La guerra dei dazi di Trump, e le sue conseguenze

Trump ha lanciato la bomba, o meglio sparato le cannonate dei dazi aggiuntivi, dal 10% per tutti a un 20-25% contro l’Europa e il Giappone, al 30% e più per buona parte dell’Asia ma anche alcuni paesi africani, il 49 e 46% contro Cambogia e Vietnam, e il 34% imposto alla Cina si aggiunge al 20% già in essere portando il totale al 60%. Alla pronta risposta cinese con tariffe di eguale altezza, Trump ha minacciato un ulteriore 50% che porterebbe i dazi sulle merci cinesi a un proibitivo 115%.

Commerciale, ma è guerra. I protagonisti non sono le grandi imprese, ma gli Stati. A dettare legge non è più il mercato della globalizzazione, ma il potere concentrato nel Presidente degli Stati Uniti, peraltro già messo in discussione all’interno. Chi più ha esportato negli USA sta punito da dazi che rendono i suoi prodotti fuori mercato negli USA. Il Vietnam ha esportato negli USA dieci volte quanto importato: sta punito con i dazi più alti insieme alla Cambogia e al Laos, tra i paesi in cui le imprese cinesi hanno investito per aggirare le barriere di Trump.

I dazi di Trump minacciano di demolire le catene di fornitura che dai vari angoli del mondo sono state costruite per fornire il mercato degli Stati Uniti. Attorno agli Stati Uniti, che con le cannoniere del commodoro Perry aprirono il mercato del Giappone e col Piano Marshall quello europeo alle merci americane,  Trump costruisce ora la Grande Muraglia americana delle tariffe che li proteggerà dall’invasione delle merci straniere. Tariffe che per molti versi sono più alte di quelle imposte nel 1930 dal Presidente Hoover. La Grande Depressione era all’inizio e solo la Guerra Mondiale tirò fuori l’America dalla depressione ponendola al vertice del mondo. La forza dei vincitori della Seconda Guerra Mondiale imperialista si è trasformata in debolezza dopo 80 anni. Ma ora davvero si cambia, e sarà Make America Great Again?

Chi vuole vendere sul mercato americano, per ora ancora il più grande del mondo, andrà a produrre negli Stati Uniti, come vuole Trump? Ci sarà un boom di investimenti negli USA per poter rifornire quel mercato? La Taiwanese TSM, monopolista nella produzione di semiconduttori ad alte prestazioni, ha già iniziato a costruire uno stabilimento a Phoenix, Arizona e annunciato programmi di investimenti negli USA per la cifra colossale di 100 miliardi di dollari. Ma prima delle tariffe di Trump, per approfittare degli incentivi garantiti dall’IRA (Inflation Reduction Act) e altre misure di Biden. Ora alcune multinazionali americane ed estere, quali Apple, Hyundai, e le farmaceutiche Johnson & Johnson ed Eli Lilly hanno annunciato l’espansione degli investimenti in USA in risposta alle tariffe di Trump. Ma qualche rondine non fa primavera. Non solo il rischio dovuto alla grande incertezza su tutto non spinge ad investire. Perfino Macron ha “ordinato” alle imprese francesi di sospendere ogni investimento negli USA. La guerre, c’est la guerre.

E neanche le Borse sono d’accordo, e cadono. I miliardari hanno preso paura. Le certezze costruite negli anni saltano. I miliardari vendono, e trilioni di capitale fittizio vanno in fumo con una generale revisione al ribasso dei profitti futuri. L’unica certezza è che la divisione internazionale del lavoro creatasi negli scorsi decenni sulla base delle regole del libero scambio del WTO, in riferimento al mercato americano, viene fatta saltare dalla bomba di Trump.

Paesi che avevano puntato sull’export verso gli USA si vedranno privati del più importante mercato di sbocco, grande circa un quarto del mercato mondiale. Le fabbriche cinesi in Vietnam e Cambogia ad es. rischiano di non poter più vendere ai loro clienti USA, perché i loro prezzi diventeranno non competitivi con l’aggiunta dei dazi. Ma davvero i gruppi dell’abbigliamento o dei giocattoli apriranno fabbriche negli Stati Uniti? Chi sposterà negli USA le sue fabbriche, senza la certezza che queste nuove regole resteranno anche dopo la fine della presidenza Trump? L’incertezza sugli effetti dei dazi sparati da Trump regnerà sovrana nei prossimi anni, e peserà su una parte consistente del capitalismo mondiale, trascinandolo verso il basso.

Banchieri USA vedono la recessione già iniziata. Il crollo delle Borse fa crollare le pensioni attese, e i redditi di milioni di americani. Si teme la contrazione dei consumi, che si aggiungerebbe allo sconquasso dell’aumento dei prezzi perché gli USA DEVONO importare pagando i dazi draconiani, che fungono da TASSE sui consumi e gli investimenti – Trump ha tagliato le tasse ai ricchi, ma i dazi sono tasse sui consumatori. Stellantis ferma fabbriche negli USA, Canada e Messico, perché le tariffe non fanno più tornare i conti dei componenti che devono attraversare quei confini. Inflazione e recessione sarebbero una miscela socialmente esplosiva per buona parte della stessa base elettorale di Trump, ben oltre i dipendenti federali in agitazione per i tagli di Elon Musk; i sondaggi danno già una maggioranza degli americani contraria ai dazi e nel Congresso si fanno avanti proposte bipartisan per permettere al Congresso di togliere a maggioranza semplice i dazi imposti dal Presidente.

