Gli incendi in Amazzonia sono diventati un caso mondiale.
La più vasta foresta del pianeta, in questo momento di forti tensioni commerciali, è uno dei principali obiettivi del capitalismo internazionale, che negli ultimi 40 anni ha quintuplicato il controllo diretto del PIL del Brasile, un paese che mai come oggi è divenuto lo scenario della contesa tra le potenze.
Potenze attirate dalle grandi opportunità di lauti profitti offerti ai loro capitali dalle risorse naturali, in particolare da quelle dell’Amazzonia e della piattaforma Marittima Continentale – con petrolio, terre rare e altre risorse minerarie – rese più disponibili dal massiccio piano di privatizzazioni del nuovo governo brasiliano.
È così che l’Amazzonia viene distrutta dalla sete di profitto del capitale, da quello brasiliano a quello estero, americano, europeo – con Francia, Germania, Italia e Norvegia in primis, che oggi tanto starnazzano contro il crimine ambientale, – a quello cinese, giapponese, etc.[1] Al di là della propaganda, quanto sta accadendo dimostra che non c’è possibile conciliazione tra una produzione ai fini del profitto ed un utilizzo razionale e ambientalmente ‘sostenibile’ delle risorse naturali.
L’imperialismo italiano non è un attore di secondo piano in Brasile, e ha di conseguenza un ruolo rilevante anche nei danni ambientali del paese. Ad oggi sarebbero oltre 1000 le filiali e gli stabilimenti produttivi italiani operanti in Brasile; le infrastrutture e il comparto dell’energia elettrica sono una delle principali aree del loro potenziale sviluppo.
Bolsonaro l’incendiario
L’Amazzonia e i territori indigeni bruciano da molto tempo; ma è dalla entrata in carica del nuovo governo che il ritmo del disboscamento è aumentato in grande misura e gli incendi che ne seguono risultano l’82% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, più della metà dei quali in Amazzonia.
L’interesse del presidente e del suo governo per queste regioni è stato da subito chiaro: le risorse naturali sono ricchezza nazionale che va sfruttata, costi quel che costi, quindi si abbatta la foresta e la si incendi, si lascino gli indigeni morire di fame, si costringano villaggi interi a sfollare. “C’è molta terra per pochi indigeni”, le loro riserve vanno eliminate e i nativi dovranno ‘integrarsi’ con la popolazione.
Quanto alla preoccupazione per l’ambiente, “è un affare da vegani” (il Brasile si è ritirato dall’accordo internazionale sul clima).
Predoni e devastatori legali
A queste dichiarazioni sono seguiti leggi, decreti e provvedimenti che hanno solleticato i vari appetiti del capitale nazionale ed internazionale, che ha risposto presto intensificando non solo la distruzione della foresta, ma anche le invasioni delle terre indigene e contadine e la violenza assassina verso le popolazioni che le abitano.
Buona parte della base elettorale di Bolsonaro è rappresentata dalla ‘bancada ruralista’: latifondisti, impresari dell’agribusiness e dell’attività estrattiva principalmente. Costoro sono stati ben presto remunerati con un’azione politica a vasto raggio.
Le normative ambientali sono state sistematicamente ammorbidite e flessibilizzate a loro vantaggio; il grilagem* è stato riconosciuto e incentivato, il garimpo (ricerca di oro e minerali) nelle terre indigene sta per essere legalizzato; i movimenti popolari e indigeni che lottano per la terra e la riforma agraria sono criminalizzati e perseguiti. Si è liberalizzato il porto d’armi per i proprietari terrieri e di attività produttive; è stato reintrodotto l’uso indiscriminato di pesticidi riconosciuti tossici e cancerogeni per l’uomo e l’ambiente, prima vietati…
Bolsonaro inoltre ha nominato Ministro dell’Ambiente Ricardo Salles, noto negazionista climatico e inquisito per crimini ambientali; e ministro dell’agricoltura Tereza Cristina, leader storica dei ruralisti.
