LA LEZIONE DELLE PERIFERIE FRANCESI IN FIAMME

Dal 27 giugno, giorno dell’uccisione del 17enne Nahel da parte della polizia francese, le periferie francesi sono in fiamme. Decine di migliaia di giovani e meno giovani delle banlieues sono scesi in strada ad esprimere il loro dolore, la loro rabbia e il loro rancore per le discriminazioni di cui gli immigrati di prima, seconda, e terza generazione sono oggetto, odio contro le classi abbienti che li guardano e trattano con disprezzo, e contro lo Stato perpetratore di soprusi e discriminazioni.

Questi sentimenti sono tanto sentiti e diffusi, accumulati a seguito di decine di episodi di ingiustizia sociale vissuti e alimentati dalla condizione di sofferenza, frustrazione, sfruttamento presente, che né 45 mila poliziotti con l’esercizio del monopolio statale della violenza, gli oltre 1.500 arresti, lo spionaggio di decine di migliaia di persone sui social media, né lo stato d’emergenza proclamato dai sindaci sono ancora riusciti, mentre scriviamo, a sedare le sommosse. La stessa politica estera della Francia ha subito un altro contraccolpo, con la cancellazione della prima visita di Macron a Berlino, dopo che era stato costretto a cancellare la prima visita estera di re Carlo d’Inghilterra dalle massicce proteste contro la riforma delle pensioni (che Macron ha fatto passare senza modifiche, passando sopra non solo alle richieste dei sindacati, ma anche all’approvazione del parlamento).

Questa esplosione di rabbia sociale è la ripetizione della rivolta delle banlieue del 2005. Purtroppo è fondato su molte ragioni il nostro timore che si spegnerà allo stesso modo, senza tradursi in un salto di coscienza e di organizzazione.

I dimostranti delle banlieue non erano gli stessi delle manifestazioni contro la riforma delle pensioni, né del movimento dei gilets jaunes del 2018-19. Come spiegano gli articoli che pubblichiamo, le rivolte in corso sono espressione di quel terzo dei francesi che è immigrato o discende da immigrati. Le proteste sulle pensioni sono state portate avanti in gran parte dai lavoratori del settore pubblico, dal quale gran parte dei giovani scesi in piazza sono esclusi, mentre i gilet gialli erano in gran parte francesi doc. I giovani delle banlieue non hanno saputo esprimere un movimento con obiettivi chiari, metodi di lotta e organizzazione corrispondenti, mentre le organizzazioni della sinistra sembrano limitarsi a criticare il governo, senza avere la minima capacità di collegarsi a – tanto meno di influenzare – le rivolte delle banlieue. Che restano senza organizzazione, senza obiettivi politici, senza collegamenti sociali. Proprio per questo isolamento il fattore razziale occulta ai loro occhi il fattore di classe, con grande gioia di chi vuole utilizzare etnia e religione come fattore di esclusione (i razzisti), ma anche di chi, del tutto indifferente alla loro situazione sociale, vuole arruolarli nelle file della jihad. Per noi è fondamentale invece che vedano come la loro condizioni si vada sempre più accomunando a quella dei proletari franco-francesi poveri o in via di impoverimento sotto i colpi dell’inflazione e della crescente precarietà. Il nazionalismo, che pervade tutto lo spettro parlamentare, dalla destra di Le Pen al centro fino alla sinistra di Melanchon e del PCF, oltre che a sostenere la partecipazione del governo Macron alla guerra e il riarmo, serve a dividere i proletari tra franco-francesi e immigrati di prima, seconda e terza generazione, che non si identificano con lo Stato francese.

L’unione tra proletari di ogni colore della pelle potrà crescere solo nella misura in cui i proletari autoctoni si riconoscano come proletari prima che come francesi, opponendosi alle guerre dello Stato dei loro padroni, e se le generazioni dalla pelle scura si riconosceranno come proletari prima che come immigrati, fratelli dei proletari autoctoni come di quelli dei paesi di provenienza, sfruttati da una classe borghese, autoctona o multinazionale, non meno avida di quella che li sfrutta in Francia, e repressi da governi non meno violenti e oppressori di quello di Francia.

