tentato subito di metterle il cappello e da una parte all’altra sono spuntati, in uno scenario da tardo impero romano, più candidati che si autoproclamavano premier ad interim: dal generale Honore Traore al luogotenente colonnello Isaac Yacouba Zida; con il prevalere alla fine di quest’ultimo che avrebbe maggiore ascendente sulla bassa forza dell’esercito (Figaro 1 novembre). Stesso scenario fra le file dell’opposizione politica con due candidati “civili”, cioè il generale in pensione Kouame Lougué e una donna, Saran Séremé, leader del Partito per lo Sviluppo.
Francia e Stati Uniti da tempo referenti internazionali di hanno optato per una linea di attesa neutrale, limitandosi a un generico richiamo a una transizione che ripristini la normale dialettica democratica, ma guardandosi bene dall’offendere i capoccia dell’esercito, perché l’importante è garantire l’ordine e il controllo delle masse. Per la Francia è fondamentale conservare in Burkina Faso (un tempo colonia francese col nome di Alto Volta), le proprie basi militari, comprendenti piste e hangar per elicotteri, da cui spesso l’esercito francese si muove per le sue spedizioni (recentemente verso il Mali e la repubblica Centroafricana) e anche i propri servizi di intelligence. La Francia ha con discrezione garantito la fuga senza danni dell’ex premier e alleato in Costa d’Avorio, dove è al potere un leader, Ouattara, che è di origine burkinabè (nota 1).
Ha però rifiutato di raccogliere le sollecitazioni a un intervento diretto, anche perché proprio in occasione della crisi in Repubblica Centroafricana e Mali ha trovato una sponda più efficace nel governo algerino contro i gruppi jajidisti sviluppatisi nell’area. Senza contare che al contrario del Niger, il Burkina non è in sé un’area di interesse vitale per la Francia, al di fuori della sua posizione strategica. (Figaro 31 ott). D’altro canto la Francia raccoglie nell’area i frutti dell’intervento in Libia, che ha provocato il ritorno in patria dei lavoratori centrafricani, che spesso in mancanza di meglio si lasciano reclutare dai gruppi islamici estremi. Il Mali e il Niger sono ancora minacciati da gruppi tuareg e islamici, con un forte rischio per gli interessi francesi. Nel 2015 si terranno nuove elezioni presidenziali in Costa d’Avorio ed è possibile che come nel 2010 esploda un nuovo scontro interetnico fra minoranza burkinabé e gli indigeni Akan.
Tutti i capi di stato dei paesi confinanti seguono con preoccupata partecipazione gli avvenimenti.
La miccia che ha fatto da detonatore all’incendio in Burkina è stato il tentativo di Campaorè di modificare la Costituzione per ottenere l’ennesimo mandato. Uno stratagemma che altri autocrati regionali stanno per mettere in atto (fra gli altri Paul Kagamé in Randa, Joseph Cabila in Congo-Kinshasa e Denis Sassou Nguesso in Congo-Brazzaville, ma anche d’Issayas Afewerki in Eritrea). Dopo i disordini in Burkina non potranno farlo alla leggera. I loro regimi risultano sempre più inadeguati in paesi come l’Africa subsahariana che stanno conoscendo ritmi di crescita elevati (5% medio all’anno), in rapporto alla semi stagnazione delle metropoli, ma dove lo sviluppo va a vantaggio di piccole minoranze arroccate intono a governi corrotti, inefficienti e repressivi.
Se le masse hanno ragione di protestare per le pessime condizioni di vita, lanche e borghesie locali spesso desiderano un cambiamento politico, ma preferiscono una soluzione bonapartista cioè cercano un interprete “naturale” nelle alte sfere dell’esercito, garante di un cambiamento in un quadro di legge e ordine.
Anche in Burkina i militari hanno lasciato mano libera alle masse per alcuni giorni, poi hanno sparato sui manifestanti, memori della precedente rivolta di piazza del 2011, scatenatasi dopo l’assassinio di uno studente da parte della polizia. Nel 2011 anche una parte della truppa si era ribellata rifiutando di sparare sui manifestanti. Anche in Burkina i businessmen vogliono lo sviluppo delle infrastrutture e dei servizi, quindi una rete efficiente di trasporti, la garanzia di una fornitura costante di elettricità, servizi bancari più efficienti, mano d’opera più istruita. Una delle poche ferrovie che collega il Burkina al Niger, la ferrovia del Sahel è stata costruita al tempo di Thomas Sankara (1984).
Molti fra i giovani manifestanti inneggiano Thomas Sankara, il leader assassinato a 37 anni proprio da Campaoré, nel 1987. Sankara è stato premier per soli 4 anni, ma aveva impresso al paese una spinta riformista radicale: riforma agraria e distribuzione della terra ai contadini poveri, smantellamento di una parte delle piantagioni per garantire l’autosufficienza alimentare; rifiuto di pagare i debiti al FMI e alla BM, nazionalizzazione delle miniere, campagna di vaccinazioni obbligatorie dei bambini, un nuovo diritto di famiglia più favorevole alle donne (abolizione della poligamia), campagna contro l’infibulazione, campagna di alfabetizzazione e creazione di presidi sanitari nelle campagne, campagna di rimboschimento per contrastare la desertificazione, creazione di un Ministero per garantire acqua potabile, campagna contro l’Aids (fu il primo leader africano a riconoscerne la gravità). Fu lui a ribattezzare il paese con un nome che significa “paese degli uomini onesti”. Soprannominato “Che Guevara dell’Africa”, Sankara aveva ottenuto il potere grazie all’appoggio di Gheddafi ed era fortemente pan-africanista e anti-francese. Fu Mitterand a ordinarne l’eliminazione, dopo essersi accordato con Campaoré e aver ottenuto il beneplacito degli Usa, irritati per le tirate antimperialiste di Sankara. (Al Jazeera 31 ott.)
Che questi giovani si richiamino all’era precedente a Campaoré è logico, ma è improbabile che il panafricanismo sia oggi un valido strumento di organizzazione per le masse sfruttate. L’opposizione politica “ufficiale”, d’altronde, è rappresentata da partiti moderati, che si sono subito affrettati a dichiarare la loro “fiducia nell’esercito”, chiedendo ai “valorosi concittadini” di tornare a casa.
Il fatto che i manifestanti abbiano tentato di incendiare il Parlamento la dice lunga sulla spaccatura che comunque si è creata fra le masse e la politica ufficiale.