LA DOTTRINA STRATEGICA DI WASHINGTON DEVE ESSERE INCENTRATA SULLE NUOVE MINACCE NUCLEARI

L’attacco preventivo non basta

H. Kissinger

LA pubblicazione del secondo
documento quadriennale dell’amministrazione Usa sulla strategia nazionale non
ha suscitato le controversie del precedente rapporto del 2002, nonostante
riproponga l’impegno per una strategia preventiva con le stesse esatte parole.
All’epoca della sua prima esplicitazione, la dottrina della prevenzione fu
attaccata in quanto contraria ai principi universalmente riconosciuti del
sistema internazionale, evolutisi nell’arco di tre secoli e sanciti nella Carta
delle Nazioni Unite del 1945. Sebbene le disposizioni della Carta fossero a dir
poco ambigue – ad esempio l’Articolo 24 vieta l’uso della forza contro
«l’integrità territoriale o l’indipendenza politica» di un altro Stato e
l’Articolo 51 riconosce il diritto universale all’autodifesa – nel complesso il
quadro giuridico ha funzionato abbastanza bene fino alla fine del XX secolo. Le
armi di distruzione di massa si sono diffuse con relativa lentezza e la
possibilità che potessero essere acquistate da gruppi estranei ai governi era
assolutamente inverosimile. Perciò l’estensione del diritto di autodifesa è
stata respinta: la comunità internazionale non accettava la definizione
proposta da un singolo Paese, che si riservava il diritto di esercitarla.

Il documento del 2006 è stato
accolto con meno ostilità, in parte perché altri Paesi avevano già sperimentato
le nuove minacce emergenti e in parte grazie a una diplomazia americana più
conciliante. Ha quindi preso piede l’idea che, essendo la prevenzione
integrabile nelle moderne tecnologie e nella prassi internazionale, è
indispensabile una certa revisione delle norme esistenti.

La strategia preventiva presenta un
dilemma intrinseco: si basa su ipotesi che non si possono provare. Quando il
raggio d’azione è massimo, la conoscenza è minima. Quando la conoscenza è
massima, la possibilità di prevenzione spesso scompare. Se gli ammonimenti di
Churchill fossero stati ascoltati per tempo, la piaga nazista avrebbe potuto
essere sconfitta con uno scotto relativamente basso. Dieci anni più tardi,
milioni di morti sono stati il prezzo per le scarse certezze degli statisti
negli anni ‘30.

La politica americana deve superare
questo elemento di incertezza. La questione chiave diventa come definire la
minaccia, e attraverso quali istituzioni opporre resistenza. Se ogni singola
nazione pretende di definire diritti preventivi propri, si andrebbe non
all’ordine, ma al caos internazionale. Alcuni principi universali e
generalmente accettati devono coincidere con il meccanismo della loro attuazione.
Qualsiasi altro approccio creerebbe ulteriori incentivi per la diffusione di
ordigni di distruzione di massa.

Naturalmente gli Usa, come qualsiasi
altro Paese, difenderanno i propri interessi nazionali vitali, se necessario da
soli. Ma nel loro interesse nazionale rientra anche la definizione
dell’interesse nazionale di altri Paesi in un modo quanto più possibile
parallelo al loro. Se il mantenimento dell’ordine internazionale si basa
principalmente sulla forza unilaterale, seppure superiore a tutte, si traccia
una traiettoria destinata a interrompersi.

Il primo passo è riconoscere che la
dottrina strategica americana non parla di quella che viene comunemente
definita azione preventiva. La prevenzione si applica ad avversari capaci di
causare danni gravi e potenzialmente irreversibili, con la volontà
(dimostrabile) di causarli in tempi brevi. Allora l’uso unilaterale della forza
viene più o meno accettato, con dispute sul significato del termine «in tempi
brevi». In questo senso gli obiettivi più ovvii sono le organizzazioni
terroristiche che generano minacce prima attribuite ai soli Stati sovrani. Non
possono essere oggetto di deterrenza in quanto non hanno niente di tangibile da
perdere e possono depistare l’origine dei loro attacchi. Né possono essere affrontate
con strumenti diplomatici, in quanto il più delle volte il loro obiettivo non è
il compromesso ma l’annientamento dell’avversario.

La questione più ampia sollevata
dalla dottrina strategica dell’amministrazione Bush riguarda quello che viene
comunemente definito uso preventivo della forza: misure in grado di impedire
minacce non imminenti ma potenzialmente distruttive, in altre parole impedire
il verificarsi di una situazione che alla fine richiederebbe un intervento
preventivo.

