- Argentina (9) – IL NUOVO PROTAGONISMO DEL PROLETARIATO ARGENTINO TRA SCIOPERI, INSORGENZE E GUERRIGLIA (1960-’75) – Parte terza. Dalla rielezione di Perón alla vigilia del colpo di Stato
- Argentina (8) – Il nuovo protagonismo del proletariato argentino tra scioperi, insorgenze e guerriglia (1960-’75)
- Argentina (7) IL NUOVO PROTAGONISMO DEL PROLETARIATO ARGENTINO TRA SCIOPERI, INSORGENZE E GUERRIGLIA (1960-1975)
- Argentina (6) – L’ARGENTINA DI ONGANIA: I RETROTERRA DI UNA CRISI
- Argentina (5) – “REVOLUCION LIBERTADORA”
- Argentina (4) – LA CADUTA DI PERON
- Argentina (3) – IL REGIME PERONISTA
- Argentina (2) – L’ASCESA DI PERON
- Argentina (1) – L’ARGENTINA PRIMA DI PERON
Venti di crisi
Il periodo “glorioso” del governo peronista inizia a declinare agli esordi degli anni ’50 del secolo scorso. Non si può comprendere la crisi che investe il peronismo se non la si riconduce ai mutamenti del ciclo economico del capitale internazionale e all’affermarsi del predominio statunitense in Sudamerica; fenomeni che spiazzano quella “Terza Posizione” di cui Perón si è fatto interprete.
J. E. Corradi (Op. cit.) parla del 1950 come l’anno in cui avviene tale “inversione di tendenza”; ma un po’ tutti gli studiosi del peronismo concordano sia sul periodo di inizio crisi, sia sulle dinamiche che ne stanno alla base.
La borghesia argentina, come abbiamo visto, ha potuto realizzare affari d’oro sull’export di prodotti alimentari durante e dopo la seconda guerra mondiale. A livello internazionale essa ha provato ad ergersi al rango di “potenza subcontinentale”: poggiando sui contrasti tra il declinante imperialismo britannico e il predominante imperialismo USA, senza disdegnare significativi accordi commerciali con l’URSS. Sul piano nazionale, con Perón, ha provato ad “emanciparsi” industrialmente, per dare un solido impianto produttivo alla sua ascesa e rompere la “dipendenza” verso l’estero.
Tutto ciò avviene in una situazione di ripresa del capitalismo a livello mondiale che vede l’America Latina marciare a tassi di crescita assai elevati (+ 2,7% medio annuo del prodotto lordo nel trentennio ’50-’80) e la stessa Argentina, negli anni ’50, superare la media dei paesi più sviluppati (D. Pompejano: “L’America Latina contemporanea”, Carocci -2006).
La visuale del “capitale nazionale” o “continentale” non dà però l’idea della dinamica strutturale che sta dietro ad un simile processo di crescita.
L’analisi del periodico “Comunismo” (gennaio-giugno,1995) registra in America Latina, per il periodo 1951-’55, la più forte entrata netta di capitali (33 mld di $, pari al 30% delle entrate), che nel ’56-’60 saliranno a 57 mld, superati solo dagli 80 mld dell’Asia sud Orientale. Un afflusso enorme, una “potenza di fuoco” che va a impattare con le “ambizioni” delle borghesie nazionali sudamericane.
La crisi che investe l’Argentina è infatti una crisi che va ricondotta al compimento ed al consolidamento del processo di integrazione monopolistica del sistema capitalista sul piano internazionale, in base al quale – in quel delicato frangente di “transizione” che vede impegnata la borghesia nazionale – il capitale straniero torna a sommergere le semi-colonie a colpi di tecnologie e macchinari. Arrivando ad impossessarsi della manifattura nei nuovi settori produttivi e di quote crescenti del mercato interno.
Gli stessi “surplus” finanziari derivati dai commerci del “periodo d’oro” (gli anni ’40), essendo rimasti in gran parte in mano all’oligarchia “esterofila”, favoriscono la penetrazione del capitale estero e attaccano le misure “protezioniste” e “stataliste” del governo peronista, facendo crescere in questo modo l’inflazione e il deficit della bilancia dei pagamenti.
