Nel Mondo, fame e “progresso” marciano di pari passo. La contraddizione, evidente quanto insanabile, è stata rilevata da un recente studio redatto dalle Nazioni Unite. “Tutto ciò è assurdo – ha dichiarato l’autore del documento, il sociologo svizzero Jean Ziegler -. Secondo la Fao, oggi il nostro pianeta potrebbe tranquillamente produrre il cibo sufficiente per sfamare 12 miliardi di persone, ovvero il doppio della popolazione mondiale. Ogni individuo, se produzione e distribuzione avvenissero secondo criteri razionali, potrebbe contare su 2.100 kcal al giorno. Fame e carestie non sono inevitabili: tutt’altro”.Alle parole di Ziegler, hanno fatto eco quelle di Anuradha Mittal, direttrice esecutiva dell’Oakland Institute, negli Stati Uniti. La Mittal, con l’aiuto dei propri collaboratori, si è occupata di studiare le cause della carestia che, nello scorso anno, ha devastato le popolazioni del Niger. “Alle radici della crisi, non ci fu la siccità, e tanto meno ci furono le cavallette, come tanti pensano – ha spiegato la ricercatrice -. Vi furono, invece, le sciagurate strategie di sviluppo, promosse nell’area dalla Banca Mondiale e da altri istituti internazionali”. Dati alla mano, scopriamo infatti che il 2005 non fu un’annata particolarmente malvagia, per i contadini locali: la produzione fu appena del 7,5% inferiore a quanto necessario per sostentare l’intera popolazione. “In parole povere, il cibo c’era – ha scritto la Mittal -. Nei campi, almeno. Ma non nei negozi”. E’ stato infatti calcolato che, nel 2005, acquistare un chilo di miglio nel Niger costasse più che acquistare un chilo di riso in un supermercato europeo. Perché tutto questo? E’ molto semplice. Secondo lo studio, gran parte del mercato agricolo locale si trova in mano a un ristretto numero di grandi proprietari. Quest’ultimi, “ligi alle filosofie del libero mercato, e ai dettami della Banca Mondiale”, a fine raccolto vendettero le derrate al miglior offerente: ovvero, agli stranieri. Così, la borghesia locale liquidò la produzione agricola: ci guadagnarono i proprietari, ci guadagnarono gli acquirenti. Ma si scatenò la carestia. Fame capitalistica.
“Questo è ciò che accadde in Niger – ha ammonito la Mittal -. Eppure, processi simili si stanno verificando, oggi, in tanti altri paesi del Mondo. L’apertura delle frontiere, la concorrenza su scala globale: tutto ciò sta pian piano falcidiando intere popolazioni. Nonostante il progresso, nonostante le nuove tecnologie. Penso al Messico, ad esempio: laggiù, la produzione cerealicola fece segnare trend positivi per secoli e secoli. O, almeno, finché il paese non entrò nel Nafta (North American Free Trade Agreement). A quel punto, i produttori locali non riuscirono più a tener testa alla concorrenza statunitense. Nel giro di pochi anni, ben un terzo del mercato cerealicolo messicano venne soppiantato dal ‘made in Usa’, e il prezzo del mais locale crollò di oltre il 70%. Le conseguenze, ovviamente, furono disastrose. Gli esempi potrebbero continuare”.
Del resto, le cifre parlano chiaro: oggi, il Mondo è sempre più affamato. Secondo la Care International, oltre 852 milioni di persone soffrono per la mancanza di cibo. Di queste, 170 milioni vivono in Africa. Nonostante gli sforzi fatti negli ultimi anni, il fenomeno non accenna a scemare: tutt’altro. Nel 1995, le Nazioni Unite si prefissero un ambizioso obiettivo: dimezzare la povertà nel mondo entro il 2015. Dieci anni dopo, toccò al Segretario Generale, Kofi Annan, ammettere che l’impresa era clamorosamente fallita: addirittura, i dati registravano trend opposti a quelli voluti. “Il numero degli affamati è in crescita, non in calo”, dovette confessare Annan.
Il problema resta dunque irrisolto. Addirittura, irrisolvibile: nonostante la produzione mondiale sia oggi in sempre più rapida ascesa, nonostante gli sviluppi tecnologici, nonostante tutto. Il Mondo produce cibo per tutti, ma non tutti possono ottenere cibo. A tale paradosso – assurdo quanto inoppugnabile – resta appesa, ogni giorno, la vita di milioni di uomini e di donne, in Africa, Asia, America Latina e altrove. Le logiche del capitalismo non hanno alcun riguardo per la vita umana: le mille guerre del Novecento – ultima quella in Iraq – ce lo hanno ampiamente dimostrato. Ciò che conta è unicamente il profitto. Da marxisti, sappiamo bene che non saranno certo le risoluzioni dell’Onu (figlia della Società delle Nazioni, che Lenin definì a suo tempo “un covo di briganti”) a risolvere tutto questo. Né tantomeno i “benevolenti” governi borghesi, che rappresentano quella borghesia imperialista, che della fame e della povertà è unica responsabile e unica beneficiaria.
Gli stessi sostenitori del capitalismo e del libero mercato sono costretti ad ammettere che questo sistema serve all’interesse dei pochi e non permette di soddisfare i bisogni primari di centinaia di milioni di esseri umani.
Solo il rovesciamento del capitalismo e l’instaurazione di una società senza classi, in cui la produzione sarà direttamente sociale e non più finalizzata al profitto permetterà che “il libero sviluppo di ciascuno [sia] condizione del libero sviluppo di tutti” (Karl Marx, Il Manifesto).
A.S.