La censura sul web cinese? Nasce in Occidente

Fabio Cavaliera

Yahoo, Google, Msn e anche Skype, pur di fare affari,
hanno accettato le regole di Pechino

Rapporto di Human Rights Watch: «I grandi motori di
ricerca aiutano il regime»


Per sfruttare il mercato cinese i big di internet aiutano
il governo cinese nel censurare l’accesso al web


PECHINO — Una bella gara. Chi fa il lavoro più
sporco? Il regime cinese che oscura Internet perché lo ritiene un pericolo per
la sua stabilità? O lo sono per caso gli illuminati e democratici padroni
americani dei maggiori operatori del settore
(Yahoo, Google, Microsoft o
anche Skype) che tengono lezione alle guardie rosse della Rete su come
censurare o su che cosa «spegnere» dal cyberspazio?

Quei signori (è il caso di Yahoo) che persino si permettono di soffiare i
nomi delle persone da denunciare o arrestare perché osano utilizzare l’account
di posta personale come moderno spazio di pubblico dibattito? Già. È successo
in almeno quattro casi. E le vittime della delazione (i nomi: Shi Tao, Li Zhi,
Jiang Lijun, Wang Xiaoning) sono finite condannate per sovversione a otto-dieci
anni di carcere. «Grazie Yahoo»
.
L’organizzazione Human Rights Watch, sedi in Europa e negli Usa, ha
preparato un dossier di accuse molto aggiornate. Di quelle per le quali chi è
chiamato in causa dovrebbe arrossire di vergogna e chiedere almeno scusa

(ma è inutile farsi delle illusioni). Il risultato è persino comico: non sono
mica i cinesi a mettere il bavaglio al Dalai Lama, ai cattolici che non si
riconoscono nella Chiesa patriottica, agli attivisti dei movimenti democratici.
No. Siamo noi occidentali che censuriamo noi stessi. E siamo noi che
suggeriamo ai cinesi come si fa
. Un esempio? Google, dicono gli
attivisti di Human Rights Watch, per altro trovando conferma nelle parole degli
stessi responsabili dell’azienda statunitense, ha aperto lo scorso anno un
motore di ricerca per il mercato cinese. Non ha mica chiesto suggerimenti a
Pechino su quali parole rendere inaccessibili. Semplicemente ha creato —
autocreato — una chilometrica lista di termini vietati: libertà democrazia,
Tienanmen, Falungong
. Tutto ciò che crea imbarazzo è stato gettato nel
cestino. Insomma, Google si autocastrato.
Il dossier di 143 pagine cava la pelle a questi furbetti. Pechino è nemica
giurata della libertà di stampa e di informazione, nulla di nuovo. Ci sono 12
autorità che sorvegliano la Rete e c’è una legge, l’ultima del 2005, che rende
illegale qualsiasi libera discussione via web. Ma non è che pochi signori di
buon nome del capitalismo statunitense possano oggi proclamarsi paladini della
democrazia globale. Loro si difendono affermando che è meglio entrare nel
mercato cinese e dare agli internauti una possibilità per il futuro. D’accordo,
ma allora per quale motivo volare a Pechino e spiegare di nascosto le più
sofisticate scorciatoie tecnologiche che impediscono la navigazione in Rete a
cento milioni o più di utenti del Regno di Mezzo, già per altro bastonati a
sufficienza? Il paradosso finale è davvero la brutta conseguenza di
un’aggressione al mercato cinese avvenuta senza un minimo di riflessione etica.
Se in Cina è impossibile consultare il sito Internet della Bbc, mica di un
pericoloso gruppo terroristico, la responsabilità ricade innanzitutto su un
regime che continua a considerare ogni spiraglio di libera espressione del
pensiero alla stregua di un attentato alla integrità e alla sicurezza dello
Stato. Però se non ci fosse lo zampino, o qualcosa di peggio, di importanti
imprese occidentali del software, probabilmente non si creerebbero alibi a
regimi che non hanno ancora imparato a convivere con lo spirito liberale
.
Nel febbraio scorso, Microsoft, Google, Yahoo e Cisco furono messe sotto
accusa davanti al Congresso americano per questa loro cinica politica di
realismo. Nulla è cambiato. Le parole di Jack Ma, amministratore delegato di
Alibaba, braccio operativo di Yahoo in Cina: «Siamo un business. Gli azionisti
vogliono vedere i soldi». Anche se ciò significa macchiarsi la coscienza con la
delazione
.

Leave a Reply