Per supplire a quest’ultima “si chiedono, sotto forma di prestiti, “aiuti” all’estero, che aumentano il debito estero, che a sua volta aumenta ancora di più i deficit, rendendo necessario un sempre maggior incremento di capitale straniero.” (“Comunismo”, cit.)
Una spirale che, in breve tempo, avvolge e risucchia verso il basso un governo ed un regime – quello peronista – che sembravano avere davanti a sé un radioso futuro.
Col 1950 si ha il ribasso internazionale dei prezzi dei prodotti agricoli che si ripercuote nel paese, causando un calo della produzione di carne e cereali. Ed a catena: il taglio degli utili export, meno importazioni, difficoltà con la valuta estera. Due anni dopo si arriverà addirittura a importare grano dagli Stati Uniti!
Per L. Zanatta (Op. cit.) i termini di scambio per l’Argentina comincerebbero a peggiorare già dal 1948. Ad essi si somma la siccità del ’51-’52. L’inflazione cresce in media del 33% annuo, determinando l’inevitabile erosione salariale.
Come sottolinea Corradi: “Il problema alla base di queste difficoltà era la decisione del regime di non alterare la struttura agraria.” (Op. cit.)
Daniela Padoan (“Le pazze. Un incontro con le madri di plaza de Mayo”, Bompiani -2005) si sofferma anch’ella sulla mancata riforma agraria come importante causa interna della crisi, aggiungendovi pure gli oneri delle nazionalizzazioni (fatte con indennizzi), il fallimento nella creazione di un’industria pesante “nazionale” e la quasi assenza di un piano efficiente delle infrastrutture. Tutto ciò “richiama” alla necessità degli “aiuti esteri”…
Perón infatti si guarda bene dal toccare a fondo gli interessi di quella oligarchia agrario-finanziaria che lui stesso, ma ancor di più “Evita”, attaccano furiosamente nei proclami e nei comizi. La struttura di fondo del capitalismo argentino va sì modificata, ma non ribaltata…
Alle elezioni presidenziali del novembre ’51 egli ottiene comunque la piena riconferma. Anzi, se nel ’46 aveva prevalso con il 56% di voti validi, ora la percentuale di consensi raggiunge il 62,5%. L’intervento “statalista” del suo governo rimane massiccio ed i conflitti tra le componenti del sistema corporativo vengono scaricati sul debito pubblico; usando con molta maestria l’arma della “cooptazione” e della corruzione: non solo nella pubblica amministrazione, ma anche nei luoghi di lavoro.
È finita l’epoca del “Welfare a pioggia” che abbiamo descritto in precedenza. La dura legge del profitto e della competitività impongono di mettere in primo piano la produzione, la produttività del lavoro, “il “merito”.
Nel febbraio 1952 un “Plan de Emergencia” del governo impone il congelamento di prezzi, tariffe e salari per due anni. Si passa dalla serenata “justicialista” alla marcia funebre del “produrre-produrre-produrre”. Il che significa: i salari vanno commisurati alla produttività. C’è fame di capitali statunitensi.
Operai e sindacato peronista
La CGT si adegua senza esitazione. Il sindacato peronista appoggia il “suo” governo.
È stata all’uopo creata da quest’ultimo nei luoghi di lavoro una struttura piramidale gigantesca, fondata su vasi comunicanti di grandi e piccoli privilegi funzionali alla corruzione ed al carrierismo dei funzionari e anche dei delegati sindacali. I quali, adagiandovisi, vedono prospettarsi una inattaccabile “sicurezza sociale”. Non per nulla i vertici sindacali si allineano prontamente al produttivismo, dichiarandosi contrari agli scioperi, definiti dei veri e propri “attentati contro la rivoluzione.” (Zanatta)
Infatti, nonostante la pesante cappa corporativistica, scoppiano nel paese tutta una serie di scioperi che coinvolgono importanti aziende metalmeccaniche, dello zucchero, della conservazione di carne, della grafica, delle banche e ferrovie. Tali agitazioni vengono duramente represse con arresti e incarcerazioni.