Se la guerra dei dazi non diventerà mondiale e i restanti tre quarti del mondo continueranno ad attenersi alle regole del WTO e della globalizzazione, gli Stati Uniti si auto-escluderebbero dal ruolo di potenza dominante in questo restante mercato globalizzato nel quale il testimone sta passando alla Cina, campione del libero commercio, pur se contrastata da Europa e Giappone. Già la Cina è egemone tra i BRICS+, raggruppamento che si è ampliato con l’ingresso di Egitto, Etiopia, Indonesia, Iran, Emirati Arabi Uniti, con altri paesi in attesa.

La muraglia daziaria isolerebbe sì gli USA dalla concorrenza, tuttavia non solo da quella dei bassi salari dei paesi emergenti, ma anche dalle tecnologie avanzate dei paesi concorrenti; e soprattutto dai mercati dei giovani capitalismi che ancora sono in espansione nel mondo. Lo stesso Elon Musk, colpito nei suoi interessi in Tesla, si è pronunciato contro la guerra dei dazi. Jamie Dimon, CEO della JPMorgan Chase, la più grande banca americana, ha scritto: “America First va bene, nella misura in cui non finisca per diventare America alone – America da sola”. Gli economisti cinesi affermano che già i dazi attuali contro la Cina, a oltre il 60%, “mangiano” tutti i profitti sull’export (30-40%) delle aziende cinesi, azzerando l’export diretto verso gli USA. Qualsiasi ulteriore aumento non farà loro né caldo né freddo. È il decoupling, dicono, il disaccoppiamento tra le due più grandi economie del mondo, ma con quella americana che rischia di isolarsi.

L’Europa, con 606 miliardi di dollari di export verso gli USA, e 370 di import (attivo di 236 miliardi) ha legami ancora più forti con gli USA, anche se l’impatto dei dazi è diverso da paese a paese. L’export verso gli USA è pari all’1,5% del PIL francese, al 3% di quello italiano, al 4% per la Germania e 10% per l’Irlanda. Per questo i governi UE hanno difficoltà a trovare una posizione comune nella risposta ai dazi americani. Giorgia Meloni, che già prima dell’elezione, a Mar-a-Lago aveva coltivato l’amicizia con Donald ed Elon, ora cerca di ritagliare qualche sconto tariffario per il made in Italy, atteggiandosi a intermediaria tra le due sponde dell’Atlantico, e premendo sulla UE perché moderi la sua risposta ritorsiva. D’altra parte cerca di non guastare del tutto anche i rapporti con Putin, tenendosi fuori dal gruppo dei “volonterosi” guerrafondai. Il tutto nella tradizione italica del doppio-triplogiochismo che ha permesso ai padroni del vapore italiani di attraversare illesi (sopra i cadaveri di centinaia di migliaia di soldati e civili italiani), e addirittura arricchiti, due guerre mondiali e la Guerra Fredda (ri-approdando per primi a Stalin-Volgograd con la Lada). Chissà che il gioco non gli riesca di nuovo.

Secondo alcune interpretazioni, il vero scopo dell’Amministrazione Trump sarebbe quello di costringere i partner commerciali USA a finanziarne l’enorme debito pubblico, giunto a 36 trilioni di dollari, il 120% del PIL, dopo che la Cina e lo stesso Giappone hanno iniziato a ridurre la loro esposizione. Secondo il piano di novembre 2024 di Stephen Miran, divenuto poi presidente del Consiglio dei consulenti economici della Casa Bianca, chi vuole uno sconto sui dazi dovrebbe acquistare titoli del debito americano della durata di 100 anni (soprannominati Matusalem Bonds). Ossia dovrebbe in pratica pagare il debito americano, in cambio della protezione militare… A proposito di rapine a mano armata.

Tutto si tiene. E la confusione e incertezza mondiale, spinte al massimo dalle cannonate di Trump, investono anche la sfera militare. Gli Stati europei, con il loro piano di riarmo da 800 miliardi, hanno già mostrato di preferire di pagarsi (o meglio: far pagare ai propri lavoratori) la propria “difesa” anziché pagare gli USA, che stanno tentando di escludere gli imperialismi europei dalla spartizione dell’Ucraina. L’unica certezza è che le conseguenze dei dazi di Trump saranno un “risultato non voluto”, di azioni e reazioni sul terreno economico, politico, militare e sociale che, nel loro insieme, accelerano il cammino verso uno scontro inter-capitalistico globale.

Noi non abbiamo ricette per i governi imperialisti in guerra tra loro per il dominio sul mondo. Abbiamo solo un appello per i lavoratori, che delle guerre commerciali come militari sono l’oggetto, perché della spartizione dei frutti del loro sfruttamento si tratta, e le vittime: uniamoci sul piano nazionale e internazionale, lottiamo per difendere il nostro salario e ridurre l’orario di lavoro, lottiamo insieme contro il riarmo, l’instaurazione di un’economia di guerra e le guerre del capitale, per una società senza sfruttamento e senza guerre.