Il Ministero dell’Ambiente ha avuto un taglio di risorse di 244 milioni di R$, di cui 89 sottratti al bilancio dell’IBAMA (Istituto per l’Ambiente e le Risorse Rinnovabili).
Nato per la tutela ambientale e la protezione dell’Amazzonia, l’IBAMA è stato considerato dal presidente “un impedimento allo sviluppo della nazione”; già a febbraio 21 dei 27 sovrintendenti sono stati licenziati e nel corso di tutto il 2019 gli ispettori dell’istituto non sono potuti intervenire in Amazzonia perché costretti ad occupazioni in ufficio. La riduzione del 25% del budget ha intaccato il potere di intervento sul disboscamento illegale, sugli allevamenti non autorizzati, sul prelievo di minerali rari … diminuendo le contravvenzioni del 29% dal gennaio scorso, che corrisponde al 49% in meno di introiti.
Tutti gli organi deputati alla protezione ambientale sono stati sistematicamente smantellati.
Il governo ha modificato 16 articoli di legge del Codice Forestale, sburocratizzando la concessione di licenze per gli interventi invasivi nella foresta amazzonica, nel Cerrado e nella Mata Atlantica; ha disposto la revoca di 334 Unità di Conservazione e la sospensione delle ispezioni ambientali senza previo avviso.
Tutto ciò, più la certezza dell’impunità, ha incentivato l’azione criminale del latifondo, dell’imprenditoria agroalimentare, dell’industria mineraria, del legname e dell’energia.
Anche i militari, che hanno sostenuto la candidatura di Bolsonaro e ora siedono al governo occupando cariche di rilievo, promuovono questa c.d. politica di ‘interesse nazionale’. Coerentemente, visto che la dittatura militare è stata responsabile dell’internazionalizzazione dello sfruttamento dell’Amazzonia, ha per prima costruito strade e aperto accessi ai gruppi economici nazionali ed internazionali (ad es. alla US Steel, grande impresa mineraria statunitense).
Disastri preannunciati
Il “giorno del fuoco”, il 10 agosto scorso, era stato pubblicamente annunciato e riportato dai giornali del Pará e persino dalla Folha de São Paulo. Un’adunata di motoseghe e un plotone di incendiari si sono mobilitati per creare piste di atterraggio e molto altro; vi hanno partecipato proprietari terrieri e produttori agricoli, grileiros e commercianti, provenienti anche da altre regioni. Gruppi criminali già noti alla giustizia.
Anche IBAMA ricevette l’informativa e mandò una comunicazione al ministero, che però venne ignorata.
La regione più danneggiata dagli incendi è quella percorsa dalla BR-163 (foto sopra), che Bolsonaro sta asfaltando, e collega il Mato Grosso, regione con il maggior numero di incendi, ai porti del Parà.
E’ significativo che la mappa della distruzione degli incendi coincida rigorosamente con quella del fronte di avanzamento della coltivazione della soia.
Benché il presidente abbia licenziato il direttore dell’Istituto Nazionale di Ricerca Spaziale (INPE), colpevole di aver divulgato dati allarmanti sul ritmo di distruzione della foresta, e abbia sostituito l’istituto con un’impresa statunitense per monitorare gli incendi, il disastro è stato ugualmente registrato e diffuso da un satellite della NASA, che ha appurato come il numero di focolai da gennaio ad agosto 2019 sia il maggiore registrato negli ultimi 5 anni e il doppio del dato divulgato dall’INPE.
Latifondisti e industriali – Un incendio che avanza da decenni
Ma le foreste brasiliane bruciano da molto tempo.
Dagli anni ’80 e ’90 la frontiera agricola si espande con progressione accelerata in direzione centro-ovest. Gli elevati prezzi delle commodities negli anni 2000 hanno spinto ulteriormente questo processo, grazie al fatto che il latifondo si stava evolvendo tecnologicamente e finanziariamente, fondendosi con il capitale industriale e finanziario.
