ITALIA, POLITICA, ESTERI
CORRIERE Ven. 31/3/2006
SERGIO ROMANO
L’ESEMPIO ARGENTINO
Molti dei prossimi parlamentari saranno eletti
all’estero e risponderanno a interessi diversi da quelli degli italiani.
La legge sul voto all’estero garantisce un diritto di
voto più esteso che nelle altre nazioni: gli emigrati (e i loro figli) possono
non solo votare ma essere eletti (in FRANCIA fra gli emigrati eletti vengono
estratti 12 senatori, ma il Senato francese non approva il bilancio né vota la
fiducia al governo).
Questi parlamentari esteri dovranno soddisfare elettori
con richieste ben diverse dagli elettori italiani, e quindi risponderanno a
interessi ben diversi da quelli italiani, a prescindere dalla lista
d’appartenenza.
BUENOS AIRES – All’angolo fra l’Avenida Libertador e la
Calle Billinghurst un manifesto chiede al passante di votare per due persone
che lo guardano negli occhi con serena sicurezza: Dario Cesar Ventimiglia,
candidato al Senato della Repubblica, e Giovanni Jannuzzi, candidato alla
Camera dei Deputati. Il manifesto parla spagnolo ma il Senato e la Camera non
sono quelli della Repubblica argentina. Ventimiglia e Jannuzzi vogliono un
seggio nel Parlamento italiano e «corrono» per una lista denominata
«L’Unione-Prodi». Il primo è nato a Rosario nel 1958 e vive in Argentina da
sempre. Il secondo è nato a Roma nel 1935 ed è stato ambasciatore d’Italia a
Buenos Aires negli anni Novanta, ma vive in Patagonia.
La posizione del manifesto è strategica perché dietro il volto dei due
candidati s’innalza, al di là di un grande cancello, la facciata in stile belle
époque dell’ambasciata d’Italia.
Ma la maggior parte della campagna elettorale si è svolta nelle sedi delle
associazioni italiane, in qualche cinema o teatro. Vi sono state tribune
elettorali di Rai International, interviste, dibattiti. La stampa e la
televisione argentine hanno seguito l’avvenimento con simpatia. Per i lettori
che non sono riusciti a staccare gli occhi da Berlusconi, Prodi e altri
comprimari dello psicodramma elettorale italiano, è bene ricordare che vi
saranno in Parlamento, nella prossima legislatura, dodici deputati e sei
senatori eletti dagli italiani all’estero, e che l’Argentina è fra i Paesi in
cui il numero degli elettori potenziali (circa 350.000, un decimo
dell’elettorato mondiale) è più alto. Chi si affanna a calcolare il
rapporto di forze tra centrodestra e centrosinistra dopo le elezioni, farebbe
bene a ricordare che esisterà d’ora in poi nella politica italiana una
variabile rappresentata dal pacchetto dei parlamentari eletti al di fuori del
territorio nazionale, uomini e donne che hanno lasciato l’Italia da molti anni,
se non addirittura da due o tre generazioni.
Qualcuno potrebbe osservare che l’Italia ha finalmente deciso di allinearsi
alla pratica della maggior parte delle grandi democrazie.
Non è completamente esatto. Con il metodo adottato per la partecipazione
al voto dei suoi connazionali nel mondo, l’Italia è improvvisamente passata
dalla sua vecchia posizione di fanalino di coda a quella di «primo della
classe».
Nella maggior parte dei casi, infatti, i cittadini all’estero delle maggiori
democrazie partecipano alle elezioni nazionali in tre modi: inviano la loro
scheda al comune di cui sono stati residenti prima di partire, votano presso il
consolato della circoscrizione in cui abitano, designano un procuratore
residente in patria a cui conferiscono l’incarico di votare in loro nome; ma
scelgono sempre, in ciascuno dei casi, gli stessi candidati per cui votano i
loro compatrioti rimasti in patria.
Nel caso italiano invece gli elettori inviano la loro scheda al consolato,
ma votano per candidati residenti nei quattro grandi collegi elettorali in cui
Mirko Tremaglia, autore della legge, ha diviso il mondo: Europa, America
meridionale, America settentrionale e centrale, e un pot-pourri composto da
Africa, Asia, Oceania e Antartide. Vi sono altre differenze. In molti
Stati (la Gran Bretagna, ad esempio) gli elettori che hanno una doppia
cittadinanza possono votare soltanto se hanno conservato la residenza nel Paese
d’origine. In Italia, invece, una generosa legge sulla nazionalità ne ha
permesso la concessione a molti che l’avevano perduta e ha considerevolmente
gonfiato il numero degli elettori potenziali. In molti Paesi il cittadino
all’estero perde il diritto di voto se il suo espatrio ha superato un certo
numero d’anni (dieci nel caso della Germania). In Italia invece Davide
Cesar Ventimiglia, nato a Rosario 48 anni fa, può non soltanto votare, ma
candidarsi per l’Ulivo, e Antonio Aldo Chianello, nato a Rio de Janeiro 52 anni
fa, può fare altrettanto per Forza Italia.