Ne consegue che la forza preventiva
non è applicabile a potenze nucleari avversarie già consolidate. E’ un
cambiamento radicale del sistema internazionale. Il sistema westfaliano si
basava sull’inviolabilità dei confini. Oggi la potenza, il raggio d’azione e la
velocità delle armi hanno reso questa definizione troppo limitativa. La
proliferazione nucleare diventa una delle questioni fondamentali della
diplomazia preventiva. Per le aspiranti grandi potenze, lo scopo è acquisire
armi atomiche il prima possibile e, se ostacolate, sviluppare armi chimiche o
biologiche, sia per la propria sicurezza, sia come strumento di politiche
rivoluzionarie o aggressive. Il risultato diplomatico dipende quindi in parte
dalla capacità o meno di generare sicurezza nel Paese a cui si chiede di rinunciare
al nucleare.

Come raggiungere questo equilibrio?
Una scuola di pensiero ritiene che il pericolo letale sia intrinseco al
processo della proliferazione. Fino alla scoppio della Seconda Guerra Mondiale,
si considerava legittimo che un Paese entrasse in guerra se attaccato o se
minacciasse l’equilibrio globale. Ma nel mondo contemporaneo la pietra angolare
del potere non è il territorio, ma la tecnologia. Le moderne armi di
distruzione di massa, per il solo fatto di esistere, aumentano la potenza di un
Paese molto di più di quanto poteva ottenere con qualsiasi acquisizione
territoriale. L’equilibrio del terrore precariamente mantenuto nell’era
bipolare si indebolisce ogni volta che un nuovo Paese si dota di armi di
distruzione di massa. La deterrenza diventa praticamente impossibile quando si
devono considerare contemporaneamente molteplici equilibri tra diversi attori.
L’insorgere di nuove potenze nucleari deve dunque essere impedito con l’uso
della forza.

Un altro approccio opera una
distinzione tra Paesi amici e non. Gli Usa non si sono opposti allo sviluppo
del nucleare in India, Pakistan e Israele, e invece hanno contrastrato le armi
di distruzione di massa in Iran e Nord Corea, regimi autocratici ostili con la
«fedina» internazionale sporca. Qualcuno ritiene che la migliore politica,
almeno in questi casi, sia quella di rovesciare i regimi. Questo implica che
gli Usa non si preoccupano tanto della proliferazione in sé, quanto del tipo di
regime che si arma.

Significa che l’America
acconsentirebbe l’acquisizione di armi atomiche a governi eletti? La soluzione
va affidata a una politica realistica e a una strategia saggia che riconosca la
minaccia intrinseca alla proliferazione stessa, dove un governo amico può
attenuare ma non risolvere il problema.

Un caso a parte sono gli interventi
umanitari, in circostanze che solo indirettamente minacciano la sicurezza
americana. In questi casi l’uso preventivo della forza può essere giustificato
non dalla sicurezza, ma dalla difesa di valori fondamentali per la società
americana e internazionale. Su queste basi è stato attuato l’intervento in
Kosovo. È stato anche un motivo importante nella decisione americana di
rovesciare Saddam Hussein. Ma l’intervento preventivo è stato di più difficile
applicazione nei casi di genocidio come in Ruanda e nel Darfur. Il fatto che
nessun Paese si sentisse direttamente minacciato ha bloccato l’intervento, non
facendo certo onore al sistema internazionale e ai suoi maggiori esponenti.

Queste prime applicazioni della
forza preventiva suggeriscono le seguenti conclusioni. La dottrina strategica
degli Usa è corretta nel sottolineare i cambiamenti nell’ambiente
internazionale, che inducono una qualche forma di strategia preventiva. Ma
enunciare la teoria è solo il primo passo. Il concetto deve essere applicato a
contingenze specifiche e concrete; le linee di intervento devono essere
analizzate non solo in termini di minaccia, ma anche di esiti e conseguenze. Le
conclusioni devono andare oltre le prese di posizione e concretizzarsi in piani
di intervento fattibili che comprendano anche un sostegno del Congresso
sufficiente ad assicurare il supporto dell’opinione pubblica. In definitiva,
una politica che consenta l’uso preventivo della forza può funzionare a livello
internazionale solo se le solitarie imprese americane saranno una rara
eccezione e non la regola della strategia.

Altri importanti Paesi devono
assumersi la stessa responsabilità nel prendere seriamente le nuove sfide e non
considerarle appannaggio esclusivo degli Usa. Un approccio comune, per quanto
contrario all’esperienza storica, può essere possibile perché quelle che erano
chiamate le «grandi potenze» non hanno nessun interesse a scontrarsi
militarmente tra loro. Tutte più o meno dipendono dal sistema economico globale.
Tutte risulterebbero minacciate (anche se non simmetricamente) se armi e
ideologie andassero fuori controllo. Sanno bene che, in caso di utilizzo delle
armi di distruzioni di massa o di grandi carneficine dovute a scontri di
civiltà, i loro popoli finirebbero col chiedere una qualche forma di diplomazia
preventiva. La sfida consiste nel creare un ordine internazionale accettabile
senza che per giungere a questo ci sia prima bisogno di sopravvivere a una
catastrofe.

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