Nel 2003, con l’inizio del governo Lula, il latifondo occupava 214,8 milioni di ha. Con Dilma Rousseff già raggiungeva la cifra di 318 milioni di ha.
Nel 1984 il settore agroalimentare rappresentava il 12% del PIL e dopo la caduta al 6% nel 1993, ha ripreso a salire vertiginosamente fino al 23,5% nel 2015, con il governo di Dilma.*
I ruralisti avevano importanti portavoce nei ministeri del PT e godettero di larghi finanziamenti e agevolazioni per espandere i propri latifondi e soddisfare i voraci mercati cinesi.
Esaurita la terra nella regione centrale, si diressero verso nord e in Amazzonia, che demarca la nuova frontiera di espansione. Qui nel 1990 la produzione di soia era di 0,2 t; nel 2013 è balzata a 3,3 milioni di t. Nel 2018 il solo Nord ha prodotto 5,9 milioni di t di soia.
Fu questa frazione della classe borghese che, dalla rottura con il governo di conciliazione petista, si fece protagonista dell’eliminazione di Dilma e del sostegno aperto all’agenda golpista che trovò in Bolsonaro un sicuro alleato.
La rapina continua
Oggi l’Amazzonia conta 52.974 siti minerari, che occupano un’area di 1,6 milioni di km2. Il Brasile ne copre circa l’80%. Il capitale straniero ne sfrutta la maggior parte, con conseguenze devastanti per l’ambiente e la popolazione. Ne è un esempio la Hydro Alunorte, impresa norvegese che nel Pará ha scaricato nei fiumi e nei canali grandi quantità di scarti di bauxite, contaminando la regione.
Ai progetti minerari si affiancano quelli di espansione energetica. Il caso di Belo Monte è il più noto:
la megacentrale idroelettrica è stata progettata dalla dittatura militare e costruita sotto il governo PT, impiegando operai supersfruttati e provocando l’espulsione di intere comunità contadine e indigene.
Nell’Amazzonia sudamericana sono presenti 71 imprese petrolifere, principalmente internazionali; la privatizzazione in corso della Petrobras ne accrescerà la presenza in area brasiliana.
Ma l’Amazzonia non è solo minerali, legname, acqua, soia e bestiame. E’ anche un “latifondo genetico”, poiché contiene il 15% delle specie di tutta la terra, un patrimonio che attira gli interessi dei paesi centrali del sistema capitalista. La grande biodiversità è una riserva di valore per le banche del germoplasma a servizio dell’industria farmaceutica e cosmetica. Non è un caso che Germania e Norvegia finanzino il Fondo Amazzonia e i paesi del G7 e l’Unione Europea contribuiscano al Programma Sperimentale per la Protezione delle Foreste Tropicali (PPG-7), con l’appoggio finanziario della Banca Mondiale.
A questo si aggiunga l’etnobiopirateria: lo sfruttamento e la sottrazione dei saperi tradizionali alle popolazioni native, informazioni estorte a fini commerciali e per l’istituzione di brevetti. Sono queste le linee di sviluppo dell’”economia verde” in un contesto di capitalismo avanzato.
Nella fase odierna di guerra commerciale la collocazione economica del Brasile è in vantaggio competitivo, sia per l’alta produttività agricola, dovuta principalmente all’espansione del latifondo, sia per l’opportunità di coprire il mercato cinese della soia, prima soddisfatto dagli USA, tanto da diventare il primo esportatore per la Cina e il primo esportatore anche a livello mondiale.
Nel 2018, primo anno della contesa commerciale, le esportazioni brasiliane verso la Cina sono aumentate del 35% rispetto all’anno precedente, generando un avanzo commerciale di 30 miliardi di $. La soia ne occupa la gran parte. Oggi il Brasile è il quarto paese di destinazione dei capitali cinesi.