Vedi anche: https://pungolorosso.wordpress.com/2023/06/30/la-francia-degli-oppressi-e-in-rivolta-contro-la-francia-dellautocrate-macron/

STATO FRANCESE E VIOLENZA POLIZIESCA

Nei giorni scorsi, per arginare le manifestazioni di protesta per l’uccisione da parte della polizia del diciassettenne Nahel M., il governo francese ha mobilitato 45 mila poliziotti, una cifra mai vista che ci dà la misura delle preoccupazioni all’Eliseo.

Quello che preoccupa Macron è che nei sondaggi un numero consistente di francesi sulla base delle sue esperienze recenti, si dichiara convinto che la polizia sia violenta e che goda di coperture da parte dello stato a tutti i livelli. La vera novità è che a pensarlo siano anche i francesi doc, quelli “nati da genitori francesi nati in Francia”. Un sondaggio Ifop di marzo 2023, quindi prima dei recenti avvenimenti, dice che la fiducia dei francesi nelle forze dell’ordine si è gravemente deteriorata dal 1999, soprattutto tra i giovani. deteriorata dal 1999, soprattutto tra i giovani. Solo il 42% degli intervistati dice avere “fiducia” nella polizia, rispetto al 53% del 1999; percentuale che scende al 28% tra i giovani sotto i 35 anni e al 19% tra i 18-24enni. Per quanto riguarda la denuncia delle violenze della polizia, il 56% dei francesi ritiene che “corrispondano alla realtà”. Tra questi, il 72% dei giovani tra i 18 e i 24 anni (nota 1).

La polizia francese, come molte polizie europee, compresa quella italiana, si è fatta le ossa nelle ex colonie, in particolare in Algeria, acquisendo metodi di violenza feroce che poi ha trasferito in patria per contrastare le rivoluzioni popolari e le lotte operaie (esempi noti sono l’utilizzo della polizia coloniale per reprimere la rivoluzione del 1848, ma anche il massacro di Fourmier, 1° maggio 1891, contro gli operai che chiedevano le 8 ore di lavoro).

La storia della Francia dalla parte delle classi oppresse ci conferma che la violenza è una tecnica di governo consolidata da tempo.  Oggetto privilegiato di questa violenza, nel secondo dopoguerra, sono stati i lavoratori di origine maghrebina (nota 2). Il culmine fu il massacro del 1961 (vedi prossimo articolo).

Solo a partire dalla rivolta delle banlieue dell’ottobre-novembre 2005 la stampa ha cominciato timidamente a prendere la parte delle vittime. All’epoca uno slogan di polizia fu “niente prigionieri”. Ma allora l’incendio delle banlieues rimase un fenomeno di rivolta limitato alla comunità immigrata, in special modo maghrebina. I partiti parlamentari “di sinistra” fecero quadrato intorno all’apparato repressivo dello stato, le stesse moschee contribuirono invitando i correligionari a non scendere in piazza. Tutto il disprezzo dello stato in quanto legale rappresentante della borghesia verso i giovani immigrati si espresse nelle frasi di Sarkozy che li definì “racaille” (feccia).

Per qualche anno il governo si è posto l’obiettivo di aumentare l’integrazione delle seconde generazioni, ma senza voler andare a fondo dei problemi sociali che la rivolta aveva messo in luce. Il fatto ad esempio che in Europa la Francia è il primo paese per numero di immigrati se si considera che circa 1 abitante su tre della Francia, a prescindere dal fatto che abbia o no la cittadinanza, ha almeno un genitore o un nonno nato fuori all’estero (nota 3). Una forte quota di questi métèques, naturalizzati o meno che siano, costituiscono una forza lavoro collocata ai livelli più bassi della scala salariale, alla faccia della pretesa della Francia “repubblicana” di garantire “eguaglianza, fraternità, solidarietà” rispetto ai francesi doc, quelli nati da genitori nati in Francia e figli di francesi (per un approfondimento di questi aspetti vedi prossimo articolo).