Prendiamone debitamente nota, perché le lotte operaie del ’52 partono per iniziativa dei “Coordinamenti Interindustriali”, composti da Commissioni Interne e gruppi di delegati delle grandi fabbriche (in particolare del settore auto), sorti nel “fatidico” mese di ottobre 1945, quando Perón aveva chiamato a raccolta il movimento operaio per aprirsi la strada del potere. E in quel frangente, nota Raúl Zibechi (“Genealogia della rivolta”, Luca Sossella Ed. -2003), la CGT “aveva esitato”.
Tutto ciò sta a dimostrare che si è formata una generazione operaia “dipendente” da Perón o comunque ad egli “riconoscente”; ma non al punto da mettere in cantina la difesa intransigente dei suoi interessi di classe.
Detto ancora più chiaramente: per importanti reparti di avanguardia dei lavoratori, il peronismo va bene “solo” e “nella misura in cui” esso è l’espressione “genuina” del proletariato argentino.
La sinistra, compresa la componente rivoluzionaria, dopo circa un decennio di peronismo è ancora alle prese su come decifrare l’adesione ad esso da parte del proletariato, in primo luogo nei suoi strati più bassi. I lavoratori si sono venduti per il classico “piatto di lenticchie”? Oppure il motivo può essere più “oggettivamente” ricondotto alla urbanizzazione recente di ampi strati di operai privi di “tradizioni sindacali”?
Non tralasciando come questa ultima versione abbia un certo fondamento, il problema in realtà consiste nel non volere prendere atto di come la borghesia, col peronismo, abbia svolto egregiamente il “lavoro” di legare i proletari al “proprio” Stato: interpretando meglio dei marxisti il concetto che la “presa di coscienza” è un processo materialistico e non di “predicazione illuministica”. Intendendo per “materialistico” non solo questioni “puramente” economiche o sindacali, ma anche – ed a volte soprattutto – “questioni identitarie”, di “appartenenza comunitaria” (“Comunidad Organizada” la chiamerà Perón).
Dove il nazionalismo, spesso, in mancanza di alternative percepite dalle masse come percorribili, prevale sull’internazionalismo.
A tal proposito A. Rouquié (Op. cit.) ci offre uno spunto interessante quando parla del peronismo come “nazionalismo popolare”, “rivoluzione dall’alto”, ”clientelismo di massa burocratico”; un movimento, detto popolarescamente, mirante a: “dare un centavo per guadagnare un peso” (proverbio messicano).
Ma c’è dell’altro. La libertà dei lavoratori è “vigilata”. La coscienza di classe “è occultata dalla “coscienza di massa”.” Lo Stato populista “mediante la sua predicazione popolare e l’organizzazione dei lavoratori cui presiede, paradossalmente contribuisce alla costruzione delle classi e all’emergere tra gli operai urbani della coscienza di classe.”
Epperò di una coscienza di classe “nazionalizzata”, “statalista”, occorre aggiungere. Dunque, una “non coscienza”, in quanto negatrice dell’indipendenza di classe.
Seppur questa “non coscienza” si presenti con forte presa “emotiva” e “identitaria”: la “comunità argentina” che si contrappone all’ “Anti-popolo” (gli antiperonisti). Ritenute forze estranee ai “valori nazionali”, collegate col “nemico esterno”.
Il peronismo è un fenomeno double-face di matrice borghese, assai complesso, il quale – come abbiamo avuto già modo di osservare – non può comunque risolvere alla radice la condizione di sfruttamento capitalistico che pesa sulla classe operaia. Ed alla fine, neppure difenderne le condizioni immediate oltre i “flussi” di mercato cui è anch’esso sottoposto.
Infatti già con le agitazioni del ’52, seppur non siano maturate ancora tra i lavoratori cognizioni di un “peronismo senza Perón” o addirittura “contro Perón” (cosa che avverrà “traumaticamente” dopo circa un ventennio), possiamo affermare che – per la prima volta – il rapporto fideistico col “Capo” viene ad “incrinarsi”; permettendo così l’apertura di un lento (quanto tribolato) cammino verso l’affermazione di “avanguardie di lotta” di notevole impatto quantitativo e qualitativo.