Capitalismo verde
Il recente accordo stipulato tra UE e Mercosur, che ha fatto parlare di neocolonialismo ai danni del Brasile, prevede che il Brasile diventi esclusivamente un paese fornitore di materie prime e importatore di manufatti e tecnologia dall’UE. Ma anche in Brasile gli europei sono tra loro in competizione per accaparrarsi le risorse del paese. La Germania, in vista della opportunità di allargare in Brasile i suoi mercati dell’auto, di prodotti chimici e tecnologici, non si è allineata alla minaccia di Macron di uscire dall’accordo Mercosur, perché l’agroalimentare francese è in competizione con quello brasiliano e rischia di essere perdente.
La Norvegia attualmente è la terza maggior produttrice di petrolio in Brasile (StatOIL, oggi Equinor) e con la Germania ha deciso per ritorsione al disastro ambientale di tagliare il miliardario Fondo Amazzonia, istituito per monitorare e combattere la deforestazione.
L’ipocrisia grossolana dell’“imperialismo verde” vorrebbe nascondere che il mercato cerealicolo del Brasile è completamente cartellizzato dai traders imperialisti che dominano il rifornimento delle sementi transgeniche, i fertilizzanti, i macchinari agricoli, i silos, la logistica e la distribuzione.
I quattro principali attori sono: le americane Cargill e ADM, la francese Dreyfuss, l’olandese Bungee.
Da sole detengono l’80% del commercio della soia del Mato Grosso, ma oggi sentono la concorrenza della cinese COFCA, della russa Sodrujestevo, della giapponese Mitsui e del gruppo Amaggi, diretto dall’ex governatore del Mato Grosso Blairo Maggi.
Queste imprese commerciano sementi prodotti da aziende a capitale europeo (ad es. la tedesca BayerCropScience).
Il capitalismo ecologico norvegese invece lucra sulla devastazione ambientale del Brasile con la statale Yara, maggior impresa di fertilizzanti del mondo, che ha il 25% del suo fatturato nel mercato brasiliano.
Bolsonaro risponde alla levata di scudi europea innalzando l’orgoglio dell’autonomia nazionale; in realtà è un socio di minoranza dell’imperialismo, da cui trae vantaggi per la propria classe borghese, e a cui ha consegnato parte delle imprese brasiliane (privatizzando le 17 maggiori imprese statali) e le sue risorse.
Con Bolsonaro il Brasile ha assunto la forma più barbara e violenta del capitalismo neoliberista e reazionario.
Ma in soli sei mesi il tasso di disapprovazione per il presidente è drasticamente salito dal 28,2% al 53,7%, e le masse proletarie, gli indigeni e i settori sociali schiacciati dai suoi programmi antipopolari stanno conducendo lotte coraggiose. Se sapranno approfondirle, unificarle e rafforzarle, in Brasile potrà aprirsi una prospettiva nuova, di riscatto rivoluzionario.
*falsificazione di documenti di proprietà di terre appartenenti alle popolazioni indigene e contadine
**vedi art. precedente LA LOTTA PER LA TERRA IN BRASILE
Fonti:
Esquerda Diário: 10,23 luglio; 22,23,27 agosto 2019
Sito PSTU: 27 agosto 2019
Il Manifesto: 27 agosto 2019
[1] I maggiori gruppi italiani presenti in Brasile sono Enel (che con la recente acquisizione di Eletropaulo è diventato il primo distributore di energia elettrica del Brasile), TIM, FCA, Pirelli, Techint, Ternium, Gavio, Atlantia, Intesa San Paolo. Geograficamente, oltre la metà delle aziende italiane sono concentrate nello Stato di San Paolo, ma si stanno affacciando nel Nordest (Pernambuco, Maranhão, Bahia) e anche nel centro (Goiás, Mato Grosso do Sul).