I politici hanno preferito concentrare gli sforzi nella battaglia “contro il velo” e per affermare la laicità dello stato, riducendo il problema a una questione di religione. Gli attacchi terroristici del 2015 (contro Charlie Hebdo e il Bataclan) hanno consentito di relegare il problema di fronte alla “battaglia contro il terrorismo”, terrorismo di origine straniera (ispirato dall’Isis). Hollande ha potuto ricompattare dietro l’egida dello stato francese anche chi fino a quel momento aveva protestato per le ingiustizie contro gli immigrati.

Ma le questioni sociali nascoste sotto il tappeto sono riemerse prepotenti negli ultimi anni dimostrando che vanno al di là dell’appartenenza etnica. A riportarle in primo piano sono stati altri due movimenti di piazza, che si sono affiancati alle proteste dei grandi agglomerati periferici di Parigi, Lione, Marsiglia, cioè i cosiddetti Gilets Jaunes e gli scioperi contro la riforma pensionistica.

Al di là della confusione politica e della variegata composizione sociale, i Gilets Jaunes, nati nel novembre 2018, raccoglievano le istanze anche dei lavoratori salariati precari e a basso salario, per cui anche un aumento del costo del diesel era un problema. A parte sparuti gruppi di casseurs la composizione media era di 45-50 anni. Macron li ha trattati principalmente come un problema di ordine pubblico e la polizia ha usato abbondantemente proiettili di gomma, granate e altre armi considerate improprie in altri paesi. Il bilancio in termini umani è stato di circa 200 dimostranti gravemente feriti di cui 22 hanno perso un occhio e 5 una mano. Una ottantenne è morta a Marsiglia dopo una granata lacrimogena in pieno volto.

Nel 2019 però Macron sosteneva: «Non parlate di “repressione” o “violenza della polizia”; queste parole sono inaccettabili in uno Stato di diritto». E Castaner, il suo primo ministro all’epoca, dichiarò: «Non c’è la polizia violenta, non c’è la polizia razzista». Tradotto, va tutto bene, basta che dei morti e dei feriti non parliamo. Forse per questo la stampa non filogovernativa ha avuto vita dura.

Nel 2023 ecco gli scioperi contro la riforma delle pensioni. Le violenze si sono ripresentate, sono aumentati i fermi ingiustificati in base all’art. 49.3. Tuttavia un numero impressionante di video che riprendevano arbitrii e violenze, hanno sensibilizzato anche quei francesi che si sentivano “al sicuro”. Decine di feriti, arresti ingiustificati, lancio di lacrimogeni ad altezza d’uomo, insulti razzisti e sessisti ai manifestanti. In 5 giorni sono state raccolte 170 mila firme per la dissoluzione della brigata motorizzata di repressione antiviolenza (Brav-M), erede dei famigerati Voltigeurs degli anni ’80. Il grosso degli scioperi, molto partecipati, è stato alimentato da spazzini, ferrovieri, operai delle fabbriche soprattutto del settore pubblico, che giustamente affermavano: “poi ci occuperemo di salari e contratti”. Ai picchetti e alle manifestazioni hanno partecipato per la prima volta da decenni molti studenti e molti giovani, che hanno illuminato le notti con i loro falò..

Tuttavia anche la protesta contro la riforma delle pensioni ha in parte confermato la frammentazione del proletariato francese, frutto avvelenato del liberismo imperante: lavoratori pubblici distinti da lavoratori del privato, anziani “garantiti” e giovani precari, francesi doc e abitanti delle banlieues. Segnali di “ricomposizione della classe” ci sono stati, ma ancora troppo fragili.