Gli iscritti alla CGT passano da 434.814 nel ’46 a 2 milioni e 344.000 nel ’51 (su circa 7 milioni di popolazione attiva). Un tasso di sindacalizzazione che pone l’Argentina al primo posto in America Latina (Rouquié).
Ma non si tratta solo di “tessere di regime” se, come scrive Guillermo Almeyra (“Potere e contropotere in Argentina”, Datanews – 2004) “nel primo governo Perón, le fabbriche non si sottomettevano al funzionamento burocratico dei sindacati, e forti sindacati operai come la FOTIA (Federazione Operaia dei Lavoratori dell’Industria Saccarifera) scioperavano contro il governo peronista senza rompere con questo ideologicamente.”
Sempre secondo Almeyra (che ha vissuto in Argentina come delegato sindacale le lotte degli anni ’60), nel primo Perón (’46-’55) le Commissioni Interne decidono l’assunzione o il licenziamento del personale ed hanno potere di “controllo” sul funzionamento dell’impresa.
Tali prerogative contribuiscono a diffondere il mito del “socialismo peronista”. Mentre la spinta, proveniente da alcuni settori della CGT, ad organizzare “milizie operaie armate” per premunirsi contro i sempre ventilati “Golpe” militari è più degna senz’altro di nota, costituendo anch’essa un precedente che dispiegherà pienamente i suoi effetti negli anni a venire.
Un nuovo Golpe bussa alla porta
Perché si riparla di “Golpe”? Per vari motivi. In primo luogo per la pressione che l’imperialismo USA mette alle classi dominanti argentine. Perón si è già mosso nel senso di una “apertura” agli investimenti americani (Standard Oil of California, agosto 1953); inoltre assicura protezioni tariffarie agli stessi Stati Uniti, alla Germania Occidentale, all’Italia, nei settori dell’auto e della chimica ad alto costo. Ma è tempo di “Guerra Fredda” e Washington non tollera alcuna “velleità” indipendentista e neppure “approcci” commerciali o diplomatici con l’URSS ed il “mondo socialista” (la “Terza Posizione” di Perón).
In secondo luogo, si rompe il rapporto con la chiesa cattolica. Già l’attivismo di Evita a favore della “emancipazione femminile” (pur sotto stretta tutela), aveva sollevato da subito l’opposizione delle gerarchie ecclesiastiche.
In seguito, con la riforma costituzionale il cattolicesimo aveva sì ottenuto il riconoscimento di “religione di Stato”, ma l’istituzione del “Patronato Nazionale” sfila ai preti un canale vitale di sostegno e di influenza (1949). Qualche anno dopo viene tolto il sussidio alle scuole cattoliche e varata la legge sul divorzio (1954). Infine, sono private di effetti civili un certo numero di festività religiose (marzo 1955) e riaperte le case di tolleranza. Tempo tre mesi e scatta la scomunica per Perón.
Il governo reagisce scatenando gruppi di sostenitori, in gran parte operai, che assaltano chiese. Due vescovi vengono espulsi dal paese, numerosi sacerdoti sono messi agli arresti, mentre si intrecciano manifestazioni antiperoniste di studenti e di fedeli che assumono forme di protesta violenta.
Il motivo principale di una simile rottura va ricercato nella “modernizzazione” della società argentina; cosa di cui Perón deve tenere conto. Processo che porta inevitabilmente con sé la laicizzazione del costume e della morale, in particolare negli strati popolari.
Va inoltre considerato che la convivenza tra Stati “cristiani” e Chiesa cattolica, salvo qualche eccezione, presenta facilmente dei momenti di attrito se non di aperto contrasto; non foss’altro per l’ambizione da parte di entrambi di detenere l’ultima parola sulle “coscienze” delle persone.
A questi fronti di conflitto si aggiunge la ripresa del fermento all’interno delle FFAA.