Esiste un Paese, per la verità, dove il sistema elettorale ricorda quello
italiano. E’ la Francia, dove i cittadini residenti all’estero hanno il diritto
di partecipare alle elezioni nazionali e possono anche, al tempo stesso,
designare i loro rappresentanti in un’Assemblea consultiva (il Conseil
Supérieur des Français à l’Etranger) da cui vengono estratti 12 senatori.
Ma il Senato francese, nella Costituzione della V Repubblica, non ha né il
potere di approvare il bilancio né quello di votare la fiducia al governo ed è
quindi una Camera dimezzata. Nell’Italia «prima della classe» invece,
dodici deputati e sei senatori siederanno in due Camere gemelle che resteranno
tali verosimilmente per tutta la legislatura se il referendum del prossimo
giugno boccerà la riforma costituzionale del governo Berlusconi.
Che cosa faranno del loro voto, a Roma, i parlamentari degli italiani
all’estero? L’indicazione più interessante viene da un candidato argentino,
Luigi Pallaro, che ha ottime possibilità di essere eletto al Senato.
Pallaro ha ottant’anni e, alle sue spalle, una ammirevole carriera economica
come agricoltore (parecchi milioni di capi di bestiame, secondo i miei
interlocutori di Buenos Aires) e creatore di imprese industriali.
Dopo essere stato sollecitato dalla destra e dalla sinistra, Pallaro ha
deciso di creare la sua lista («Associazioni italiane in Sud America») e
ha lasciato intendere, senza arrossire, che in Parlamento avrebbe votato con la
maggioranza. Non ha torto. Se il suo collegio è in Argentina, il suo principale
obiettivo non è la soluzione dei problemi della madrepatria, ma la
soddisfazione delle esigenze dei suoi elettori. Chi, se non la maggioranza, può
permettergli di tornare a Buenos Aires con qualche concessione di cui vantarsi?
Resta da capire quali siano le concessioni che i parlamentari degli italiani
all’estero sperano di ottenere dal Parlamento italiano. Rai International
ha trasmesso negli scorsi giorni una tribuna elettorale a cui ha partecipato
una dozzina di candidati dell’America Latina. Quando il moderatore ha chiesto a
ciascuno di essi di riassumere il suo programma in due minuti, i candidati
hanno risposto in un italiano esitante, zoppicante e pieno di ispanismi
elencando fra le promesse agli elettori la pensione sociale (un assegno
mensile per ogni italiano all’estero, indipendentemente dai contributi
versati), assistenza sanitaria, rafforzamento dei consolati e del servizio
di cittadinanza, iniziative culturali ed educative. Mi chiedo se tutti si
rendano conto della differenza esistente fra ciò che un governo ha il diritto
di fare in patria per i propri cittadini e ciò che può legittimamente fare
all’estero per i propri emigrati. Vi sono Paesi (Australia e Canada per
esempio) che non hanno alcuna intenzione di tollerare la nascita nel loro
territorio di comunità «extraterritoriali», vincolate da rapporti di lealtà e
dipendenza con uno Stato straniero.
In Argentina questo rischio, apparentemente, non esiste. In un
editoriale del 21 marzo, La Nacion (il quotidiano che si vende in
Argentina insieme al Corriere della Sera) descrive le elezioni come «un
ponte fra l’Italia e il nostro Paese, legame molto benefico per ambo le
nazioni».
E aggiunge, forse con troppo ottimismo, che i parlamentari italiani provenienti
dall’Argentina «potranno occuparsi di tutti gli aspetti connessi con lo sport,
l’arte, la tecnologia e la ricerca, terreni fertili e poco esplorati delle
relazioni fra i due Paesi». Questa ottimistica apertura è comprensibile. L’Argentina
non ha dimenticato che vi sono almeno due circostanze in cui le comunità
italiane hanno reso alla patria adottiva un considerevole servizio. La prima
risale alla guerra delle Falklands allorché i rappresentanti degli italiani di
Argentina fecero pressioni sul governo italiano perché rinunciasse alla sua
originale posizione filobritannica e divenisse più comprensivo delle esigenze
nazionali argentine. La seconda è più recente. Quando il governo del
presidente Nestor Kirchner offrì ai proprietari italiani di bond argentini
(circa 400.000) un rimborso pari al 30% del valore originale, i
rappresentanti delle comunità italiane non andarono alla Casa Rosada per
spezzare una lancia a favore dei connazionali in patria. Capisco le loro
ragioni. E’ comprensibile che un emigrato dia prova di lealtà e gratitudine
per il Paese che lo ha accolto. Ma questi episodi sembrano confermare che
nessun partito politico italiano, nella prossima legislatura, potrà illudersi
di fare totalmente conto sui rappresentanti degli italiani all’estero, anche
quando sono stati eletti su una lista che porta il suo nome.