Poche settimane e la violenza ingiustificata si è ripresentata con l‘uccisione di Nahel.  Se non ci fossero i video la polizia aveva già pronta una storiella auto giustificatoria anche per lui. Le autorità hanno cercato di difendere la polizia, ma poi hanno visto la partita persa. All’appello della madre di Nahel hanno risposto abitanti delle banlieues ma anche lavoratori e studenti francesi, il sentimento più diffuso è stato la diffidenza verso lo stato, verso l’élite dominante.

La protesta ha poi ripreso i modelli classici (auto e cassonetti incendiati, assalto ai supermercati e bus danneggiati) in una logica di guerriglia che esprime, dopo 17 anni, anche impotenza e fatalismo. I giovani delle banlieues esprimono così la delusione per il fatto che non c’è stato miglioramento. Ma è evidente che se la protesta si ferma qui resterà isolata (difficile chiedere solidarietà all’operaio a cui hai bruciato la macchina), verrà semplicemente repressa o si esaurirà per stanchezza, lasciando tutto come prima.

Nel frattempo la vandea razzista della società, nei primi giorni silenziosa, riprende fiato e briga a sostegno dell’azione repressiva del governo. Già il primo segnale è venuto dal comunicato unitario dei sindacati di polizia, di destra e di “sinistra”, che senza minimamente accennare all’omicidio commesso da un loro collega, causa scatenante di questa rabbia sociale, si fanno paladini della repressione più dura, senza esclusione di mezzi: “nessun cedimento di fronte alle orde selvagge”, “tutti i mezzi devono essere messi in campo”,  “non basta l’appello alla calma, bisogna imporla”. Dopo aver chiesto qualcosa di vicino all’impunità per le violenze commesse nella repressione, e affermato che “gli agenti di Polizia giudicheranno il livello della considerazione” in cui saranno tenuti (da governo e parlamento) dichiarano: “oggi i poliziotti sono in combattimento perché siamo in guerra” e concludono minacciosamente: “Domani saremo in resistenza e il governo dovrà prenderne coscienza”. Un proclama di stampo fascista, di uomini armati dallo Stato per garantire il dominio dei capitalisti, che vogliono mano libera nella repressione e imporre la loro legge e ordine allo stesso governo dei padroni.

Un secondo segnale è che la raccolta fondi per la famiglia di Nahel mentre scriviamo si è fermata a 170 mila euro, mentre è vicina al milione quella per il poliziotto assassino, lanciata da  Eric Zemmour un giornalista di destra già candidato alle presidenziali, che sostiene da giorni che il poliziotto “ha fatto il suo lavoro”.

Occorre una saldatura fra tutti i movimenti di protesta su una linea di classe, perché il nemico è comune e la linea di confine fra cittadini di serie A e cittadini di serie B non passa solo dal colore della pelle, ma dipende dalla collocazione sociale.

Il movimento delle banlieue non ha saputo darsi una strategia a lungo termine né un’organizzazione salda, ma è solo con obiettivi politici chiari, con l’organizzazione, con la forza delle proprie convinzioni e una chiara consapevolezza di chi sono i nostri amici e di chi sono i nostri nemici che si può vincere o almeno durare oltre la fiammata di rabbia di pochi giorni e divenire parte di un movimento complessivo contro le radici capitalistiche del malessere sociale.

Nel 2005 scrivevamo che occorre collegare i giovani che scendono in piazza al marxismo, mettere insieme il fronte variegato delle richieste di chi è sfruttato contro gli sfruttatori, oppure seguirà l’inevitabile riflusso, con al massimo un risvolto di radicalismo islamico in più. Occorre invece che si ricrei il filo rosso di solidarietà fra lavoratori e disoccupati, fra lavoratori indipendentemente dall’origine etnica, geografica o religiosa.

O sarà stata ancora una volta una occasione perduta. (A.M.)


NOTE:

1) https://www.rivistailmulino.it/a/francia-polizia-e-stato-di-diritto

2) https://orientxxi.info/magazine/des-violences-policieres-inscrites-dans-l-histoire

3) https://www.insee.fr/fr/statistiques/6468640

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