Molti militari mal digeriscono lo “scollamento” tra Stato e Chiesa. E sono decisamente ostili alle “frequentazioni” internazionali di Perón, interpretate come “cedimento al comunismo” o come “velleitarismo” nei confronti degli USA. In particolare la Marina, legata all’oligarchia, crede sia giunto il momento di smetterla, per mantenere l’ordine, di pagare il “prezzo” del sindacalismo peronista.
Italo Moretti (“L’Argentina non vuole più piangere”, Sperling & Kupfer Ed. -2006) parla della divisione nell’Esercito tra gli “azunes”, che riconoscono la bontà della matrice nazionale e cristiana di Perón ma non ne condividono gli sbocchi “socialisti”, ed i ”colorados”, nettamente avversi alla sua politica.
In sostanza: nonostante il governo abbia ben “oliato” gli ingranaggi delle promozioni e delle cariche dentro le FFAA, queste non si rassegnano a dividere favori e prebende con altre categorie. Soprattutto ora che il piatto piange.
Inoltre, la morte prematura di “Evita” (1952), toglie di mezzo un fattore di fondamentale importanza per la politica “di massa” del governo. La sua autobiografia, titolata “La razón de mi vida”, viene imposto come adorazione di massa; la sua figura viene “santificata” e fatta oggetto della devozione popolare. Ma la seconda gamba di Perón non c’è più.
Nel 1953, col secondo Piano quinquennale”, si rafforzano gli investimenti nella siderurgia, nei trasporti, nell’energia, a scapito della Difesa e della Sanità. Ma il crollo dei prezzi di grano e carne (che continua) può essere solo temporaneamente smussato con (scarsi) sussidi all’agricoltura.
Di fatto, il precipitare delle importazioni di macchinari e materie prime mette anche settori dell’imprenditoria “nazionale” all’opposizione di Perón.
Una simile miscelatura di fattori porta allo “sfarinamento” del blocco peronista, con dimissioni di deputati e funzionari. Finché, il 16 giugno 1955, aerei della Marina bombardano la Casa Rosada. Gruppi di lavoratori accorsi in sua difesa sono mitragliati senza esitazione: si contano 356 morti. Come ritorsione, visto il ruolo antigovernativo assunto dalla Chiesa, è assaltata e incendiata la Curia di Buenos Aires. Si susseguono nel paese scontri tra peronisti e antiperonisti.
Perón proclama lo stato d’assedio, ma captando il rischio di una per lui disastrosa guerra civile, fa rapidamente marcia indietro: libera i prigionieri politici, permette agli oppositori l’uso della radio, si impegna a ricostruire le chiese distrutte, scaricando la colpa degli attacchi sui comunisti e sui massoni (Zanatta). Si dimette il ministro dell’Interno Angel G. Borlenghi.
Ma gli scontri continuano. Perón allora gioca la carta del referendum sulla sua carica, in un clima che resta tesissimo.
Anticipando tutti, il 16 settembre, a Cordoba, Esercito e Marina, sotto il comando del generale nazionalista cattolico Eduardo Leonardi, si sollevano, minacciando la marcia sulla capitale. Scoppiano nuovi, ripetuti e furiosi scontri, anche armati, con gruppi di lavoratori della CGT. A questi ultimi Perón aveva sempre negato legittimità.
A quel punto, il presidente fugge in Paraguay. Da lì si recherà nella Spagna franchista e per diciotto anni assumerà la regìa il suo ritorno in patria.
Cos’è il peronismo?
Per J. E. Corradi (Op. cit.) trattasi di una vicenda che segna il crollo di una “coalizione di classi diverse e di burocrazie istituzionali all’interno di una struttura capitalistica sostenuta da abbondanti riserve, che allentano i vincoli di dipendenza (dell’Argentina, NDR).”
Col “Golpe” del settembre ’55 si tornerebbe così, secondo lui, al “tutti contro tutti”…esacerbati dalla crescente vulnerabilità dell’Argentina alla penetrazione straniera.”
