Dubai, uno dei sette Emirati Arabi Uniti (EAU) situati nel Golfo Persico (nota 1). Una monarchia assoluta araba di fede islamica, a maggioranza sunnita (85%), che vive in gran parte di rendita petrolifera; la sua popolazione è costituita, con il tasso migratorio netto più alto del mondo per circa l’85% da immigrati, che sono anche il 99% della sua forza lavoro. Un milione e duecentomila di loro lavora nell’edilizia.
La rendita petrolifera ha consentito alla classe dominante degli Emirati, come pure a quella delle altre monarchie del Golfo, di sperperare in misura inaudita per il lusso personale e per attestare la propria immagine tra le potenze mondiali con progetti architettonici fantasmagorici quanto inutili. Nel solo emirato di Dubai si trovano tra gli altri il Burj Khalifa, l’edificio più alto del mondo, il Dubai World Central International Airport, l’aeroporto più costoso mai costruito, e le tre Palm Islands, le isole artificiali più grandi al mondo.
Una rendita che permette agli Emirati anche di spendere per gli armamenti ben il 4,7% del proprio prodotto interno lordo (nota 2). Tra i primi quindici maggiori bilanci militari del mondo, gli EAU sono preceduti per percentuale sul PIL solo dall’Arabia Saudita con il 9,3%.
A Dubai l’economia si sta diversificando – in misura maggiore che negli altri emirati più ricchi di risorse petrolifere – con lo sviluppo di turismo, costruzioni, e finanziario, ma anche del manifatturiero (nota 3), che con il 13,4% del PIL e il 15% della forza lavoro è il quarto maggiore settore economico (nota 4).
Chi costruisce le meraviglie architettoniche sopra menzionate, chi lavora nei lussuosi alberghi per i ricchi del mondo, chi insomma produce i profitti intascati dalla borghesia di Dubai e degli altri emirati?
Dietro ogni boom edilizio c’è un esercito di eroi sconosciuti che compiono i lavori più duri
È appunto un esercito di 7,3 milioni di proletari, quasi otto volte la popolazione nativa degli Emirati, immigrati per lo più dal Sud-Est asiatico – Pakistan, Nepal, Bangladesh e India – che come abbiamo raccontato nel precedente articolo vivono e lavorano, e troppo spesso muoiono, in condizioni schiavistiche.
Dopo aver affrontato un viaggio faticoso e costoso nella speranza di guadagnare abbastanza da poter mettere da parte qualche risparmio, scoprono che i loro stagnanti salari hanno perso potere d’acquisto, in alcuni casi non bastano più neppure a loro stessi, e sono anzi costretti a fare debiti. Chi si era fatto raggiungere dalla famiglia è costretto a rinviarla nel paese d’origine.
Così anche se organizzarsi e scioperare è illegale, e nonostante i vincoli semifeudali sanciti dal sistema della kefala, gli operai Emaar Properties decidono di alzare la testa e di rivendicare miglioramenti di salario e di condizioni di lavoro. Stanno costruendo appartamenti di lusso per il progetto Fountain Views mentre loro sono costretti a vivere ammassati nelle squallide baracche di Sonapur, cinque o sei in dieci metri quadri, e un solo servizio igienico per 50 persone.
In alcune centinaia questi migranti hanno scioperato e protestato nel centro finanziario di Dubai, in mezzo a quei grattacieli che hanno visto anche atti di disperazione di altri loro compagni, quando anziché rivolgere la loro rabbia contro i padroni aguzzini hanno l’hanno rivolta contro se stessi.
Il 10 marzo hanno bloccato per alcune ore un importante incrocio nei pressi dell’area commerciale centrale, il Dubai Mall, per protesta contro il mancato pagamento di tre mesi di salario. Due di loro sono stati arrestati e interrogati. Immaginiamo con quali metodi, visto che il capo della polizia ha sostenuto di aver risolto in breve la protesta.
Simili episodi di lotte e di feroce repressione sono all’o.d.g. in questi paesi del Golfo definiti un “Eldorado” per i grandi produttori internazionali di armi.
Ne riportiamo un altro esempio riferito dal giornale britannico, The Independent (25.05.’14). Nell’ottobre 2013 ci fu uno sciopero, con la partecipazione di circa 3000 operai di BK Gulf, una joint venture del gestita da Balfour Beatty, uno dei maggiori gruppi britannici delle costruzioni. La maggior parte di loro era impegnata nella costruzione del campus della New York University ad Abu Dhabi. Dopo due giorni di proteste la polizia li attaccò, ne portò 40 nelle carceri di Dubai, dove vennero interrogati e picchiati e infine ne deportò 300. Erano stati i dirigenti di BK Gulf a far intervenire la polizia perché reprimesse la protesta dei suoi dipendenti che chiedevano un aumento del salario mensile da £121 a £162. La loro forza contrattuale è indebolita oltre che dalla repressione poliziesca anche dalla competizione sul mercato del lavoro. Per alcune centinaia di espulsi dalle dittature del Golfo altre migliaia sono pronti ad immigrare, anche a queste condizioni.
Ma le condizioni del mercato non sono statiche. Ad esempio, la famiglia reale del Qatar ha annunciato che intende raddoppiare per il 2020 il numero dei migranti, portandoli a 2,5 milioni, su una popolazione complessiva che ora si aggira sui 2 milioni. Lo richiedono i progetti infrastrutturali di cui abbiamo parlato per ospitare la Coppa del mondo del 2022, per un nuovo porto per la metropolitana di Doha, per la rete stradale, con un investimento calcolato sui $200MD in un decennio. Forse la maggiore concentrazione di questa giovane forza lavoro in questi regimi semifeudali servirà a spostare almeno parzialmente a suo favore i rapporti di forza.
Nota 1: Abu Dhabi, Ajman, Dubai, Fujaira, Ras al-Khaima, Sharja e Umm al-Qaywayn
Nota 2: Dati Sipri 2013
Nota 3: Cantieristica, farmaceutica, petrolchimica, macchinari ed apparecchiature elettriche; queste ultime rappresentano il 38% delle esportazioni del manifatturiero di Dubai. (Camera di Commercio Dubai)
Nota 4: Nel 212 erano calcolati in circa 340 000.