Come sintesi non è male. Si tratta però di vedere meglio in cosa consista questa “coalizione di classi” (che tale non è) e dunque di analizzare un po’ più a fondo l’essenza del peronismo.
Uno degli storici più accreditati del populismo, F. Finchelstein (Op. cit.), traduce la “terza via” peronista in “fascismo riformulato, maggiormente radicato nelle forme democratiche di rappresentanza.”
L’Autore nota come una simile esperienza, nata in Argentina, abbia poi preso piede in Brasile, Bolivia, Venezuela. Tale forma politica è “autoritaria” senza sfociare nella “dittatura totalitaria”. Saremmo dunque di fronte ad “un genere politico nuovo, non a una sottospecie…”
In base a ciò, Finchelstein assume a pieno titolo il peronismo nel filone populista:
“Il populismo moderno sorse dalla sconfitta del fascismo, col carattere di un nuovo tentativo postfascista di riportare l’esperienza fascista nel solco della politica democratica, creando in tal modo una forma di democrazia di regime autoritaria che avrebbe posto l’accento sulla partecipazione sociale abbinata all’intolleranza e al rifiuto del pluralismo.”
Lo studio e il contatto diretto coi fascismi europei degli anni ’30 porta Perón a “riformulare” quelle esperienze per garantire sviluppo e stabilità politica all’ Argentina dopo il “decennio infame” (‘30-’40).
Però, a differenza dei suoi riferimenti europei, il peronismo non “utilizza” sindacalmente la classe per inquadrarla in maniera corporativa (dopo averla bastonata); ma “poggia” socialmente su di essa, erigendola a “soggetto nazionale”, senza con questo fornirle gli strumenti di un potere politico effettivo.
Anzi, il peronismo elabora una ideologia “redistributiva” (il giustizialismo) in cui l’interesse di classe del proletariato è legato al beneficio materiale immediato e al “diritto comunitario”, “ispirati” comunque dal produttivismo e da un nazionalismo di stampo razzista/ “identitario”.
Tutto questo è possibile perché esso può usufruire di un ciclo di sviluppo capitalistico e di una crescita dei profitti unici nella storia dell’Argentina; spacciando per “controllo operaio” o addirittura per “socialismo nazionale”, ciò che invece è il risultato di una fase economico-sociale “eccezionale”.
La quale dà il destro a Perón, sull’onda della mobilitazione e delle lotte operaie, di implementare un regime borghese “double-face” e di fare del Partito Peronista (nato nel ’46) un partito “acchiappatutto”. Promotore di una mobilitazione di massa “permanente” guidata da un “credo” buono per tutti gli usi. (“Rifiuto di enunciare una chiara posizione programmatica”; “Per Perón l’eclettismo è un complimento” – Finchelstein)
Un “credo” il quale, poggiando così esplicitamente sulle masse e sulla mobilitazione di massa, risulterà a sua volta – in qualche maniera – “utilizzabile” dal proletariato nelle tempeste politiche che si stanno addensando.
Ma le differenze col fascismo “classico” non terminano qui.
Il sistema elettorale è mantenuto nel regime peronista. Lo Stato di diritto e la separazione dei poteri vengono seriamente “intaccati” ma non aboliti. Perón non elimina fisicamente gli oppositori. Mentre il fascismo “mobilita le masse in termini militari ma le smobilita in termini sociali, il peronismo fa il contrario…È un fenomeno “inclusivo”… il primo caso postbellico di democrazia populista.” (Ibidem)
In sostanza: il peronismo non può essere semplicisticamente tacciato di “fascismo”, pur essendo evidente la sua parentela con esso.
G. Almeyra (Op. cit.) insiste su un nazionalismo peronista che durante il primo Perón si sposerebbe col “continentalismo latino-americano” (influssi di esso sulla rivoluzione boliviana del ’52 e su quella guatemalteca del ’54; soppressione dei confini col Cile; sostegno in Brasile al successore di Vargas, Joao Goulart, in opposizione agli USA; mobilitazioni sociali latino americane sorrette dalla “Centrale Sindacale Continentale Peronista ATLAS).
Sono, crediamo, le propaggini continentali di un movimento che cerca di “usare” anche a quel livello l’arma del sindacato e del “progressismo popolare antimperialista”, per affermare l’Argentina come “nazione-guida”.
Una tendenza del genere, mai però sostenuta con forza, rappresenta comunque degli innegabili segni di “anti-imperialismo”: se non altro per il fatto che mette i bastoni tra le ruote al “gigante yankee” (“Il nazionalismo argentino è escludente e presta il fianco alla xenofobia, ma è anti-imperialista” – Almeyra).
“Balcanizzazione” trotskysta
Il problema di fondo, secondo noi, consiste nel decifrare il più oggettivamente possibile un fenomeno del genere.
Almeyra proviene dal trotskysmo e, nonostante il suo lungo e vario percorso politico in Argentina, Spagna e Italia, non ha mai abbandonato il vizio di fondo della casa-madre.
Che consiste nel considerare tutto sommato “rivoluzionari” movimenti borghesi-nazionalisti per il solo fatto di opporsi all’imperialismo dominante (in questo caso gli USA).
Qualora movimenti di tal genere riescano a trascinare le masse sfruttate (come in effetti fa il peronismo), la lente deformata della “doppia rivoluzione” (intesa come panacea mondiale buona per tutti gli usi) fa credere ai trotskysti alla Almeyra che occorra appoggiare” Perón per poi poterlo rovesciare più facilmente ed aprire i varchi per il socialismo… dal momento che lo stesso Perón avrà fatto gran parte del “lavoro”: nazionalizzando le industrie più importanti, instaurando suo malgrado il “controllo operaio” (e magari l’armamento di esso), colpendo i monopoli esteri, contrastando la politica dell’imperialismo dominante ecc.
Il tutto in un “crescendo rossiniano” di masse permanentemente sul piede di guerra; le quali, una volta constatato il rifiuto dei borghesi-nazionalisti a condurre a fondo la lotta, si renderanno disponibili a passare armi e bagagli tra i ranghi della minoranza rivoluzionaria costituita in “partito”.
A quel punto, essa non dovrà fare altro che raccogliere tale forza e scagliarla verso l’obbiettivi finale.
Uno schema di tal genere, che ricalca pedissequamente quello dell’Ottobre ’17, è inapplicabile all’Argentina degli anni ’40 e ’50. E come tutti gli schemi inapplicabili, deraglia facilmente nel romanticismo rivoluzionario.
Perché è inapplicabile? In primo luogo perché l’Argentina è già allora un paese capitalisticamente sviluppato. Popolato da moderne classi sociali, in cui il proletariato urbano è soggetto socialmente ben delineato; maggioranza degli sfruttati che si contrappone a tutte le altre classi. Non sono presenti residui feudali. Non sono presenti problemi di “autodeterminazione nazionale” (l’indipendenza argentina è del 1816).
È invece presente la questione, tipica delle semi-colonie, della “dipendenza” economica – e del relativo condizionamento politico – nei confronti dell’imperialismo.
Una questione che i rivoluzionari non possono liquidare con un’alzata di spalle; ma neppure affrontarla “populisticamente”, credendo di risolvere con la “tattica” e l’agitazione problemi che richiedono una solida impostazione strategica: concreta e nello stesso tempo internazionalista.
Una strategia che inquadri e sottometta ogni “questione nazionale” alla lotta del proletariato d’area (in questo caso l’America Latina). Preparando da subito gli sfruttati (operai e contadini poveri) alla rivoluzione politica e sociale contro ogni imperialismo e in opposizione ad ogni forma di nazionalismo.
Un processo che non esclude la messa in campo degli obbiettivi “transitori”, a condizione rientrino in un progetto di abbattimento del capitalismo e non di consolidamento del nazionalismo borghese.
Per cui non è sbagliato appoggiare i movimenti nazional-borghesi che si oppongono a tale “dipendenza” e sostenere misure “sociali”, “democratiche” e “stataliste” che via via si pongono nel corso della lotta (mantenendo sempre una chiara indipendenza politica comunista).
È sbagliato “mimetizzarsi” dentro tali movimenti, alimentare illusioni rispetto al loro vero contenuto di classe, far passare dalla finestra quella stalinista “rivoluzione per tappe” fatta uscire dalla porta solo un momento prima.
Invece, è proprio questo l’atteggiamento che attraversa i trotskysti argentini alle prese col fenomeno del peronismo. Con delle eccezioni; le quali, invece di risolvere il problema in gran parte lo aggravano.
Per la trotskysta IV Internazionale, in America Latina persistono ancora – nel corso della guerra e nel secondo dopoguerra – condizioni di “sub-feudalesimo”, “sub-nazioni”, “sub-borghesia”…cosa che spinge Osvaldo Coggiola (“Storia del trotskysmo in America Latina”, Massari Ed. -2016) a parlare di “primitivismo teorico e politico” della IV.
Il trotskysmo argentino si trasforma in una specie di “Centrale Latino Americana”, in cui il Gruppo “Octubre” (Jorge Abelardo Ramos) interpreta il peronismo come rivoluzione democratico-borghese di stampo “progressista” e ritiene che vada per questo appoggiata. Propugna l’”unità latino americana” nel senso della “formazione di un grande Stato nazionale” (?). Il Gruppo romperà con la IV nel 1948.
Abbiamo poi il “Grupo Cuarta Internacional” (POR) di Juan Posadas, situato su posizioni simili a quelle di “Octubre”, con una più marcata accentuazione dell’indipendenza “organizzativa” (?) del proletariato e una dichiarata “fedeltà” alla IV.
Da parte sua il “Grupo Obrero Marxista” (GOM) di Nahauel Moreno si presenta in netta opposizione al peronismo, ritenuto un “movimento reazionario di destra”, “servo dell’imperialismo britannico”, che otterrebbe l’appoggio del proletariato in quanto quest’ultimo sarebbe “narcotizzato dallo Stato” …
I sindacati peronisti, per il GOM, sono “semi-fascisti”, per cui occorre “distruggere” la CGT…alleandosi però col PCA e il PSA (ci si illude di “pescare” i resti di questi partiti dopo lo “spolpamento” di essi attuato da Perón).
È una posizione di “splendido isolamento”, negatrice del lavoro di massa, che cerca col “riposizionamento frontista” di superare le difficoltà dell’intervento politico. Praticamente un “laissez-faire” verso il peronismo, in attesa che questi affoghi nelle sue contraddizioni.
Stiamo pur parlando di raggruppamenti politici di impronta internazionalista: ammirevoli per impegno e costanza nel voler “fare politica” comunista, ma numericamente assai ridotti. E soprattutto estremamente frazionistici, in quanto politicamente confusi.
Nel 1953, al III Congresso della IV Internazionale, avviene la scissione. Prevale la linea del dirigente greco Michel Pablo, schierata con gli “Stati operai degenerati” (URSS, Paesi dell’Est Europa e Cina), considerati il “male minore” rispetto all’imperialismo americano ed alle potenze occidentali.
Quella che viene definita “integrazione nel movimento reale di massa”, sfocia nell’ entrismo verso i partiti di “sinistra”. Cioè nella politica di inserimento nei partiti opportunisti (staliniani e socialdemocratici) credendo così di “disarticolarli”, calamitando da essi la “sana base operaia”.
Per l’America Latina, Posadas (POR argentino) è incaricato di organizzare il “Bureau” continentale (BLA), in cui si dà la priorità al lavoro nei movimenti nazionalisti.
La crisi che ne consegue tra i partiti aderenti alla IV porta alla creazione del “Comitato Internazionale della IV Internazionale”, di ispirazione “morenista”.
A onor di cronaca: Ramos e Posadas passeranno col peronismo. La corrente “morenista” non uscirà dal minoritarismo partitico.
La crisi peronista e la caduta di Perón troveranno il proletariato argentino sprovvisto di una direzione rivoluzionaria coerente e radicata nella classe.
(Continua)
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